Anteprima
La silloge Parole a mio nome di Giancarlo Stoccoro procede per illuminazioni e stadi, legati da un viaggio comune, ma al contempo configurantisi come passi di un diario personale. Parole a mio nome, già il titolo, sembra considerare due aspetti che mi pare notare con forza in tutta l’opera: il luogo della parola quale risultato di conoscenza, più o meno affermativa, cui il poeta giunge attraverso un corso non sempre in progressione, e l’appropriazione degli elementi, che siano reali o soggettivi, attraverso il nome che viene assegnato. Dare un nome alle cose significa dare un segno di appartenenza, è il momento dell’appropriazione. Quest’ultimo punto mi pare essenziale e indicato dallo stesso poeta che sceglie come riferimento Yves Bonnefoy in due epigrafi poste ad inizio della due parti della silloge: Parole a mio nome e Consolare la notte. Scrive Bonnefoy: «Io, dice, vorrei dare un nome semplicemente a tutto questo, il nero, il nero negli occhi, il nero quando non c’è altro se non il nero, quando non c’è più nient’altro», e dare un nome significa comprendere e appropriarsi. La poesia come luogo dell’analisi, della dialettica e del dubbio è già coglibile nel testo incipitario in cui sono gli occhi a dirigere le parole, «ma non tutti i luoghi sanno avvicinarsi». Ritornando al titolo, il segno di appartenenza è segnalato dal pronome personale, dal ‘mio’, facendo pensare a una ipertrofia del soggetto, come segnalava Enrico Testa in un suo saggio sulla poesia contemporanea dal titolo Per interposta persona, tuttavia nell’opera di Stoccoro il rapporto è molto più complesso dell’apparenza. L’io poetico si relaziona ad un tu, che non è semplicemente un altro dall’«io». Il «tu», e qui la funzione pronominale complessa di questo poeta, potrebbe individuarsi in un «altro-io», in un «tu» come persona diversa e in un «tu» collettivo, quello che genericamente identifichiamo con il noi, sino a coinvolgere tutte queste persone in un unico dialogo: «Attenti a non sbagliare anno / soprattutto a non chiudersi dietro / la porta sbagliata con la chiave / che apriva tutto». Tutto ciò non esclude la poesia come autocoscienza e autoanalisi, ovvero la parola come espressione della crisi e della riappropriazione di sé. Casi unici sono la poesia dedicata al padre e quella dedicata a Mauro Valsangiacomo, entità ben delineate. A questo punto il dialogo pronominale, quello poc’anzi individuato, si concretizza nel parlare di se stessi e con se stessi: «Eppure a me piace scansare i fari / prendere a testa alta ogni luna / prima che il lago sempre ghiotto / se la succhi come una caramella». Si delinea, dunque, l’autocoscienza della crisi, in cui la parola, come lemma e come espressione, diventa un paradigma nella silloge di Stoccoro, ma anche il modo di rivisitare i luoghi che non ci ospitano più: «Per quanto t’immergi in parentesi tonde / accogli parole meno accentate / svuoti frasi cancelli nomi / uno per uno lasci il nero».
(dalla Prefazione di Giuseppe Manitta)
Sette poesie da Parole a mio nome (2014-2015), Il Convivio Editore, 2016 (*)
Sono gli occhi a dirigere le parole
ponte di luce in mezzo alle lacrime
ma non tutti i luoghi sanno avvicinarsi
se poi il cielo di traverso si mette
muro alto in una notte calma
corpo a corpo che ignora la morte
Parole a mio nome
Mi occupo soprattutto delle pause, gli interrogativi quando
stanno stretti in silenzio avrebbero bisogno di spazi ariosi, non
certo di questa casa in ombra dal primo pomeriggio. La luce
filtra con le parole adagiate sul divano ed è già sera. Il tavolo
accoglie la rinuncia, il pasto frugale, le frasi sottovuoto dosate
col bilancino. Il mito si racconta sul canale della sette. La memoria
oggi ha un retrogusto amaro.
Il segreto della sintassi è allargare l’orizzonte di sé
per geometrie escluse e somiglianze minute
sfogliando le pareti intaccate dalla muffa
Una sola infanzia un’estate felice
è bastata quasi fosse una catastrofe
riuscita bene non tutto quel tempo
irrisolto e irresolubile perché la vita
fa strazio di sé nei primi anni
falciati da madri poco premurose
padri assenti e sangue rappreso
Tradisce il rumore delle cose
la parola arrangiata a mezza voce la finestra sottomessa
alla vertigine alla tua pallida anestesia non c’è rimprovero
per chi preferisce una strada già grande nella notte fonda
A mio padre
C’è un’infanzia che ritorna dove è necessario
come questo sguardo affacciato
all’inverno alle sue cime bianche
al cielo terso fino a valle
alla neve sui rami dei larici
e sui tetti delle baite nel bosco
Un silenzio asciutto
dove il tempo cade
senza tanto fragore
L’infanzia scritta di getto
e ancora piena di superlativi
guarda come travalica le ossa
prima di giungere in un istante
a casa con le ombre dei vinti
(*) Parole a mio nome, è la più recente silloge di Giancarlo Stoccoro, edita da Il Convivio Editore, vincitrice ex aequo del Premio Pietro Carrera, aprile 2016.