Alessandra Sarchi per l'Estroverso

Parola d’Autore

Per molto tempo il mio rapporto con la scrittura è stato come quello che Virginia Woolf attribuisce al suo giovanissimo Orlando: “Al pari di ogni giovane poeta, egli era immerso in una descrizione della natura e, spinto dal desiderio di conferire al verde l’esatta sfumatura, cercò con lo sguardo l’oggetto medesimo, il quale era per l’appunto un cespuglio d’alloro che cresceva sotto la finestra. S’intende che dopo di ciò non riprese a scrivere. Il verde della natura è una cosa, il verde in letteratura è un’altra cosa. (…) Basta che uno veda dalla finestra api e fiori, un cane che sbadiglia, il sole al tramonto, e pensi “quanti soli vedrò tramontare ancora” ecc. ecc. (pensiero troppo noto perché meriti qui di essere svolto); e tosto lascerà cadere la penna, prenderà il suo mantello, uscirà a grandi passi dalla stanza e incespicherà in un cofano istoriato”.

L’inimicizia fra la natura – o vita – e le belle lettere che Virginia Woolf dichiara con tanta impertinenza e acume è stata per me, negli anni, un cruccio e un alibi: il mondo dell’esperienza mi appariva così multiforme, attraente e pronto a cambiare di continuo per intensità e qualità che non mi sentivo mai pronta a fissarne l’esatta sfumatura, pur desiderando di farlo e pur avvertendo la necessità a verbalizzarne in forma scritta il flusso.

L’alibi consisteva nel fatto che la vita era più potente, e forse anche più imprevedibile e interessante, il cruccio stava invece nel fatto che l’intensità di quello che vedevo, provavo, pensavo, anziché diventare parola, si perdeva coi giorni, senza la garanzia di rinnovarsi all’infinito. Certo, avrei continuato anch’io a uscire col mantello – questo correlativo oggettivo delle grandi avventure del pensiero e dell’anima – forse non sarei nemmeno incespicata in un sarcofago antico con storie, ma più banalmente nei bordi stessi del mio mantello fatto di passione, slancio, velleità, narcisismo, paura, solitudine perché per decidere di scrivere bisogna aver fatto i conti con tutte queste cose, ed essere pronti a rifarli ogni volta. Questo sul piano esistenziale. Poi su quello teorico era già attiva una domanda che tutt’ora mi pungola: come fare a racchiudere in una sola storia, in una sola frase, in una sola parola, insomma in una forma che per essere tale deve darsi come unica, ciò che invece nella vita avviene in maniera disseminata non ordinata, spesso senza un disegno e una direzione di senso? Avrei potuto rimanere inchiodata a questo interrogativo, se non fosse intervenuta una cesura così forte da obbligarmi a non rimandare più, a non prendere più come scusa l’esterno colorato e multiforme, ma a confrontarmi con il limite estremo della mia vulnerabilità fisica, della possibilità di esserci ancora. A seguito di un incidente di auto e di una lesione spinale che mi fa vivere su una sedia a rotelle, ho capito che la scrittura era fra le poche cose che non solo mi avevano tenuta in vita, ma alla quale potevo pensare di dedicare le mie giornate. Come se fossi scampata al diluvio universale e avessi trovato rifugio dentro l’arca di Noè, scrivere coincideva a quel punto con la necessità di rinominare le cose, di ricreare il mondo. Non avrei probabilmente iniziato a scrivere se prima non l’avessi già fatto; ho sempre scritto e inventato storie, da che mi ricordo, per i compagni di scuola da piccola, per mio fratello quando ancora condividevamo la camera da letto, per me stessa. E di scrittura era in gran parte fatto anche il mestiere che mi ero data: la storia dell’arte.

Un lungo tirocinio e una mediazione che poteva rimanere un velo opaco, che è caduto invece insieme all’illusione della salute, della giovinezza, della felicità, ed è stato allora che non ho più trovato un’alternativa al dire, a scegliere delle forme, delle storie, dei personaggi in cui travasare la vita, per toglierla alla morte. Nessuna originalità, in merito. Secoli e generazioni di poeti e scrittori mi precedono nella scoperta del legame fra scrittura e morte, ma questo è stato il mio particolare modo di incontrarlo: sulla pelle, in senso letterale. Io scrivo per essere meno morta, per sottrarre qualcosa al morire quotidiano, che spesso è impercettibile, a volte è un fragoroso incidente. Ciò non mi dà nessuna prospettiva tragica ulteriore, bensì vedo dietro ogni atto di scrittura una potente, volontaristica, utopica e per questo molto umana affermazione della vita contro la morte. Chi scrive lotta contro di sé, contro i propri demoni, contro la pigrizia, contro la mancanza di senso, contro il mondo, e in ultima analisi, anche quando non se ne rende conto, lotta con la morte. Si ribella alla cancellazione delle contingenze che siamo e siamo stati, alla distruzione del tessuto cangiante delle nostre vite così unico nella percezione soggettiva, e così spesso inadeguato rispetto ai desideri e alle idealità che ci hanno attraversato. Non so se in principio fu davvero il Verbo, ma di sicuro il verbo è un’arma molto potente, la fiamma che può accendersi contro il buio, creando un universo di simboli che sono baluardo e difesa contro il niente cui tutto, facilmente, può ridursi. La scrittura è una ribellione che inizia da lontano, la prima volta che ti accorgi che l’immaginazione ti porta altrove. Questo chiedo ai libri che leggo e a quelli che scrivo: di creare uno spazio e un tempo, un altrove in cui persone e cose abbiano una vita che dica o illumini per contrasto la nostra quotidiana fatica di esseri caduchi.

 

 

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