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C’è un filo sottile che unisce gli scacchi con la poesia. Sembrerebbero lontani anni luce, ma per quanto mi riguarda non è così. Cito due testi cui tengo molto: uno è di Primo Levi, autore da me molto amato, ed è tratto da “L’altrui mestiere”, si intitola “Gli scacchisti irritabili” e parla di poeti e scacchisti; l’altro è tratto da “Cere perse” di Gesualdo Bufalino, anch’egli tra i miei preferiti, e si intitola “Lo scacco matto”. Gli scacchi sono “un’austera metafora della vita” scrive Levi. Quando giochi sei solo con te stesso e se perdi non puoi prendertela con nessun altro. Così i poeti sono totalmente soli di fronte alla pagina, responsabili della nudità cui stanno per esporre un pezzo della loro anima e se questa nudità non è totale il lettore se ne accorge subito e istintivamente non apprezza. Potrei definire la poesia, un po’ azzardatamente, pornografia dello spirito… “Quando il tuo re, per effetto della tua imperizia o disattenzione o imprudenza o della superiorità dell’avversario, viene stretto sempre più da vicino, minacciato (ma la minaccia deve essere espressa con voce chiara: non è mai un’insidia), incantonato, ed infine trafitto, tu non manchi di percepire, al di là della scacchiera, un’ombra simbolica. Quella che tu stai vivendo è una morte; è la tua morte, ed insieme è una morte di cui tu porti la colpa. Vivendola, la esorcizzi e ti fortifichi. Questo gioco cavalleresco e feroce è dunque poetico: tale è sentito da tutti coloro che lo hanno praticato, a qualsiasi livello […]”. Poeti e scacchisti giocano dunque con la morte, come nel “Settimo sigillo”, di Bergman. Bufalino scrive: ”Ecco, la mia idea è che la scacchiera rappresenti un luogo di vertigine e perdizione, e che la posta sottintesa d’ogni partita sia l’anima”. “La variante di Lüneburg” di Paolo Maurensig, scacchista egli stesso, tratta bene quest’argomento, ambientando la vicenda in un lager nazista. In un famoso aforisma Siegbert Tarrasch dice che gli scacchi, come l’amore e la musica, hanno il potere di rendere felice un uomo. Si tratta di un’affermazione solo apparentemente paradossale. La felicità è un tema eterno su cui i filosofi da sempre hanno scritto di tutto, a dimostrazione che la risposta non è unica. Ognuno può trovarla dove e come vuole, basta riconoscerla. Ebbene io credo che Tarrasch fosse affascinato, nell’antichissimo gioco, dalla sua inesauribilità. Dal senso dell’infinito. La sensazione che si prova innamorandosi dà l’idea, appunto, dell’infinito, della mancanza di confini visibili entro cui circoscrivere l’amore. Ed anche la musica ha questo potere straniante, tanto che se un brano piace molto, lo si può ascoltare ripetutamente senza annoiarsi, ma anzi godendone sempre più. Mi permetto di aggiungere, per quanto mi riguarda, la poesia. Musica, poesia e scacchi come metafore dell’infinito. Quindi della felicità. Meglio, della tensione verso la felicità. C’è bisogno di citare Leopardi?

 

 

 

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