simoncelli-cover x art emiliano zappalàStefano Simoncelli è un poeta piuttosto appartato. Uno di quelli che fa poco clamore. Anche se negli anni si è distinto per aver organizzato e portato avanti progetti interessantissimi e molto apprezzati. Per esempio la rivista di letteratura e politica “Sul Porto”, di cui fu ideatore negli anni settanta insieme a Ferruccio Benzoni e Walter Valeri e che vanta la collaborazione di nomi illustri come Pasolini, Bertolucci, Raboni, Giudici, Sereni, Caproni. Mentre oggi dirige la rassegna internazionale di poesia “Il porto dei poeti”, giunta alla sua sesta edizione.

Nato a Cesenatico nel 1950, in Romagna, dove vive ancora oggi. Negli anni ha pubblicato Poesie d’avventura (edito da Gramese, per la collana Gli spilli, diretta da Enzo Siciliano), Giocavo all’ala (Pequod, vincitore del Premio Gozzano), La rissa degli angeli (Pequod), Via dei Platani (Guanda, vincitore del Premio Mondello Opera Prima). Terza copia del gelo è uscito nel 2012 per italic, nella collana Rive.

Una raccolta che colpisce sin dal titolo, affascinante, enigmatico, misterioso. Sono poesie che non lasciano scampo, che inchiodano le mani, affilatissime. Poesie che parlano dritte dentro gli occhi, che ti aspettano a un varco. Sarebbe bello, per una volta, fingere di poter racchiudere un’opera, il frutto di anni di lavoro magari, dentro un sintagma e dire quindi, con semplicità, che Terzia copia del gelo è una raccolta di una bellezza straziante. È bellezza che strazia, bellezza che strugge. Sono poesie piene di assenza, di fantasmi, di apparizioni, di figure impalpabili, di sguardi che toccano le cose, le scorrono, le setacciano e cercano, per non trovare.

Una raccolta divisa in sette sezioni (Le visite di nessuno, Sulla mappa degli altipiani, Un bar lì vicino, Riva dei nottambuli, Un cortile d’inverno, Stazione remota, Tre pini e un chiosco). La prima si apre subito con una dedica a qualcuno che non c’è più “a Patrizia”. Donna misteriosa, sicuramente amata, persa e adesso cercata, con il lumicino, dentro la notte, tra gli scaffali, nei gesti e nella memoria. Donna che è passata nella vita del poeta e che ha lasciato le cose scompigliate, ha lasciato delle parole non dette, dei passi incompiuti. Ha lasciato una traccia che è diventata ricordo, è diventata ferita, è diventata poesia (Sarà stato il tuo modo/ un po’ strascicato/ con dolcezza/ di chiamarmi Stefano/ come fosse rimasto indietro…).

Stefano Simoncelli mette in scena un dialogo fatto di battute senza risposta, che esplodono sui muri e si trasformano in echi che rimbalzano nella testa. C’è un io che riesplora la sua vita, passa in rassegna i luoghi, i posti, gli oggetti, nomina le cose, rievoca, invoca il dolore, ruba parole al silenzio, strappa un sorriso alla morte. Senza mai essere eccessivamente retorico, senza mai cedere alla tentazione di cercare l’immagine facile, il richiamo scontato (Intanto vedo che non vieni/ per cena, che non sei/ in mezzo alla piazza/ tra i piccioni e la giostra,/ che ti bagnerai fino alle ossa/ ti ammalerai adesso che piove/ e hai dimenticato l’ombrello/ accanto alla porta,/ che non chiamerai per avvisarmi/ e non ci sarà più niente,/ proprio più niente/ da chiederti).

I versi di Terza copia del gelo sono versi sostanziali e necessari. La sapienza, il controllo dell’autore, infondono a ogni componimento un’atmosfera destabilizzante, che stupisce e continua a stupire. Sono poesie molto ben strutturate dal punto di vista del ritmo e dell’equilibrio. Ricche di enjambement su cui la voce scivola, batte, segna il tempo. Poesie piene di vento, neve, inverni, pioggia, brividi (È sempre inverno quando arrivo/ con il vestito della festa/ e gli occhi pieni/ di chilometri di neve, fanali/ e tornanti a strapiombo/ ma la casa è deserta,/ la stufa, in cucina, spenta/ e perfino la luce è andata via./ Ogni ritorno è identico all’altro/ come se una carta carbone, fossilizzata/ lungo il gelo dei muri, lo ricopiasse […]). Piene di aggettivi robusti. Di sirene, di sopravvissuti, di dolore, di città, di vecchie case, vecchi locali. Poesie scritte in toni di grigio, in un bianco e nero d’annata; che sembrano vecchie fotografie pescate da un passato sconosciuto. Attraversate da figure sottili, impalpabili e senza volto. Fatte di partenze, richiami, sussurri. Sono porte a vetri attraverso cui si sbircia dentro una vita; si passa per un attimo, si sente l’odore di morte e paradiso e poi si ripiomba fuori, nella nostra tormenta quotidiana (Questa notte ti guardavo/ che uscivi piano fuori dalla morte/ e venivi a trovarmi in un bar lì vicino./ Non c’era molto tempo, lo sentivo,/ qualche secondo per un abbraccio / o un attimo. “È tanto che t’aspetto”/ credo d’averti detto tra le lacrime/ “è tanto” ho ripetuto nel niente/ di niente che stringevo…).

La quinta sezione, Stazione remota, è dedicata al padre. Qui il verso si allunga, diventa quasi narrativo. Piccoli spaccati di prosa che mantengono però la bellezza ruvida dei componimenti delle prime sezioni. Un padre evocato con affetto, commozione, ma senza sentimentalismo, sottratto al sonno solo per venire a farci un occhiolino (Riesce appena a raggiungere, come il cardellino che gli è/ fuggito dalla gabbia, il platano vicino al cancello/ fingendo che sia proprio lì/ dove vuole arrivare, lì/ nel ventre stremato dell’ombra). Poesia quindi di morte e di sereno rimpianto. Poesia di vita e per la vita. Poesia di enorme fede, nelle nostre forze, nei nostri gesti. Poesia di esigenza che esige, che allunga la mano e si aggrappa all’ultimo scampolo della notte, al sogno lancinante. Poesia sopravvissuta. E di sopravvivenza (Dicono che ognuno compia il viaggio/ lungo un tunnel immenso e pauroso/ fino a un richiamo di luce/ abbagliante con persone amate, genitori,/ amici o bisavoli convenuti ad accoglierci./ Scrive Vittorio: “di momento in momento/ credici a quell’altra vita”. Io ci credo,/ ci credo, come credo alla sirena/ che annuncia acqua alta/ alla fine della notte/ e poco prima che ti sogni).

 

 

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