copertina cacciatori di frodo art TOSI
 
“La forza di un romanzo dall’ampio teatro
di rimandi letterari e cinematografici”

 

Che si può scrivere meglio avendo letto molto, riflettuto molto, è un dato incontrovertibile.  Consente un’immaginazione più ampia, la possibilità di fornire una molteplicità di sensi alla storia narrata, rendendola densa di echi, risonanze, che, al lettore in grado di coglierli, forniscono un piacere intellettuale impagabile: cosa che non si incontra facilmente sui sentieri del romanzo contemporaneo, specie italiano, con troppi esemplari fiacchi già in termini di plot, per non parlare di lingua: in troppi casi povera, priva di suggestioni. C’entra molto il gusto, e il mio è probabilmente un po’ da lettore “parigino”, avrebbe detto il Berchet, mentre a me pare che la più parte abbia gusti da “ottentotto”: la questione del gusto mi sembra, però, sempre più una scorciatoia con cui tagliare spazi e tempi della riflessione critica.

Durante i mesi estivi ho letto molto, più del solito, autori stranieri e qualche italiano. Di Siti ho già detto, proprio qui, degli altri taccio, per lo migliore: tranne che per La resa, di Fernando Coratelli che ho trovato un libro godibile, fresco, sincero, e allo stesso tempo costruito con attenzione e con una certa cura espressiva, nonostante, o proprio per, i dialoghi fittissimi dei personaggi, la vicenda molto ancorata alla realtà, anche se immaginaria (non distopica, per carità).

Ma oggi vorrei parlarvi del mio nordest, che non è un campione di cultura, di quel nordest che “tira”: meglio dire che “tirava” (anche in quel senso, sì, anche in quel senso) attraverso un libro assolutamente magnifico che mi ha fatto pensare che sul fronte italiano non tutto è perduto, che può spirare aria nuova.

Un uomo, tutti i giorni, da un tempo che pare immemorabile (tanto che all’inizio ti chiedi se per caso quella sarà una storia di morti, condannati a ripetere nell’aldilà, non sapendo di essere morti, quello che hanno compiuto in vita: a quel punto il libro ti ha già catturato), percorre circa dodici chilometri di ferrovia su un binario morto, per andare a riprendersi la moglie, uscita all’alba, in camicia da notte, spinta dalla reiterata, sempre identica, ossessione di andare a morire stesa sui binari, dopo una certa curva, in modo che il treno non possa evitarla: solo se sopraggiungesse, quel treno. Esce sul far del mattino, con qualunque tempo, e lui, imprenditore veneto, smaltitore di rifiuti, pazientemente, ostinatamente (dopo un po’ smettiamo di chiederci, per esempio, perché Augusto, questo il nome, non blocchi la moglie all’uscita, risparmiandosi i dodici chilometri di andata e i dodici di ritorno), la segue. Si siede sui binari, si accende una sigaretta, le parla: lei non risponde, non parla più, è un automa, un fantasma bianco e docile, che vuole morire, “che aspetta che il treno venga a farle rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume”. La storia si snoda sui binari come gli ingranaggi concatenati di un treno: procede sfruttando il movimento in avanti e all’indietro, come i bracci di una vecchia locomotiva a vapore. Così Augusto ripercorre la sua vicenda personale, l’infanzia e l’adolescenza in compagnia di un fratello gemello diametralmente a lui opposto, di nome Cesare, a siglare, quasi un paradosso, un legame indissolubile nel nome altisonante Cesare-Augusto, di un padre fascista e una madre ipercattolica: una famiglia tipica del nordest laborioso e tanto perbene. Al contrario del fratello irregolare, Augusto si sposa con Elisa, hanno un figlio: ma le crisi di panico della moglie, unite ad altre drammatiche e meno drammatiche debolezze, condurranno ad esiti da tragedia. Come un rapsodo, ricorrendo ad espressioni formulaiche da poema omerico o da salmo biblico, con la stessa caparbietà che gli ha consentito di raggiungere un sicuro benessere, Augusto rievoca ogni giorno un mondo che si percepisce come ormai defunto: tutto quello che doveva accadere è già accaduto; ne veniamo a conoscenza tessera dopo tessera, cosicché scopriamo che niente è mai come sembra, che tutti emblematicamente hanno il loro fardello di colpe inconfessabili, tranne l’innocente Daniele, il figlio. Augusto si porta dietro una sempre più consistente nuvola “al guinzaglio”, fatta dei suoi e altrui peccati da espiare. Il treno che non può passare su quel dannato binario morto si materializzerà all’improvviso sotto gli occhi del febbricitante protagonista, mentre la nuvola metaforica, quella specie di aquilone di pensieri sempre più cupi, si addenserà così tanto da rovesciare in terra una valanga d’acqua, provocando lo straripamento del Piave, fiume “mormorante”, “calmo e placido”, che da archetipo di vita, può trasformarsi in portatore di morte (oggi cadaveri di pecore, ieri cadaveri di soldati della Grande Guerra).

La storia è di quelle che strappano l’anima, impietosa nello stilare il repertorio dei guasti di un’educazione cattolica, al riparo di solide convinzioni che si riveleranno via via inadeguate a garantire non solo la felicità, ma almeno la comprensione del mondo circostante, a cominciare da quello familiare. Fin qui niente di nuovo: un dramma borghese, si direbbe, affabulato alla maniera del monologo interiore, nella migliore tradizione novecentesca. Ma la forza del breve romanzo è nell’ampio teatro di rimandi letterari e cinematografici che mette a disposizione: nei riferimenti espliciti e meno espliciti a film e libri e opere (colpisce, tra le altre, in apertura, l’allusione a I quindicimila passi, di Vitaliano Trevisan, libro che chi scrive ama intensamente e approfitta per consigliarvi, ritenendone l’autore un grande della nostra letteratura contemporanea), nelle tonalità bibliche che accompagnano l’emergenza, dal fiume sotterraneo della coscienza, di fatti e associazioni mentali; la sua energia, infine, è nel miracoloso impasto immaginifico e linguistico che ne consegue. L’impianto drammatico si sposa bene con l’intento ironico alla maniera di Kafka e di Pirandello: i personaggi sono sei, l’autore è uno di loro, tutti hanno bisogno che lui ricomponga il quadro, ne faccia emergere i motivi di stridore: l’amore, l’orrore, la follia, l’incomprensibilità del vivere, lo spaesamento, lo scacco.

Il libro è Cacciatori di frodo, di Alessandro Cinquegrani, edito da Miraggi, candidato al premio Strega.

 

 

 

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