Intervista allo scrittore Orazio Caruso

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Orazio Caruso è nato a Viagrande, in provincia di Catania, ha frequentato il Liceo classico a Catania e successivamente si è laureato in Filosofia. È sposato con Maria Rita Pennisi. Ha insegnato Lettere in Veneto e, attualmente, in Sicilia. Ha attraversato gli anni settanta seguendo i destini della sua generazione: lavorando in diverse radio libere, facendo esperienze politiche, scrivendo testi per minuscole compagnie teatrali. Successivamente ha dato vita, con altri artisti, ad un’associazione culturale denominata ironicamente “Accademia delle Nuvole”. Da un decennio cura gli allestimenti teatrali del suo liceo. Si occupa di poesia, critica letteraria e di editoria. Ha pubblicato: ‘Sezione Aurea’, Manni, Lecce, 2006; ‘Comici Randagi’, Sampognaro & Pupi, Siracusa, 2012 e, ‘Finisterre’, il suo terzo libro che sarà presentato oggi, alle ore 18, a ‘la Feltrinelli’ di Catania. Ed è proprio pensando al plot del suo nuovo romanzo, incentrato sulle vicende di quattro personaggi principali, ciascuno dei quali, ‘rappresentazione di un aspetto della realtà contemporanea’, che lo abbiamo intervistato.

Com’è nata questa storia?

Non ho un’idea precisa di come si sia formato questo romanzo nella mia mente. Probabilmente si è composto a poco a poco per accostamenti di personaggi e situazioni. La mia immaginazione si nutre di contrappunti. Sicuramente sono partito da Nino, il protagonista. Mi interessava indagare la difficoltà che incontra una persona di talento nel calzare i panni stretti dell’esistenza e nello stesso tempo volevo descrivere gli effetti collaterali del passaggio di una persona siffatta sulla vita degli altri. Un altro motivo ispiratore è stato sicuramente il paesaggio, l’ambiente, l’ultimo lembo di Sicilia che si allunga nel mare.

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Come si sviluppa la narrazione?

Raccontare la trama di un romanzo è sempre la cosa più difficile. È come riscriverlo, come fare una “versione in prosa” della stessa prosa. Mi limiterò a dire che tutta la storia si svolge a Marzamemi e dintorni nei giorni che precedono il Natale. Francesca, una pianista trentenne va, insieme all’amica, e collega violoncellista, Martina, a trovare il fratello, Nino, che, nel piccolo borgo siciliano, fa il maestro elementare. Naturalmente l’imprevisto è sempre in agguato.

Ho scelto il punto di vista parziale di Francesca. È sua la voce narrante che, più che raccontare, testimonia gli avvenimenti, esplorando l’enigma di un fratello talentuoso che, in una società che ha come valori la competizione e la prestazione redditizia e glorifica solo i vincenti, persegue, quasi come un dovere, il fallimento.

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Rispetto alla riflessione di Theodor Adorno, ‘Non c’è correzione, per quanto marginale o insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo’, qual è il tuo punto di vista?

Io invidio gli scrittori bravi e veloci che non fanno correzioni. Io, al contrario, sono uno scrittore lento. Per me scrivere è sempre riscrivere. Questo libro ha avuto una lunghissima gestazione e diverse riscritture.

Quali gli autori più significativi per la tua formazione?

Io distinguerei tra gli autori letti in giovane età e in modo istintivo e quelli letti in modo critico in età matura.

Cito alla rinfusa i miei diversificati “santi” giovanili: l’opera omnia di Pavese, le raccolte di poesie di Pasolini, “Una stagione all’inferno” di Rimbaud, “I canti di Maldoror” di Isidore Ducasse Conte di Lautréamont, “Furore” di Steinbeck, “Sulla strada” di Kerouac, il teatro di Majakovskij e Brecht, le lettere e i quaderni dal carcere di Gramsci, soprattutto “L’idiota” di Dostoevskij.

Non c’è dubbio, però, che gli autori che maggiormente mi hanno influenzato nelle scelte “narratologiche” adulte sono Milan Kundera ed Italo Calvino. Delle ultime generazioni apprezzo due scrittori americani come Franzen ed Eugenides, che non hanno paura di volare alto.

Per te, ‘scrivere è…’?

C’è una domanda radicale a cui uno scrittore contemporaneo è costretto a rispondere ed è questa: ‘perché scrivere oggi, dopo i grandi autori del passato che hanno detto tutto?’

La risposta istintiva è questa: perché loro sono morti e non possono più raccontare il presente. Ci mancano, ma non possiamo farci nulla. Tante volte sentiamo dire: ‘Chissà cosa direbbe Pasolini di questo o quell’altro avvenimento o problema?’ Ma Pasolini non può più parlare perché è stato ucciso in una sventurata notte di novembre di quasi quarant’anni fa.

Noi, invece, siamo vivi e abbiamo il dovere di raccontare, testimoniare, indagare cosa succede qui ed ora. Lo dobbiamo fare per loro e per la comunità che ci ospita, solo in apparenza indifferente, che ha necessità della lente di ingrandimento della letteratura per comprendersi e per essere ricordata in seguito.

Io credo profondamente nel fatto che lo scrittore dia voce ad una comunità e ad una generazione e parla per quelli che stanno zitti, non necessariamente perché deboli, indifesi o battuti, a volte semplicemente perché credono che non abbiano nulla da dire.  

Riporteresti uno stralcio di testo nel quale sei solito ‘cercare protezione’?

Stranamente non mi viene in mente un brano tratto da un romanzo a cui sono particolarmente affezionato, ma ad una poesia di un poeta che amo e che rileggo spesso, Dylan Thomas. La scelgo perché vi si fa un collegamento tra l’amore e la letteratura. E non ci può essere letteratura senza amore per la vita.

 

Nel mio mestiere o arte scontrosa
esercitata nella quiete notturna
quando solo la luna si scatena
e gli amanti vanno a letto
con gli affanni tra le braccia,
io lavoro alla luce che canta,
non per ambizione o pane
o la gloria o per spargere grazia
sui palcoscenici d’avorio,
ma per il salario ordinario
del loro più intimo cuore.
 
Non per il superbo che si apparta
dalla luna scatenata io scrivo
su queste schiumose pagine
né per la turrita morte
con gli usignoli e i salmi,
ma per gli amanti, le braccia
intorno agli affanni dei secoli,
che non sprecano lodi o salari
né si curano del mio mestiere o arte.

cop libro orazio caruso su l'estroversoPer concludere, ti invito a scegliere uno stralcio del tuo nuovo libro per salutare i lettori.

Riporto di seguito un breve brano, tratto dal terzo capitolo di Finisterre, in cui Francesca definisce la sua relazione con la musica e con la letteratura.

‘La musica è stata da sempre il mio metro per misurare il mondo, anche la letteratura.

Quando mi capita di conoscere una nuova persona, in genere mi diverto ad immaginare quali gusti musicali coltivi.

Io amo la musica da camera. Ho sempre evitato di suonare in grandi orchestre, irreggimentate sotto il comando di dispotici maestri. Ho scelto di lavorare in piccoli gruppi, all’interno dei quali basta darsi cenni con gli occhi per attaccare all’unisono.

Amo le composizioni scritte per pochi strumenti, dove ogni ruolo è necessario ed indispensabile e non c’è gerarchia.

Non mi appassionano gli arrangiamenti, preferisco che il suono puro lanci le sue onde levigate a fluttuare nell’aria senza confondersi e spezzarsi all’interno di magmi sonori indistinti.

Allo stesso modo in letteratura prediligo i racconti e i romanzi brevi che presentano quattro o cinque personaggi in primo piano, ognuno dei quali possiede un timbro ben definito e va svolgendo il proprio tema in armonia o in contrasto con gli altri. A volte a qualcuno spetta un assolo, più spesso si sviluppano duetti.

Mi piace quando all’interno di una situazione stabilita si introduce un suono nuovo, un nuovo personaggio che entra piano e si va espandendo’.

 

 

 

 

La foto di Orazio Caruso, in apertura, è di Maria Rita Pennisi. Le altre, all’interno dell’articolo, ritraggono alcuni ‘luoghi del romanzo’ e sono state realizzate dallo stesso Caruso.

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