rudy-toffanetti

parola d’autore

Rovistando un po’ tra le carte e i file di qualche anno fa, ho trovato una frase, all’interno di un testo teatrale che avevo cercato di mettere insieme, che suona più o meno così: “Io cerco i poeti veri, quelli che parlano di morte e di vita così come una pianta ti può parlare della primavera: mettendo su i boccioli!”.
Credo di aver sempre pensato che se si dovesse ridurre il linguaggio poetico al minimo ciò che rimarrebbe sarebbero cose come piangere o ridere, espressioni di emozioni in semplici gesti. Con questo non intendo dire che la costruzione intellettuale di lingua e simboli che ricopre una poesia non sia valida o non sia vera, tutt’altro: credo anzi che sia la ricerca più approfondita, lo sviluppo e la crescita di quegli atti originari, e che solo entrando in un sistema culturale definito può avvenire la conoscenza limitata ma indispensabile del mondo che c’è fuori e di quello che c’è dentro di noi.
Sul confine è nato proprio da questi presupposti. L’obbiettivo era quello di cercare un linguaggio espressivo che potesse adeguarsi o attraverso cui potessi esprimere ciò che vedevo tutti i giorni trafficando sul treno per raggiungere il mio liceo, gli esseri umani con cui parlavo, con cui scambiavo degli sguardi accennati o delle lunghe chiacchierate a tarda notte o prima dell’alba. Nel corso degli anni i versi sono andati riempiendosi di forme culturali: i miti antichi studiati a scuola li vedevo ricomparire nei volti che mi circondavano; le stagioni e la natura assumevano un valore simbolico, pieno di riferimenti ad altre sensibilità di altre persone o popoli; le vicende, le sensazioni e le emozioni venivano calate in un momento storico preciso legato ai precedenti; nasceva una riflessione sociale che cercava di spiegarsi il perché di quello che provavo. Il male che percepivo come mio personale, veniva calato in un insieme di relazioni esterne, fino a confondersi e a divenire pianamente parte di quel mondo al di là di me.
Per me la poesia è quell’attività spontanea, quella forma di espressione necessaria che lega insieme le varie propaggini dell’essere: qualcosa di piccolo che crediamo di conoscere e che si sporge su qualcos’altro di completamente ignoto. Si tratta di indossare come una tuta da palombari, scendere e calarsi nel profondo del nostro inconscio e nel nostro tempo per trovare un linguaggio e una passione con cui ricostruire piano piano quel circolo virtuoso di osservazione, innamoramento e conoscenza in cui si può esplicitare un’esperienza di umanità.

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Cinque poesie scelte da “SUL CONFINE”, nino aragno editore, 2016.

Notturno

Questa morte giunge a ricordarci
il nulla di cui siam fatti
su cui trema la barca
e in cui la pagaia affonda.
Il mistero delle distanze si compone
quando il giorno inghiottito dal tramonto
lascia una scialba coltre di stelle
sopra un capo che ha perso i capelli
e un corpo avvizzito in se stesso;
e ci pare di sentire, nelle notti d’estate,
una magra forma di luna in mezzo ai tralicci
e poi, così di schiocco, l’assenza che ci muove.

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Lumi

I rumori di un cantiere, il crepitare
dei cestini e il cigolio
d’una bici immersi nel canto
degli uccelli e nel fragore di un treno
compongono il metafisico sospiro
che si libra sul cosmo.
Diffuso è nell’aria il gracchiare
come di cornacchia di una radio dimessa
che ti avvinghia le scarpe
assieme agli starnuti distanti
dei manovali.
Si compone nel brulicare della terra
questa vita così colma di fango
modellata sui marciapiedi
ai limiti del campo – soffia il vento e
resta immobile ogni stelo
umano e resta sospeso
il gelo sugli arbusti.
Congela, nel bianco lumeggiare del giorno,
la dirotta varietà del reale.

Siamo fatti per guardarci e mai toccarci
ti studio e ti fisso lontana disfarti

Gretta realtà tu mi salvi e io
non so prenderti e tu
non sai darti.
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Suburbana

Cosa aspettate uomini alla stazione
qualcuno che vi rapisca o vi porti via
in periferie sconosciute
cinte da tramonti di carta vecchia
sciolti in piume e petali di fiori
dove il cemento si liquefa in cera?
Giocano a rimpiattino le rotelle di ghiaccio
di questo inizio secolo
in cui tutto ancora intatto
in polvere già giace e aspetta un treno.
E se alla stazione aspetti,
chissà cosa chissà l’amore,
corri incontro al tuo assassino
svelando, in un solo segreto,
la chiave del tuo dolore.
A metà tra vergogna e timore
sono i tremiti che dai tuoi capelli
rapiscono le nostre mani
intarsiate di nulla.
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[Cos’era?]

Cos’era?
Nulla,
il suono del tempo che stride
e il pianto dei boschi a Natale –
in autunno,
il silenzio sui fossi di nebbia,
provincia bigotta e distratta
che piange nel cuore del mondo.
*
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Hic Deus iacet. Nos ei requiem donavimus.

“È come la pioggia nelle pozze di fango
è come il pettirosso che scava la brina
e la terra ottusa in cerca d’un verme”

Un cigno trascina il suo piumaggio candido
colle dita palmate immerse nel fango
ed accosta il suo capo bianco
al silenzio d’un giudeo, deportato a Babilonia;
sono i figli di coloro che morirono
e nacquero all’ombra di quella lapide:
ebbero volti di cera e braccia secche,
gli occhi aridi e i piedi sporchi.
Ascolta l’edera lacerata che lancia urli,
s’arrampica sulle rovine del tempio
e stilla sangue tra pietra e pietra;
non c’è acqua tra questi massi
ed il cigno intona un ultimo canto afono;
gli uomini s’accalcano a pregare,
(l’intera terra bruciata, sfatta, sformata)
“Al sepolcro di Dio, al sepolcro di Dio”.
A Gerusalemme, la città santa, il sepolcro di Dio
piomba all’ombra, la città riarsa.
Intera la terra rimbomba, richiama un’assenza,
“Quando sarà ancor piovorno, quando cadrà la pioggia di nuovo?”.
Nel tumulto di pianto mani di anime
stringono a sgretolare la tomba di Dio,
perché ricordano che Gesù fu
e fu come la pioggia.
Nel tumulto di pianto mani di anime
sbriciolano rovine
perché sanno che ogni cosa in volto ha inciso:
“Son come la pioggia nelle pozze di fango
come il pettirosso che scava la brina e la terra
ottusa”.

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