La lotta del romanzo con la realtà è davvero una lotta epica*

Massimo Giannoni, Libreria
Massimo Giannoni, Libreria

Le teorie sui quanti predicano di possibili mondi paralleli in cui degli individui, in tutto simili a noi, sperimentano vicende molto somiglianti alle nostre in termini generali, ma con alcune varianti significative: mondi di cui non abbiamo percezione, che ci sfiorano, ma non interagiscono con il nostro. Ebbene, la sensazione dominante che ho provato (la prima persona è d’obbligo) leggendo Resistere non serve a niente, di Walter Siti, vincitore del Premio Strega 2013, è stata quella che il mondo raccontato appartenesse ad una “membrana” parallela, come viene definito scientificamente il piano su cui si svolge la vita di un universo contiguo. Ho dato la colpa a mie resistenze morali dovute ad una latenza di educazione cattolica, ho umilmente considerato la mia perdurante – e salvifica – ingenuità in termini di sesso e denaro, ma, pur con tutta la buona volontà, non ho trovato un senso, il passaggio infinitesimo di un contenuto anche minimo dallo scrittore a questa lettrice, forte, se si bada alle statistiche, ma debolissima di fronte all’ondata – incomprensibile – di libri, come questo, che intendono narrarci il presente in termini di malaffare, alta finanza, show-business, politica e annessi: in genere smutandati, gli annessi. Confidando nella buona educazione letteraria, secondo la quale il dovere di uno scrittore non è quello di mettersi dalla parte di coloro che fanno la storia, ma di quelli che la subiscono, ho atteso per pagine e pagine che da qualche parte sbucasse una posizione ideologica dell’autore nei confronti dell’orrendo protagonista Tommaso, da Pietralata, omaggio nel nome e nella provenienza al Tommaso pasoliniano: ma l’impressione, rafforzata da alcune ammissioni del narratore-autore, è che il mostro, partorito dalla sua mente, vada bene così, personaggio ributtante, eccessivo in tutti i sensi, ma simpatico. Siti ha scritto ancora una volta un romanzo poco romanzo, molto inchiesta (non capisco però perché il realismo – alla fine la questione rimane sempre la stessa – in Italia debba costituire un “problema”: da noi o si pubblicano storie che sfuggono ai canoni di questa categoria e rientrano, pur senza profusione di mostri e medievalismi astorici, nel genere fantasy, ovvero, quando la narrazione riguarda il nostro presente, ne ha tutti i possibili riscontri, persino i nomi dei vip della politica, dell’industria, della finanza sono esatti, l’impressione è che qualcosa non torni, che quel veritiero ambiente, quelle vicende in tutto e per tutto aderenti al vero, non siano credibili). Tommaso, un bambino di borgata, poi adolescente, obeso, bulimico (per pagine e pagine il ragazzo mangia disgustosamente velenose merendine confezionate, pensa costantemente al cibo, ingrassa e deborda di riga in riga), ma con il pallino della matematica, viene fatto studiare da un protettore, una specie di papà Gambalunga, per niente animato da intenti filantropici, interessato invece ad allevarselo come speculatore finanziario tra legalità e malaffare. È lo stesso Tommaso, reso umano all’età di diciotto anni da un’operazione di gastroplastica, ormai in carriera, a cercare Walter Siti, conoscendone in parte l’opera, affinché lo scrittore scriva la sua storia ab ovo fino al momento in cui si sono incontrati, per dare forma ad un se stesso che dice di non conoscere del tutto, per consentirgli di vedersi più chiaro: una specie di Coscienza di Zeno, scritta però dal dottor S. Per circa metà libro la storia sembra fare acqua da tutte le parti, mancano delle pezze d’appoggio, qualcosa non quadra, forse Tommaso non è stato chiaro abbastanza nel comunicare i suoi ricordi, o non è al corrente di tutta la verità, oppure ha barato: nella seconda parte i buchi vengono riempiti: un personaggio molto vicino ad ambienti mafiosi, o, tout court, mafioso egli stesso, rinarra allo scrittore Walter Siti la storia di Tommaso, facendo luce su un intrico tra mafia e finanza che assume proporzioni planetarie. Inutile dire che, come alludevo in apertura, sull’arida vicenda di banche e titoli (in certi punti piuttosto soporifera) si innesta una storia di sesso (d’amore non si può dire, anche se si intuisce che in qualche modo lo sia) in cui il corpo della donna è consapevolmente comprato e ceduto a fronte di un cospicuo bonifico mensile: che il trentenne Tommaso, fino a ieri nullatenente, senza nemmeno l’occhi pe’ piagne, può permettersi ampiamente di onorare. I due si perdono (si ritroveranno come due zattere alla deriva, nel finale), Tommaso intrattiene un’altra relazione con una donna animata da spirito di crocerossina, una scrittrice di scarso successo più vecchia di lui, non bella, l’esatto opposto dell’altra, la Gabry: in mezzo orge noiosissime, popolate da politici, uomini e donne dello spettacolo, contrassegnati da ottocenteschi ***, a garantire parodisticamente la veridicità della storia: e dunque la necessaria manzoniana cautela. L’impianto del romanzo è notevole, ma non eccezionale: pare si debba invocare, come si chiama, l’autofiction, per cui Walter Siti che dice “io” non è Walter Siti (d’altra parte non sì è autorizzati in alcun modo a considerare la vicenda come autobiografia, anche perché la biografia è quella di Tommaso e se W.S. fosse il W.S. reale, questo dovrebbe spiegare un bel po’ di cose ai tutori dell’ordine). Il narratore dichiara apertamente di dover ricorrere all’unica soluzione narrativa possibile: l’onniscienza, e lo dice malgré lui, come dovesse riesumare un cadavere in avanzatissimo stato di decomposizione. Poi però, qua e là, l’onniscienza si slabbra, anche perché lo scrittore-personaggio non sa quasi niente, non potrebbe nemmeno procedere: è inattendibile, e, ipersvevianamente lo ammette. Si notano delle falle nel sistema onnisciente (tempi verbali che non mi convincono del tutto: consideratele fisime di purista) non so se volute o meno. La lingua è priva di qualsivoglia abbellimento, in buona parte piatta, implosa per la massa collassante del contenuto. Siti scrive così, senza grazia, senza stile: tenta qualche futuristica e un po’ goffa espressione (mozzarelle croccanti, trentenne affilata come un ferro da stiro: vabbè), ma si guarda bene dal produrre lirismi e “romanzismi” (ci siamo capiti) di sorta; in genere una mimesi di ferro che però un po’ stucca: anche questo può costituire uno stile. Ho visto passare nel “romanzo” infiniti echi letterari, persino il Fitzgerald di Di qua dal paradiso, sicuramente Il piacere di D’Annunzio, nella doppia vicenda amorosa, tra inferno e, se non proprio paradiso, almeno tentativo improbabile di salvezza. Ma di questo vi parlo un’altra volta. Mi è piaciuto? Non lo so, davvero non lo so. *Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo, Marsilio, 2011

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