Emil Nolde, Marschlandschaft mit Bauernhof
Emil Nolde, Marschlandschaft mit Bauernhof

 

 

Le dimore sono donne in dubbio
e mi obietti – spesso – che sono di troppe parole
dovrei vivere analfabeta nelle tue stanze,
vagante, un dizionario senza date e senza dati
ma da dove e in quale conta ci allontaniamo
bevendo acqua e odio
osserviamo piano lo spurgarci dei vecchi miracoli
dell’esser stati amati,
osanna nell’alto dei letti messi a soqquadro
divino amore
ormai da lontano, se mai mi sei stato amico o amante
ora è il canto dell’addio che sta arrivando alle spalle.
 
*
 
E fai terremoto ogni giorno
nei dubbi, che sono confini di tende e tendine
fra la cucina e i piedi che le corrono dentro
troppo a lungo e in sequenza di disamore
e poco ingombro, se pure tuo sia questo luogo
e tana, non mi dimori più
tutto s’impoverisce di silenzio
nessuno e niente torna al suo centro
mentre si lasciano le padelle su fuoco, sto uscendo scalza
ogni fiato un gradino di corsa
s’incrociano le gambe e il giro inverso della terra
una sola moltiplicazione di te per me ci separa
la riparazione del danno è immaginaria
come ogni lettera d’alfabeto zittita
o suicidata per mancanza d’affetto ricevuta.
 
*
 
Gli oggetti hanno la cura dei ricordi
i misteri gaudiosi e gli alfabeti degli affetti,
una traccia ne rimane
nei nostri occhi di carbone
di fosforo, tanto azzurri da rivoltare il fuoco
e la pioggia, in rimpianti a cantilena
mansueti sverniamo
è un’odissea senza fretta
lunghi perimetri di parole e perdoni ci richiamano
in fondo a te sto ad ondate
ed ancora parlo plurale
infiniti segnali meravigliano la mano di gesti
un cerchio tribale, l’istinto dell’abbondanza
si proietta, ma i giorni sono sfiniti in questa casa
estratti nel giardino d’inverno e seppelliti
sotto una costellazione di morte che di notte applaude.
 
*
 
Eppure puoi stare a sgusciare dagli angoli
nessuno ti chiederà di rientrare sulla terra
la razza umana è il tuo parente povero
la nutria dei fiumi, il passo delle diaspore dietro i monti
il putiferio dei demoni, il vicino che parte di notte
i materassi gettati nei pavimenti di vecchie scuole,
gli altri stanno attendendo di guardare
una finestra da quattro o anche meno mura
la radice delle cose che non hanno fissa dimora
il caos dell’essere al mondo per caso
la scansione degli occhi degli orfani e degli amanti
il giudizio, la quiete e il rosso fuoco delle albe
l’organismo perfetto dell’inverno e dell’anno
è il giro tutto della terra che ci pesa
e non ci si risarcisce nulla se non una scusa
ci si perdona poco sempre tutti noi
ci si perdona sempre troppo il nulla in tutti noi.
 
*
 
Le storie scoppiano di uomini
come quando il giorno è sfondato
ad Est, e lei è il levante
alle sue gambe, la melodia del mondo
il mare quando sciala e bagna le scarpe,
le regole dispari, le gatte randagie
lo sperpero degli anni, le faine come mani
i richiami del Sud e dei marinai nelle darsene
la linea dei fiati, la cerniera di un ponte da attraversare
l’espandersi della pioggia, l’attesa del buon tempo
la veglia dei millenni
la prima mattina dell’esistenza che nasce in un gemito
e t’intrappola, ti scompone
ti confonde come una resurrezione
che ha lasciato il letto e l’ultimo minuto dell’universo
che si ciba di te.
 
*
 
A mia madre

Si è legato un conteggio innaturale: 
mille volte io ci sono e manco che ti muovi più una sola volta, madre, 
come in certi movimenti dati solo dai tratteggi delle ombre
i suoni, la voce che ricordo 
si sfalda verso il buio
come un’immagine male a fuoco, 
sei sfocata mamma
e la memoria qui passa il tempo 
fra te che eri e chissà dove stai ancora a fumare
a scegliere le verdure, a scaldare il ghiaccio
a spezzare chiacchiere e ziti nelle domeniche dei santi 
tutto sta avendo e ha nuove distanze
altri infiniti si originano e in un solo istante 
si è generato un giudizio universale a prenderti
pieno di martiri e morti caritatevoli e preghiere votive
che pure amavi poco,
come i soldati o le risonanze magnetiche
tu, che bassa come la Luna
e alta due Piramidi, sei da sola e ferma
come farai adesso, dimmi,  a passarmi oltre
a sbiadirmi
lasciandomi nella confessione di questo dolore che allaga
e ho paura ad abbandonare in terra.  

(testo, quest’ultimo, già pubblicato nella raccolta “Le trincee del grembo” – plaquette n°19, Associazione Culturale Lucaniart, 2014)

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