Marcello Marciani e il suo almanacco delle stagioni umane

cop marciani la corona piatta ANDREA

   Questa Corona dei mesi (LietoColle, Faloppio, 2012) di Marcello Marciani, dovrebbe avere come sottotitolo “Dodecamerone”, inteso come raccolta di dodici stanze poetiche, sciorinate col gusto novellistico dell’antico cantastorie, che si diletta ad annunciare le eterne tragedie dell’animo umano, così dimentico di se stesso; oppure “Commedia delle stagioni”, perché con passo dantesco l’autore si addentra nei gironi infernali dei dodici mesi, lasciandosi straziare dalla visione delle anime perse, che percorrono in perfetta incoscienza la loro dannazione terrena.

  Si comincia con un’invocazione a “don Tempo”, il grande burattinaio che tiene i fili delle nostre vicende esistenziali, messe in scena in modo turpe e grottesco, inizialmente invitato a giocare e solo alla fine a sognare: esortato dapprima a godersi per l’ennesima volta il ciclo dei mesi, a inscenare con consueta ingordigia la farsa della Storia («appiccia cicche spente da anni scorsi/ per fumarsele al vento di un presente/ che mestica o sparpaglia storie e saghe»), viene poi spinto a fantasticare «un’eterna pensione», a mettere nel baule i suoi fantocci, le loro bagattelle quotidiane, e sperare nel «sommovimento degli astri», in qualche diversa logica spaziale che stravolga anche la normale concezione del tempo.

   «Dopo tredici sillabe, il verso non regge più», sosteneva Paul Verlaine, riferendosi al limite massimo del metro tutto francese dell’alessandrino, che trova nel verso martelliano il suo corrispettivo nostrano (costituito da quattordici sillabe). In questa presa di posizione tradizionalista, Verlaine denunciava una rivoluzione che andava profilandosi nell’ordine ritmico della nuova poesia. Paradossalmente in Italia, poeti come Pascoli e Carducci, che pur attingevano a piene mani dalla cultura classica, si ritrovarono a essere pionieri di un’intensa fase di sperimentazione. Parlo della poesia barbara, in cui si adoperò con particolare lena Carducci, al fine di rendere, rispettando la metrica accentuativa della nostra poesia, il metro classico, soprattutto l’esametro.

   L’uso del novenario, accoppiato col senario o il settenario («Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:/ or sì or no veniva su per le aure umide il canto/ de’ mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco»), nel tentativo di restituire il ritmo esametrico, portò alla ribalta un metro nuovo che parve prendere il posto dell’endecasillabo, considerato consunto dalla tradizione; cominciò a diffondersi il verso composto, come il doppio ottonario o il doppio novenario, o l’accoppiata novenario-senario e viceversa. Montale poi avrebbe condotto il verso al gioco più arguto e originale di destrutturazione.

   Caso emblematico della sperimentazione barbara di Marciani è la poesia “Aprile”, in cui si affida alla sestina: nella prima strofa, cinque versi sono formati da un ottonario e un novenario, che si scambiano di posto al sesto verso; la seconda strofa comincia, inversamente alla precedente, con un novenario e un ottonario, che tornano a scambiarsi al sesto verso; la terza strofa colpisce per la sua disposizione eterogenea: novenario-ottonario, ottonario-novenario, novenario-ottonario, al quarto verso ben due novenari, al quinto verso due ottonari, e per concludere ottonario-novenario. Il verso quindi va oltre il limite prospettato da Verlaine, eppure è tale l’equilibrio della forma, che niente stride o appare privo di sostegno. In “Marzo” l’autore fa sfoggio del suo virtuosismo adoperando terzine dantesche di doppi ottonari che scorrono con grazia di ruscello.

   Per quanto riguarda la ripartizione strofica, in quest’opera ricorrono il distico (“Luglio”, “Dicembre”), la sestina (“Aprile”, “Agosto”, “Novembre”) e, saltando a piè pari l’uso consueto che altrove l’autore fa dell’ottava (qui la vediamo soltanto in ”Giugno”), la strofa di nove versi (“Gennaio”, “Maggio”, “Settembre”, “Ottobre”). In “Febbraio” prende addirittura un sonetto e lo altera di un verso in ogni strofa, realizzando un componimento di diciotto versi.

   Il valore indicativo della rima appare in modo evidente nella poesia “Novembre”, in cui “novembre” si riveste di “ombra”, i poveri “vivi” si rivelano “passivi”, gli unici veri “rapporti” sono quelli coi “morti, chi impone “leggi” inevitabilmente “taglieggia”, e un “cullano” isometrico combacia col “nulla” in cui si gingilla il re.

Ogni stanza, come annunciato all’inizio, sembra la pagina di un almanacco, o il segno di un oroscopo, che dà le coordinate per intendere il significato simbolico di una costellazione, l’influsso che l’orientamento degli astri avrà sulle nostre sorti. Ogni verso è una profezia che sa prevedere il passato e rileggere il futuro, in un turbine di tragica ciclicità che riguarda le misere vicende dell’animale umano. Tutto questo viene ordito mediante un uso sottile, esperto, assolutamente originale del linguaggio. La narrazione è come una corda tesa fino al respiro estremo, che finisce per rivoluzionare irreparabilmente il cuore del lettore di fronte allo spettacolo carnascialesco delle stagioni, reso ancor più incisivo da un gioco lessicale provocatorio, compiaciuto del proprio taglio grottesco. Un gioco, una girandola linguistica che si ritrova a plasmare il valore fonosimbolico della parola, che del barocco conserva il senso più sottile e illuminato, tra rime che si voltolano in assonanze e rasentano allitterazioni, in cui tutto il senso del verso sprofonda e si rivela.

   Gennaio si soffia il naso e, nel pieno della desolazione invernale, elegge a divinità il proprio medico («… un allaccarsi di veglie pastiglie prognosi/ un satollarsi di emergenze e solitudini/ sta nel testa o croce spietato che ti butta/ il chirurgo già dio al crocevia di un destino»); Febbraio si riempie di pezze colorate, per cercare di confondere il suo padrone di sempre, e prova «a dribblare dato e avuto/ miscellare vero e falso camuffare un io crepato»; Marzo accenna pruriti primaverili che riducono a vittima l’innocenza infantile («ridarelli avevo gli occhi che saltavano spiccaci/ ma il mio tempo alleva branchi mi confisca mi fa cosa»); Aprile contempla, alla frescura del rezzo, una tragedia dettata da vecchi carnefici che si presentano come nuovi salvatori, ma il «suolo che s’intàrantola», quello dell’Aquila, sarà destinato a sommuoverci in eterno; Maggio è il trionfo di una licenziosità dei costumi in un’epoca in cui le fanciulle crescono troppo in fretta, forse perché nessuno «più ricorda e grida che la rosa è il più breve/ dei fiori alle bambine»; Giugno prepara un antico rito propiziatorio e nella coltre del dialetto trova conforto per l’avvenire; Luglio mette alla berlina l’estenuante trionfo del tipico assembramento balneare («… la spiaggia fritta all’olio di un ammasso/ così pressato che cede a lividi, travisamenti d’oasi collassi») che riversa sulla spiaggia ondate di liquame umano, così come «strie di catrame», «scie di liquami» e «oli densi di zolfi» trafiggono la purezza del mare; Agosto fa parlare animisticamente un appartamento, che celebra la desolazione del caseggiato cittadino – abbandonato dagli inquilini alla ricerca di un vano riparo «dal quotidiano livore della loro incancrenita armatura» –  ed esalta l’opportunità di godersi in pace «la fuga d’archi delle porte lo schiocco delle imposte/ quando il garbino quartieri e dintorni solfeggia in nuvole d’ambra»; Settembre rappresenta la fine dell’illusione estiva e il ritorno al teatrino mondano che invade le città, piena «di gesta recitate e rifatte usare/ da una gente che s’infavola e s’introna/ per compensare alle vite che subisce»; Ottobre denuncia la ripresa della schiavitù del lavoro, a cui ci si arrende senza volontà, vittime di un’economia le cui dinamiche ormai sono più importanti di qualsiasi necessità umana («perché siamo una spesa che non arrizza onde/ e il mercato che arranca è un cartone alla pancia/ è un boato di insonnie che va giù a impallonarci»); Novembre riprende il discorso di un fallimento generazionale che vede nella rabbia dei giovani una possibile speranza («i ragazzi che sciamano su tegole piazze e striscioni/ senz’altra tinta e ragione di una gialla esasperazione/ che spacca a tratti la nebbia di questo impapparsi di leggi») ma il re non molla, «vacilla eppur sbraita», e continua a ingannare chi ormai si è lasciato assuefare all’inganno («scintilla in monnezze invetrate/ vende per nebbia il fumogeno, per stretta emergenza il suo nulla»); Dicembre è un inno tagliente e delicato al bambino sacro, primo tra tutti gli oppressi, il cui messaggio di fratellanza universale è sempre dolentemente attuale («Non sapete che il mio nome vuole dir per noi Signore/ non capite che ogni nascita è un avvento e una pastura»).

   Per quanto, come già detto, le tinte e le forme di questo campionario poetico attingano chiaramente la loro linfa dallo stile barocco (ricordano i versi satirici di Giovan Battista Marino, sia per certe acrobazie linguistiche che per l’epigrammatica ironia), il timbro poetico sembra risplendere dei riflessi di una poesia italiana temporalmente vicina, di taglio civile pur nella sua verticalità, nella sua fibra sensitiva. Penso a Caproni, alla sua visione del reale così lucida, distaccata, quasi “alienata”, tanto è la grazia eterea di chi si avvicina alla cose terrestri senza lasciarsene intaccare. In questi versi del poeta livornese sembra chiudersi l’intero circolo delle stagioni cantate da Marciani: «Il mare brucia le maschere,/ le incendia il fuoco del sale./ Uomini pieni di maschere/ avvampano sul litorale.// Tu sola potrai resistere/ nel rogo del Carnevale./ Tu sola che senza maschere/ nascondi l’arte d’esistere». Un’arte che nella Corona dei mesi viene disperatamente inseguita, quasi implorata, perché tutta questa messinscena poetica altro non è che preghiera, invocazione. La corona che chiude gli occhi alla vita, il serto, viene a porre la parola fine. Non è un caso che l’epigramma, al cui tono il poeta Marciani si rifà, nasce come iscrizione funeraria. E cosa sarebbe questa raccolta se non una Spoon River delle miserie umane? Dodici lapidi che raccontano e celebrano la nostra vita, con l’arma ferale dell’ironia.

 

 

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