matthias-ferrino

sette inediti
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C’è niente sotto le lapidi, nelle tombe
ai cimiteri. Più niente. I morti sono
alle fermate dei tram, seduti
su millenni pressati in un granello
di polvere, oppure in piedi a fare
la coda dietro ai propri occhi.
Girano per le strade ad ogni ora,
parlano, vanno, fanno come chi
manchi di qualche cosa.
Li s’incontrano nell’incavo di tutti
i giorni, cercano la vita di sempre,
non la trovano, ostinati cercano ancora
l’attimo di luce accecante, l’eterna
presenza dell’istante.

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Grande grido della notte nei big bang
degli ombelichi recisi.
Madre – frontiera – tenda porpora
tra la macelleria all’angolo
e il vuoto del ventre pieno
delle cose che non sono.
La bestia sgozzata da una lama d’aria.
Gli occhi spalancati e immobili
dietro i vetri del fischio dei treni.
Noi il vapore fragile dello spavento.
Noi lo stupore di ciò che ci manca.

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Sarà poca roba la cintura stretta alla vita
per non fare cadere i pantaloni, ma noi sempre
di più la stringiamo, fino agli ultimi buchi,
la dura cintura di cuoio che camminando
è sensibile per le ossa; tiene su i pantaloni,
le mani nelle tasche con le chiavi di casa.
E fa pure male la vita sottile che riveste
le ossa, e la cintura all’ultimo buco
sulle anche nei pantaloni slargati dai giorni.

Eppure tiene, tiene ancora la fibbia che cigola,
stringe i denti. Non si vorrebbe perderli
quei pantaloni, come quando all’improvviso
si è visti in un paio di occhi che fanno
cadere il cielo, franare l’asfalto sotto
le scarpe, e si sta fermi, fermi in un niente,
davanti a dei poveri occhi pieni di quelle ossa
e calcificazioni che, nel vuoto,
non si sa per quali forze o inerzie,
stanno ancora su.

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Ha perso corpo la maglietta
a righe nere e bianche, il pigiama
che ti ho dato e che hai fatto
tuo. Piegato nel cassetto
non si muove dalla sua pila.
Non è più niente. Acaro,
mi muovo tra gl’infinitesimali
spazi vuoti, tra gl’intrecci
del tessuto di cotone, nella frazione
d’aria dell’orditura, e scendo
dentro, vado sotto…Seni e respiro
magro, un paese intero, tepore di spiaggia
dalla clavicola al collo, e assoluta
indifferenza della maglietta
lavata e stirata.

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A poco a poco, riabbassato e rovesciato
torno a essere solo la mia mancanza,
è possibile ? Sì…sì…è possibile…Nessuno
diceva che c’è birra nella lattina vuota.
Resta la birra che non c’è più, la sua assenza.
Le mani si chiudono attorno alle cose
e stringono più niente. Ho perso le mani,
le mani che erano tutto il tuo corpo.

(Sono davanti al citofono di Villa Giulia, nella grazia
dell’agosto profondo del 2016, ad aspettare in luce
il suono d’apertura del cancello arrugginito…però
adesso…)

Insieme, avevamo cercato un modo nel presente
per aprire le porte di tutti i tempi, per restare
sdraiati e nudi una vita in stanza Uno, eternamente,
pur continuando ognuno un suo quotidiano
diverso e lontano, come quello di oggi…un modo
per poter essere un po’ meglio adesso, tra le lattine,
davanti al computer, sempre con i morti, e ancora
con te, palpitante, accanto alla mia faccia sciolta,
immersa nei tuoi occhi, ora, distanti un niente…No…
no…non volevo credere che tutto quello sarebbe stato
possibile solo per un dire…(e perché ci è possibile
anche solo scriverle certe cose, perché ?) È adesso
che la carta decolla nel suo vuoto compiuto.

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Le nuvole non hanno mai
visto crescere un albero.

Diventa più grande nel silenzio,
non grida per i morti. Affonda
nella terra e si alza in cielo.
Le dita che giocano col vento.

(un bambino sull’auto veloce
col braccio fuori dal finestrino.
Fa il delfino la mano nell’aria.)

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(In anticipo netto sul filo aggrovigliato
del pensiero che districhiamo per una trama
sul mondo nudo – prima di ogni parola:
noi abbiamo nuotato nel buio
dei nervi, nel fluido che sommerge
il tempo e risparmia un’isola di luce
al pacato tumulto delle maree.
Noi eravamo quell’isola: eravamo spiaggia
e labbra, lingua d’acqua nel fragore
d’onda e notte…e siamo restati là, nel fondale
del cielo – nel paradiso sull’abisso, fissi
nelle orme dei gabbiani cancellate
sulla sabbia dalla marina, sciolti
nell’intreccio forte delle braccia.)

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