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Il Cinematografo visto dall’Etna

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 Avviso al lettore. Questa rubrica, poiché semestrale, non avrà forse cura di occuparsi di opere estremamente note o, soprattutto, di brutti film. Dunque non attenda, scorrendo o meno la lettura, una valutazione negativa a fondo pagina. Il cinema è forte, in salute, trepidante. Le stroncature, vi prego, altrove.

 Ci sono nomi che in Italia, ma non solo, dicono poco o niente. Forse perché troppo complicati. Perché complessi da pronunciare, da riscrivere senza l’ausilio di Google. Sono i nomi che, piaccia o non piaccia, cambiano più o meno silenziosamente la storia del cinema. Quelli che ridimensionano un po’ tutto. Che ridefiniscono i concetti antesignani di sguardo, scrittura, genere. E che purtroppo, tragicamente, sono in buona misura lost in translation – o meglio: in distribution – affidati a passaggi brevi o addirittura clandestini in sala. Dalla Corea del Sud, negli ultimi vent’anni, ne sono giunti parecchi. I più noti, naturalmente, sono Park Chan-wook, Kim Ki-duk e forse Bong Joon-ho. Seguono, a ruota, Kim Jee-woon, Lee Chang-dong, Hong Sang-soo, Im Sang-soo e Yeun Sang-ho. Chi di voi li trova solo buffi scioglilingua, scandalosamente, è in buona (cioè pessima) compagnia. E può ben cominciare, a questo punto ormai drammatico, dall’ultimo capolavoro qui in oggetto: lo splendido Goksung (The Wailing), di Na Hong-jin.

Una serie di brutali, improvvisi omicidi famigliari sconvolge un villaggio sino ad allora tranquillo. Un sergente di polizia, attivo malvolentieri nelle indagini, decide di andare a fondo dopo il coinvolgimento sempre maggiore della giovanissima figlia. Letta così, questa sinossi creata ex novo lascia pensare a un poliziesco/thriller. Ch’è in effetti il punto d’avvio della narrazione qui in oggetto, immersa in prima istanza addirittura nel grottesco. E poi? Poi, incessante, il diluvio. Un diluvio di suggestioni e ibridazioni: splatter, horror, ghost story, esoterismo. C’è di tutto. C’è soprattutto un arco, meraviglioso, per ciascuno dei personaggi principali a partire – ça va sans dire – dal protagonista, interpretato da un portentoso Kwak Do-won. Come già accaduto per il bellissimo esordio Chugyeogja (The Chaser), Hong-jin ribalta le regole del gioco con una facilità disarmante e una padronanza, francamente, annichilente.

 Non si può non rimanere ammirati dalla coesione registica di un carnaio che offre scene di cannibalismo estremo, esorcismi in salsa orientale, un’estenuante caccia all’uomo e un finale di teologia pura. Magistrale, d’altro canto, la complessissima direzione di caratteri così diabolicamente duali come Lo Straniero (Jun Kunimura), la Donna Senza Nome (Chun Woo-hee) e lo sciamano Il-Gwang (Hwang Jung-min), senza contare la miriade di comprimari perfettamente definiti. La delirante solidità della sceneggiatura, in tale incedere folle e folgorante, sposa la grande eleganza dei movimenti di macchina, mai troppo empatici e mai telefonati, sempre di un’ottima, incontestabile misura.

Se questa è davvero la nuova età dell'(h)or(r)o(r), il quarantunenne originario di Seoul è da considerarsi ormai tra i portabandiera, raggiunta la cima con un simile scacco. Torna alla mente quella domanda sull’albero: se cade in una foresta dove non c’è nessuno, fa ugualmente rumore? Ebbene: la stella di Na Hong-jin sembra già alta in cielo. Nonostante qui, a quanto pare almeno, soltanto in pochi abbiano alzato la testa.

 Voto: 8,5

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