annamaria-ferramosca

parola d’autore

Ciclica è il  nostro tempo. Il tempo che attraversiamo e perdiamo, trascinando colpa e bellezza per poter ricominciare ogni volta. È la mia visione-ossessione del cerchio, che si nutre di incontri e alimenta una ricerca che vorrei  sempre corale, percepibile  – l’ego spinto nell’angolo –  nel  sottile dialogo tra i testi. In epigrafe alla sezione Ciclica campeggiano i versi di Saramago: quando tacerà la personale voce/il coro occuperà il posto reso vuoto dall’assenza.

Ciclica è la mia sete ricorrente ondulante di senso, resa più acuta e bruciante per aver io sfiorato un giorno la Soglia ultima, quella che ferocemente spinge a filtrare l’essenza del vivere e del pensare, quella che ci fa guardare  a quel che davvero di noi potrà restare di umano e benevolo, a riconoscere la pienezza dell’essere insieme, del convivere pacificati. Questo sostare sul precipizio fa sentire con limpidezza le ragioni primordiali del vivere e del morire, la loro ferma indicazione a farci protettori di un equilibrio che ci salvi tutti, umani e natura.

E alla ricerca di senso, che procede per onde, per lampi – come avviene in poesia – spinge inesorabilmente questo ripetersi incessante dell’errore, questo nostro continuare ad essere schiavi dei contrasti, questo sentirci espropriati dell’umano, dell’incontro vero, oscurato dalle nuove divinità  mercificazione-individualismo-corsa ipertecnologica.

Ciclica è pure l’augurio che gli urti inevitabili della comunicazione larga tra le genti diventino  urti gentili, spingendoci ad invertire la tendenza alla disumanizzazione, a governare  le nuove ibride identità con l’antico gesto ospitale e nuove possibili lungimiranti soluzioni.  È  il desiderio di nuove albe, nuove rifondazioni, nel pensiero del legame che tiene unite tutte le dimensioni dell’umano, che è la consapevolezza di essere tutti, fianco a fianco, in attesa dell’imperscrutabile.

copertina-ferramosca

  

dalla sezione  Techne

scelgo  mi piace  condivido

soltanto se

la posa non è teatrale    se intravedo

il capo rasato sotto la pioggia

la stanza fiammeggiare

allontanarsi il punto cieco

l’urto mi chiedi l’urto ma

sei virtuale    un’ipotesi una

finestra sul vuoto    poi non so

quanto davvero vuoi

 farti plurale

dimmi se chiami per conoscermi o solo

per riconoscerti 

chiami chiami dai tetti

da eccentriche lune chiami da

nuvole    pure dal basso chiami  

voce di fango che mi macchia il petto

segna la fronte    pure

si fa lacrima    cristallo che

taglia il respiro    

stiamo come in un rogo a far segni attraverso le fiamme

malferme sagome stordite da mille nomi  

la lingua disartícola e l’audio

sarebbe comprensibile soltanto se

intorno il rumore attutisse

se fossimo

puro pensiero    silenziopietra

statue serene dal sorriso arcaico

ai piedi un cartiglio e 

                                      lampi negli occhi

*

*

dalla sezione Angelezze

alberi

non sappiamo di avere accanto mappe di salvezza

dispiegate nei rami

gli alberi sono bestie mitiche

invase dall’istinto    fieri suggerimenti

restare accanto

non per generosità ma per pienezza

— intorno l’aria splende in rito di purità —

la terra tenere salda

perché sia quiete ai vivi

gli alberi hanno strani sistemi di inscenare la vita

prima di descrivere la morte

s’innalzano 

con quei loro nomi di messaggeri

le vie tracciate sulle nervature

lo sgolare dei frutti

sii migliore del tuo tempo  dicono

devo

far correre quest’idea sulla tua fronte

devo   

e tu su altra fronte ancora

e ancora   prima

                           che precipiti il sole

*

*

dalla sezione Urti gentili

urti gentili

mi  manca la lingua   mi manca

quella timidezza di vocali aperte

di  zeta dolce nel grazie

un incurvarsi della voce in gola

come a piegarla fossero le pietre

salentine del ricordo o forse

una malinconia residua della nascita

ingorgo che resiste

allo sperpero del vivere

furore dei cieli di una volta

grida bianche dei dolmen che insistono

nel vedere il mattino sorgere

sulle rovine   ogni  volta

qualunque sia l’inclinazione della luce

mi manca  quella strana paura  

prima di ogni viaggio 

come un sottile rifiuto della distanza

come di albero che impone alle radici

 un limite all’espandersi e si concentra

sulla cura dei frutti      

pure amo

tutto questo calpestio di genti nella città

l’impasto lento di animelingue 

il rompersi dei meridiani   l’inarcarsi dei ponti per

            urti gentili 

questo annodarci annodando

i cesti della fiducia con antiche dita

*

*

 

dalla sezione Ciclica

 

revisioni

errore: non essere rimasti accanto al fuoco di fila

con occhi di cane a implorare o — muso in alto — ad abbaiare 

urgenza del mutare

un grido-scheggia che trapassi la retina

apra varchi inattesi

un tempuscolo rovente che accenda

la permanenza stabile del coro

torre inattaccabile dove

le lingue si traducono solo sfiorandosi

così i fallimenti possono mutare

in categorie di seduzione

come la catena trasmessa dal seme al frutto

nonostante il  marciume   il trambusto dei rami

 

*

*

 

pagine ancora per voltare pagina

ancora

un sangue abbiamo  consapevole

di voler coagulare   come fosse troppo nobile

per  l’uscita selvaggia dalla vena

umori fertili abbiamo 

che premono sulla fioritura  

e profili aggraziati a chiamare

la tenerezza degli urti le gratitudini

abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura 

ma nell’aggrottare appaiono    onde    

un oceano che trascina

il mio corrimano di legno    tentativi di ponti

capre e pastori erranti  (hanno il nostro profilo)

pani   tastiere   reti

incastrate tra rami di olivo e note di sassofono

e  — a ondate —  pagine   

immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)

pagine ancora   

                         per voltare pagina

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