Favola di Physicus-Physiculus

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Endre Balint

C’era una volta Physicus. C’era Physicus e c’era una Scientia. Nell’avventura sostanziale era il profumo naturale della chimica a distinguere veggenze, a mostrare antiche incognite e, dal grigio neuronale alla più guarnita idea sulle remote stelle, Physicus guazzava dentro l’ingranaggio: ad ogni sforzo perforava il folto di un possibile, frammentava sfere e nascevano segmenti conoscibili sotto un vero sole. Finché una mutazione nebulosa forse in raggi gamma (o forse una trovata per guazzare al fondo) cangiò di netto Physicus in Physiculus: la Scientia così pareva dolce dolce, una carezzevole scientiola senza potenza, senza la legge inesorabile a tormentare il vetro alla clessidra. Seppure senza-tempo, c’erano i segni della specie nei tratti della pinna: erano mito e antropologia o letteratura della psicologia. Come una grafia misconosciuta su una busta o un universo senza le qualità sottili, erano i dati a mitragliare e Physiculus indossava il suo cilicio nuovo per tenersi sveglio o per agghindarsi il sonno, i treni degli effetti in buchi oscuri e l’infinità varietà del relativo in un dessert che, a volte, fabbricava insieme a un suo lunario in trucchi e storie nuove per darsi intero al fato o uccidere la morte con un tic del nervo vago: uno spazio di ricreazione elementare come lo scherzo di capire o di subire il giogo d’una contrazione del diaframma: erano schizzi sopra una lavagna, traiettorie senza nome, rette che slittavano in senso binario il peso, il calore del bivacco, le influenze chiare della flora e, sempre, il clima natìo. Come promettesse un’anomalia di curvatura all’aritmetica o un’isola di Langerhans cercata sulla mappa da un pirata idiota, torturava con modelli di bellezza l’eccesso proteiforme ma restava la questione più irrisolta, un controtempo, la Beatrice calda e disturbante lo spettacolo che frugava nella sabbia con la punta di un bastone per raccattare i resti d’algoritmi, avvicinava gli occhi quasi fosse un corpo estraneo da scoprire, li avvicinava tanto da confondere in una sola macchia immensa la sua nascita, la ragione adulta, la genesi di sangue e il campo di gravitazione: una lacrima e una proposizione: era il furore d’una nota musicale raccontata dividendo un tutto qualsiasi in mille atomi qualsiasi: era il profilo del suo tendine già teso: così svolgeva la materia: nel risucchio di un’ondata o nell’entusiasmo di un’idea violenta per il contrasto rivelato dalla fine. Physiculus voleva tutto l’orizzonte degli eventi, chiedeva che durasse nel suo sguardo ma la faccia senza volto faceva il verso ai monaci: tramutava ogni suo fonema in somma e, sine logos né ventre genuino, era indifferente alle necessità prodotte sui balconi: richiamava la sua spada ultima e richiamava l’impeto e i precetti nel fondo mare senza fondo degli antichi. Physiculus sentiva di precipitare insieme a quella galleria d’incanti così deviava le sue intuizioni verso armoniche del cranio con minute particelle senza la causa, senza prova viva, nemmeno il più piccino raggio browniano in cui danzassero corpuscoli e, con uno scatto riprodotto dall’istinto, incedeva nei canali come una fede, un pre-giudizio oppure un cantastorie: era l’impossibile al bacio di teoria: era una novella già avvenuta tutta al quantico di connessioni vive, vive e miagolanti nelle scatole, inesistenti e vive tutt’insieme, e mutavano allo sguardo e nell’osservazione (forse amandosi il disegno) traboccavano in bosoni paralleli le superesistenze: non bastava una vita single, Physiculus sognava un se stesso singolo e ancor iperclonato in mondi equivalenti: così galassie tutte dentro un elettrone o in pieghe di frattale si materializzavano smaterializzandosi l’oscuro alla materia. Una materia fatta d’atomi insicuri: senza interagire, essi non erano. Una sorta d’elettroni-social affetti da un disturbo dell’umore in astinenza di condivisione: erano il bisogno di flirtare: privati d’una relazione, esistevano, ma da nessuna parte. E Physiculus chiamava scientia questa forma sui tiranti a sopportare spinte orizzontali, la perfetta già impensata – troppo umana – ultraconsolazione:

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