La scrittura origina dalla volontà di pacificarsi con i fantasmi interiori

Chiara Passilongo su l'estroverso

l’autore racconta

 

«La vita o la si vive o la si scrive.»
«Per essere perfetti creatori bisogna essere morti.»
Se Luigi Pirandello arriva a dire la prima frase, e Thomas Mann mette in bocca la seconda al suo protagonista nel “Tonio Kröger”, viene da chiedersi davvero: «Ma allora perché si scrive?»

Il mio primo racconto ricordo di averlo messo nero su bianco a sette anni, un poliziesco ambientato a Caracas, si parlava di smeraldi rubati. Abbandonai precocemente il genere e, terminate le elementari, vergai durante l’estate una specie di “Le avventure di Tom Sawyer”, ma in salsa inglese, e a cavallo del secondo conflitto mondiale. Talvolta ne rileggo con il sorriso qualche stralcio sul quadernone azzurro a cavallini sul quale mia nonna lo trascrisse con tanto affetto e pazienza; non avevamo ancora il computer, allora, lo comprammo l’anno successivo. E’ vero che c’era la gloriosa Lettera 32 in casa, ma la nonna andava tanto fiera della sua bella calligrafia.
In seconda media mi incapricciai per l’arco di due pagine di scrivere un fantasy in cui un ragazzo scompariva nel corso di un incidente in moto per essere catapultato in un’altra dimensione tutta cappa e spada. Quindicenne, durante una cena familiare in taverna, passai un’intera serata ad affabulare mia cugina su una complicatissima trama che avevo scalettato su due volumetti con le copertine di Qui Quo Qua, dove due ragazzi vagavano per Francia e Italia, tra occultisti e affaristi senza scrupoli, per cercare una miracolosa cura d’erbe per il padre malato.
A sedici anni, mi incagliai al decimo capitolo di una storia ambientata nella Russia dell’Ottocento dove una trovatella scopre di essere in realtà figlia di patrioti veneziani e si mette in viaggio per ritrovare la sua famiglia. All’università scrissi un racconto ridondante come una ballata medioevale dove il protagonista consumava tutta la sua esistenza alla ricerca dei fantomatici Confini del Mondo.
Altri due abbozzi non irresistibili più tardi, approdai a una scuola di scrittura rodigina, la Palomar, che aveva appena aperto i battenti.

«Sai cosa sono le stelle cadenti? Sono quelle stelle, più luminose di altre, che s’incendiano per attrito, attraversano il cielo con tutta la loro energia, bruciano ciò che le circonda e poi arrivano a spegnersi consumate dalle loro stesse fiamme. Ecco tuo nonno era così.»
Risponde lo zio Francesco al nipotino, che vuole sapere com’era Achille Vicentini, il nonno che lui non ha mai conosciuto.
Ho impiegato quasi due anni per scrivere “La parabola delle stelle cadenti”, storia di una famiglia che ascende al firmamento delle cose e della sua irrimediabile caduta, dove a far da sfondo sono vicende dell’ultimo trentennio come il crollo del Muro, l’avvento del berlusconismo, la guerra in Kosovo e la crisi economica che dal 2008 dura ancora oggi.
La stella cadente per eccellenza è Achille, padre di famiglia, industriale e politico conservatore e autoritario, con idee ben salde nella testa e le redini dell’azienda tra le mani, che arriverà a mettere in discussione tutto quello in cui crede, e a vedere il declino della San Lorenzo srl, emblema di un tessuto di piccole e medie imprese che non hanno saputo reggere gli urti della globalizzazione e della crisi.
L’arma segreta di Achille è però la moglie Nora, donna intelligente, paziente e fedele, che riesce nel tempo a smussare gli angoli più stolidi del marito.
Le altre due stelle sono i figli, Francesco e Gloria, nati la notte di San Lorenzo. Racconto il difficile rapporto tra un padre rigido e un figlio che vuole seguire le proprie aspirazioni e inclinazioni, ma anche la storia d’amore tra una “figlia di papà” e un “figlio dei fiori”, e quella tra un marito titanico ma fragile e una moglie che si scoprirà essere la vera colonna portante della famiglia. Due generazioni si incontrano e si scontrano, inevitabilmente condizionate dalle sorti dell’azienda e dalle vicende della Storia.
Ai giovani protagonisti ho affidato il messaggio di speranza con cui ho voluto chiudere il romanzo, al loro sguardo ho cercato di consegnare la possibilità di vedere oltre la crisi.

Questo libro nasce dal desiderio di descrivere la realtà che vedevo attorno a me. Fare volontariato come odontoiatra nell’ambulatorio della Caritas della mia città, ascoltare i discorsi dei pazienti, della gente comune, bastavano già per avere sotto gli occhi quello che leggevo e sentivo su giornali e telegiornali, e cioè le difficoltà, economiche e non solo, attraversate dalla classe media italiana.
E poi credo che la scrittura origini dalla volontà di far pace con i propri fantasmi interiori. Accompagnare le vite di Gloria, che segue la strada tracciata dal suo clan familiare, e di Francesco, invece, “il ribelle”, è stato catartico.
E sono convinta che sì, la vita o la si vive o la si scrive, perché la scrittura è stata parecchio totalizzante, ho lasciato molte cose in sospeso durante la creazione del romanzo, mi sono sentita un po’ come morta al mondo. I momenti di sconforto ci sono stati. Come altri molto esaltanti, di gioia traboccante.

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