Nicola Ghezzani: “La poesia è una delle attività umane più a rischio”.

Nicola Ghezzani intervista luigi carotenuto

Nicola Ghezzani, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli scientifici e opere letterarie, vanta una storia personale densissima di eventi privati e pubblici che hanno reso ricche e affascinanti le sue narrazioni, piene di chiarezza, empatia, ascolto attivo e intuizione, dalla forma e dal pensiero vivace, aperto, creativo e legato in modo particolare, oltre che al versante strettamente clinico-scientifico, all’immaginazione, alla poesia e alla letteratura. Ha formulato i principi della Psicologia dialettica. Fra i suoi numerosi libri ricordiamo Volersi male (2002), La logica dell’ansia (2008), A viso aperto (2009), La paura di amare (2012), Ricordati di rinascere (2014), L’amore impossibile (2015), tutti editi da FrancoAngeli. Si rimanda con dovizia di dettagli al sito nicolaghezzani.altervista.org. In vista dell’uscita del suo nuovo libro, Le eclissi dell’anima, abbiamo colto l’occasione per intervistarlo.

Da dove sorge la scintilla che tiene ancora vigile e piena la capacità di raccontare, di sé e degli altri (penso per esempio al suo toccante ricordo d’infanzia, Il sogno di Pinocchio)?

“Più vado avanti nella vita, più sento il bisogno di raccontare piuttosto che di spiegare. Raccontare consente di afferrare la vita nelle sue infinite ambiguità, mentre la spiegazione tenta sempre di passare la realtà “a filo di logica”, riducendone l’affascinante e tragica inafferrabilità. Naturalmente il raccontare riguarda anche e soprattutto la rappresentazione di me stesso. Racconto perché raccontare consente al mondo di esistere; ma non a un mondo qualunque: a quel mondo che mi contiene, che detiene la mia immagine, la mia identità. Raccontando, diamo forma alla nostra esistenza. Raccontare, quindi, è una necessità assoluta, che ci caratterizza tutti. Finché si racconta, si è vivi; quando si cessa di raccontare si è come oggetti, privi di vita propria. Raccontiamo per esistere. Come ho detto nei miei libri, l’essenza dell’uomo non è singolare, è duale, proprio perché il due è la forma minima del raccontare. Non siamo mai soli. Anche quando siamo fisicamente soli, noi non cessiamo mai di raccontarci a noi stessi: siamo in presenza di un interlocutore immaginario che legittima o meno il nostro racconto, quindi la nostra esistenza.
Nella vita di ciascuno di noi c’è un desiderio di riconoscimento che non può essere ricondotto al semplice narcisismo. Il desiderio di riconoscimento ha un fratello gemello, un correlato dialettico, che è l’ansia da misconoscimento: in sostanza la paura di non contare nulla per Qualcuno. Quest’ansia radica nella primitiva angoscia del rifiuto materno, poi quando siamo adulti diventa angoscia di essere misconosciuti ora dalle persone che amiamo, ora dalla società in cui confidiamo. La soluzione tipica del narcisista è quella di costruirsi una maschera: non importa quanto profondo sia il senso di vuoto interiore: al narcisista necessita apparire piuttosto che essere, difendersi con una droga estetica. Nell’artista e nell’intellettuale – come nella persona più sana – non ci può essere un posto, se non marginale, per il narcisismo: l’artista deve essere piuttosto che apparire. Essere per lui significa avere un posto effettivo nel cuore di Qualcuno. Questo Qualcuno è ciò che io nella mia Psicologia dialettica chiamo – rifacendomi più a George Mead che a Lacan – L’Altro. L’Altro è il fondamento relazionale della nostra identità: colui che ci ama e da cui vogliamo essere amati: una donna, un uomo, un padre, un figlio, un maestro, una comunità che ci ha come riferimento, un sistema di valori, un dio…
I poeti – come i mistici – usano spesso il “Tu”, per evocare la presenza di questo Altro. Quando si è in relazione con lui cessa ogni ansia da misconoscimento, ogni residuo narcisistico è abolito, perché l’Altro trascende l’Io. La creatività diventa allora ricca e copiosa come un fiume, come la manna celeste, c’è un profluvio di simboli che vivono di vita propria: perché l’Altro è – come dice Lacan – “il tesoro del significante”. È da lì che viene la creatività. Il Sogno di Pinocchio (di cui ho parlato nel mio libro Ricordati di rinascere, 2014) è appunto un sogno dell’infanzia, che ogni volta che ricordo in modo attivo si rianima come se lo sognassi per la prima volta”.

Quanto contano le emozioni nella stesura di uno scritto e quanto la dimensione razionale, come conciliarle nel processo creativo?

“In un processo autenticamente creativo non c’è alcuna distinzione fra emotivo e razionale. Parafrasando Pascal potremmo dire che nella libera scrittura creativa il cuore ha ragioni che la ragione ben conosce, e la ragione ha sentimenti che il cuore riconosce. Come ho appena detto, la creatività non nasce dall’Io, nasce dall’Altro, quindi non contempla la distinzione fra ragione e sentimento. L’Io separa la ragione dal sentimento sulla base di una esigenza di controllo che è tipica delle istanze del potere in ogni epoca e sotto ogni cielo, istanze che il mondo moderno – nel suo delirio individualistico – ha esteso all’Io tout court, ad ogni Io, inteso come “padrone di se stesso”. Questo controllo è un’illusione. Come nessun governo può esistere tanto a lungo da frenare le istanze di trasformazione, allo stesso modo “l’Io non è padrone in casa sua” (come ha detto Freud). Infatti l’Io è l’unica istanza della psiche che possa ammalare; anzi, la malattia psichica è insita nell’Io, che si vuole padrone di un mondo di cui di fatto non dispone.
La separazione fra le due dimensioni è l’aspetto filosofico più cogente della malattia mentale: il controllo instaurato dal pensiero calcolante, con la sua attitudine a frazionare e misurare, si oppone alla natura indivisa e panica del sentimento. La ragione ha qui la sua relazione col potere; l’emozione – se articolata in simboli – ha invece una relazione intrinseca con la libertà. In uno scritto che si voglia davvero creativo dovremmo raggiungere quello stato di “ispirazione”, di “dettatura”, che consenta l’abolizione di questa differenza. Come direbbero i Greci, occorre la fusione di Eros con Logos”.

In che modo la dimensione dell’ascolto nella sua esperienza di psicologo e in quella di scrittore e saggista determina una risposta di cura e/o di parola?

“Il paziente è per definizione un “cattivo narratore”. Arriva ed è confuso, non sa che dire, oppure insiste sempre sulle stesse ossessioni, o ancora sproloquia di cose futili… Lo fa perché il suo Io, malato, è costretto ad omettere parti importanti della vita psichica, a scinderle e a farle portare da soggettività distinte e inconsapevoli l’una dell’altra, a distorcerle e mascherarle. La buona narrazione è fluida, ricca, spontanea, aperta e fiduciosa. Non teme giudizi, non teme condanne, non ha mai vergogna di sé. La buona narrazione è sana.
Nella psicoterapia – come nella lettura attenta – il mio ascolto ha la funzione di offrire un bacino di raccolta ad acque che provengono da diverse direzioni per farne un fiume: le diverse voci dell’Io devono diventare una scena teatrale compiuta, un romanzo coi suoi personaggi, parti strumentali fuse in una sinfonia unitaria. Ascolto per cogliere la coerenza dell’insieme. Quindi devo intuire ciò che viene omesso, scisso, distorto, detto in modo smozzicato.
Certo, non sempre ascolto; spesso parlo, e lo faccio con una certa abbondanza. Ma, anche quando parlo, la mia risposta è in realtà una risposta vuota, perché la sua funzione è quella di dare spazio all’ulteriore risposta del paziente. L’ultima parola deve essere la sua. Quindi anche mentre sto parlando, in realtà io sono all’ascolto dei mille segnali di risposta che il paziente sta già componendo, spesso senza nemmeno saperlo”.

Ha anche lei l’impressione che ci sia troppa disinvoltura nel parlare dei propri pazienti e utilizzarli, esponendo i casi clinici con la presunzione di assunzione a paradigma, come carne da macello speculativo da parte di psicoanalisti à la page visibili mediaticamente e ambiziosi? Non vi è il rischio di una distorsione interpretativa, una cecità di sguardo e attenzione dovuta al proprio narcisismo?

“No, non ho questa impressione. Sin dall’inizio dell’avventura psicoanalitica, cioè a partire dai casi di isteria presentati da Freud, si è avuto bisogno di scrivere testi pubblici, accessibili a un mondo di lettori, quindi di parlare apertamente di psicopatologia. Dirò di più: senza le “presentazioni pubbliche” dei casi clinici da parte di Charcot, fatte in ospedale psichiatrico di fronte a colleghi e studenti, non ci sarebbe stata alcuna scienza psicoterapica moderna. Perché? Io credo perché la dimensione pubblica era in fondo richiesta da quegli stessi pazienti che alcuni di noi oggi considerano vittime della psichiatria. In realtà, questi pazienti erano vittime di una società che aveva scisso il potere e il controllo delle popolazioni e delle emozioni dalle reazioni emotive spontanee e dai disturbi della psiche (di questa “segregazione” ci dà conto Foucault a partire dalla sua Storia della follia nell’età classica). Indubbiamente gli psichiatri erano in parte strumenti di questo potere; ma allo stesso tempo, in quanto identificati coi reclusi, se ne dissociavano, talvolta in modo consapevole, talaltra in modo inconsapevole. Molti di loro erano in buona fede. Freud assistette agli “spettacoli” di Jean-Martin Charcot, nei quali delle donne “magnetizzate” dal fascino del “grande psichiatra” mettevano in scena i sintomi dell’isteria. Certo, in questi spettacoli c’era anche molta vanità maschile e un certo abuso di potere, ma anche un’intensa e partecipe complicità nel fare emergere il dolore femminile e, da parte degli spettatori, un’osservazione aperta, franca, onesta.
Oggi c’è molta mediaticità, c’è voglia di protagonismo, è vero. Ma per poter effettivamente “parlare”, “raccontare” la psiche, occorre identificarsi con essa: quindi tante verità nascoste possono finalmente emergere e diventare oggetto di dibattito pubblico proprio perché se ne parla. Quindi il racconto pubblico è un servizio pubblico e non mi sento affatto di censurarlo”.

Qual è il rapporto con la scrittura poetica (sua e altrui)?

“La poesia è per definizione allusiva, cioè polisemica: la sua caratteristica distintiva rispetto alla saggistica e alla narrativa è proprio questa. Infatti, più una narrazione è allusiva, più diciamo che è lirica. La poesia sfrutta l’ambiguità della destrutturazione semantica per “far passare” tutta una serie di significati non convenzionali. Prendiamo una frase qualunque: “la nuvola che sta in cielo”; questa, che è una frase semplice e chiara, può diventare “la nuvola abissale che spalanca un vuoto nel cielo diafano e perduto…” e questa deformazione della frase veicola una quantità di significati eterogenei rispetto al senso comune, lasciando affiorare “mondi semantici paralleli”: per esempio, nel caso della frase citata, la scalata dei demoni al cielo, la messa in crisi dei valori tradizionali o semplicemente il segno di una depressione psichica incipiente. Di conseguenza, la poesia, fra le diverse arti, è lo strumento ideale per dare vita all’inconscio restando vigili e coscienti. Non a caso si rivela essere uno strumento alquanto pericoloso: il numero di poeti nevrotici, psicotici o suicidi è fra i più elevati. In questo senso, e direi in un senso del tutto paradossale visto l’elevatissimo numero di persone che la pratica, la poesia è una delle attività umane più a rischio. Più rischiosa del paracadutismo o delle scalate di pareti rocciose. Chi la pratica cerca sempre di addomesticarla con formule retoriche, ma come una bestia selvaggia la poesia si ribella e porta a galla frammenti di depressione, o di esaltazione maniaca, o di nostalgie eroiche o erotiche…

La nuvola abissale spalanca
un vuoto nel cielo diafano e
perduto, come un chiodo rovesciato
scava un solco nella fronte. Preme
e scava. Là dove tu non sei più,
là stilla il sangue, geme il pianto,
dalla fonte del male. Apre languida
una ferita ai morti desideri…

Ecco, la nostra frase ha preso la direzione psicologica di una depressione da vita mancata… Non appena vedo la “poesia” del paziente, capisco per intero il significato della sua vita”.

Quanto ha dato, come influenza, la sua inclinazione e esperienza poetica, al lavoro di osservatore della psiche, e viceversa, cosa della psicologia confluisce nei suoi scritti prettamente creativi?

“Lo dico in una formula semplice: la metafora. Noi siamo animali metaforici. Metaforici vuol dire che siamo allo stesso tempo in un modo e in un altro; ma ne vediamo solo uno per volta, uno dei due modi ci sfugge sempre. La coscienza “ingenua” è immersa in un realismo lineare, per il quale – per dirla alla Montale – la realtà è quella che si vede. La coscienza sana invece dice: «né più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede». La realtà, come suggerisce Montale, è metaforica: noi siamo intrisi di desiderio, quindi di frustrazione, di delusione, di odio, di amori agognati e impossibili; un mondo parallelo ci alita accanto in ogni istante. La realtà che eccede il nostro mondo vissuto, che eccede anche il senso comune di cui siamo succubi, aleggia intorno a noi come una folla di angeli e demoni, come occulti suggeritori, come suggestioni abissali. Questo mondo parallelo, che io nel mio ultimo libro chiamo Mondo Antitetico, genera metafore: allusioni di significati alternativi.
Ogni psicopatologia trae il suo senso ultimo in una struttura il cui fine è bloccare la nascita di metafore; bloccare la nascita di sensi alternativi, di nuovi significati da estrarre dalla vita. Quando sono di fronte a un paziente vedo subito che i suoi sintomi nascono da una mente ristretta, che non sa cogliere l’essenza metaforica della realtà. A volte, questa incapacità è a tal punto strutturata che al paziente non resta che la letteralità dell’atto, e talvolta non può altro che soccombere al pragmatismo letterale della psichiatria organicista e degli psicofarmaci. Perché non produca ulteriore conflitto e sofferenza, la sua mente già semplificata deve essere ulteriormente ristretta. Dipende dalla sua cultura di base, dalla rimozione della fantasia, una vera e propria mutilazione prodotta dall’ideologia che lo intride da capo a piedi: religiosa, politica, di classe: una ideologia a tal punto radicata che lui stesso non ne ha coscienza, e a tal punto “forte” da impedire la nascita di sensi alternativi. Ma tante altre volte il paziente è all’altezza dell’enigma che la Storia gli ha lanciato: «Chi sei tu, veramente?» Quando morirai non ti verrà chiesto cosa hai fatto, ma cosa non hai fatto. Attrezzati a dare una risposta. È a questo punto che la psicoterapia può creare una vera relazione e quindi avere successo”.

Quanto la forza del femminile è ancora in grado di ribaltare l’esperienza umana più distruttiva e desertificante, di rivitalizzare le zone morte della psiche e quelle della creatività sociale?

“La donna è il genere negletto della Storia, perché è la classe assoggettata, schiavizzata. E lo è anche oggi che sembra aver conseguito diritti paritari. In realtà i suoi diritti sono espressione di un mondo mascolinizzato. Ma più viene ridotta al rango maschile, identificata con esso, più la donna diventa un fantasma che invade e occupa l’inconscio. Oggi la donna è la Natura violentata e ferita, è l’Anima dell’uomo che gli appare come incubo nella sempre più diffusa omosessualità, bisessualità, transessualità. L’ultimo attacco alla donna è costituito dalla fantasia monosessuale “progressista” di produrre figli in perfetto stile mercantile: una classe di schiave ben pagate genererà figli a uomini e donne (di sesso neutro) in grado di pagare per averli – in attesa che anche queste nuove schiave vengano sostituite da più innovative macchine incubatrici.
La donna è la reciprocità vilipesa e tradita. Ma in quanto tale, in quanto principio universale di reciprocità ed equilibrio, non muore mai, non può morire: gli uragani che devastano le coste hanno perlopiù nomi femminili. Oppure sono il niňo, il bambino: il prodotto di un grembo demoniaco. La possibile morte del pianeta avrà un giorno il volto e il nome di una strega”.

le eclissi dell animaCi parli del libro che ha ultimato e che uscirà a breve.

“Il libro uscirà fra la fine di aprile e l’inizio di maggio di quest’anno, in piena primavera. Il titolo è Le eclissi dell’anima, ed è edito da FrancoAngeli. Il tema si risolve in questa domanda: le grandi crisi psichiche possono essere intese come ostacoli e allo stesso tempo come occasioni lungo il percorso di realizzazione di se stessi? Ciascuno di noi sperimenta nel corso della vita crisi psicologiche più o meno traumatiche: costituiscono un trauma quelli che sono considerati i “normali” passaggi psicologici dall’infanzia alla pubertà, dall’adolescenza alla giovinezza, dalla maturità alla vecchiaia; ma con più evidenza anche eventi occasionali come l’irruzione di una nevrosi, un conflitto relazionale, un incidente, un lutto, una malattia, un tentato suicidio; ma possono esserlo anche un successo economico o sociale, una vincita, un’intuizione straordinaria, un amore improvviso. Ebbene, se ben accolti e integrati nella psiche questi choc esistenziali annunciano sempre un grande cambiamento e la nascita di una nuova stagione della vita.
La biografia di coloro che consideriamo “i migliori tra noi” – i grandi personaggi della storia – è costellata di eventi di tal genere. La “selva oscura” di Dante, la “notte oscura” di San Giovanni della Croce, si ripetono coi loro sinistri segnali e i loro annunci di speranza sia nelle vite di individui eccezionali che nell’esperienza di ciascuno di noi.
Ho costellato il libro con le storie di celebrità come Judy Garland, Ingmar Bergman, Friedrich Nietzsche, Carl Gustav Jung, Martin Heidegger, Hermann Hesse, Ernest Hemingway ed altri ancora per spiegare che la crisi tocca i grandi personaggi come i minori, e che non solo il successo ma anche il fallimento dei grandi può insegnarci qualcosa. L’analisi biografica di questi personaggi, come quella dei pazienti in psicoterapia, dimostra che ciascuno di noi ha un suo genio personale dalla cui realizzazione dipenderà se la nostra vita avrà o meno un senso, un significato. Con questo libro cerco di spiegare che ciascuno di noi ha un “destino felice” che l’intelligenza e la perseveranza possono liberare dalle catene di ignoranza e sofferenza in cui si trova”.

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