“Un sole di giallo d’ossa”. La poesia di Vittorio Bodini

vittorio bodini l'estroverso

Una geografia poetica isolata e solitaria, più solitaria dell’individuo stesso che la genera, può esistere. È una geografia che nessuna cartografia ha mai potuto segnare perché i suoi contorni si rintracciano a stento e perché nudo è il principio che le dà vita. Una geografia che compie dei movimenti intenzionali solo quando il suo creatore – il poeta – finalmente ha appreso la capacità di riconoscerla in sé, senza l’ausilio di strumenti che si preoccupino di configurarla. È la stessa geografia che s’imprime nell’infanzia – nel luogo fisico in cui nasciamo – e che poi via via si sfalda per riaprirsi con l’avvento del fare esperienziale al fine di un riutilizzo immaginifico e stilistico.

Gran parte della poesia meridionale è il ritratto “dolente e indolente” di questo tipo di geografia e di una somma di cromatismi che formano un paesaggio lirico vistosamente inciso nelle parole.

Tutti gli artisti, all’atto del creare, portano con sé i custoditi modelli del luogo in cui si è originata la loro vita, ma estremizzare questi modelli, farne dei veri e propri assi archetipici nella manica, può diventare la marca identitaria solo di qualcuno di loro.

C’è un punto che accomuna i poeti meridionali. Senza voler ridurre la riflessione a una pretesa di classificazione, senza voler rendere esclusivo un comportamento stilistico, è indubbio un fatto: gli autori meridionali consumano – come un cero che consumandosi nella luce allo stesso tempo la esalti – la loro alterità. In questo modo, i poeti meridionali diventano talmente ospitali da auto-incidersi sul verso l’inevitabile tema della propria morte. Insomma, nella poesia meridionale resiste l’epos della nominazione frontale della morte.

Vittorio Bodini è forse il poeta tra le cui pagine più si respira il senso di questa proposta semi-critica. Pur essendo nato a Bari nel 1914, Bodini era, per famiglia e formazione, leccese; proveniva dal Salento, terra di contadini, tabacchine, spettri alla controra, terra in cui ogni dettaglio del mondo era racchiuso in una elevazione impressiva che oggi potrebbe apparire folcloristica, ma che un tempo apparteneva ad una reale proposta di lettura della vita.

La sua poesia è battuta da lancette che non registrano il tempo, bensì lo immobilizzano. Ne consegue il ritratto di un Sud ozioso ma ieratico, zattera sulle superfici acquee del morbo del silenzio. La pianura mirare a perdita d’occhi,/ senza case, senz’alberi,/ senza una lettera:/ livello di un’assenza cui sole si sporgono/ capre o spettri di capre morte da secoli […]. Un Sud dove gli oggetti diventano il pretesto per una peregrinazione dell’azzardo metaforico; un Sud come creatura generosa che flette luce da ogni andito, come creatura che sfarzosamente ama acconciarsi per andare alle feste di paese, che ristagna nei vasi di gerani, che dorme sui taccuini dei letti, che trapassa le crune polverose dei campanili.

Cosa non fa il Sud per mettersi in mostra?

Anche quando giace pigramente, la sua ombra è una abortita aspirazione alla luce. Ma è a questo punto che le acque si confondono: la luce di cui scriviamo non è un tòpos scontato né banale. La luce bodiniana non è una mano provvidenziale, non è un cosmetico, non è quindi una citazione.

La luce bodiniana è una lancetta che ha già imbalsamato il tempo, superandolo. Ragion per cui, tra le poesie di Bodini non è insolito respirare aria di morte. La sgargiante signora che ci rende visibili, la nostra signora luce, ha lanciato il suo fascio sulle cose, le ha programmate per un riso da fotogramma. Così come nei fotogrammi i volti conservano solo quel felicemente tragico ematoma della posa, anche nelle poesie di Bodini la luce rende un servizio al tempo e lo blocca. A trarne beneficio sarà l’inclinazione seduttiva del passato: ciò che nel presente viene illuminato con una violenza degna dell’apparizione di un incantesimo kitsch è ciò che sarà festeggiato per sempre nella teca del museo del tempo. E nel museo del tempo sappiamo essere custoditi sentimenti come la nostalgia, la malinconia, il rimpianto, il rancore, il senso della non misura: plasticamente il passato prende forma e somiglia a quei terribili polsi di morti/ che ogni volta rispuntano dalle zolle/ e stancano le pale eternamente implacati […]. Ma è ancor più profondo il concetto dell’ “avvenuto” in Bodini: il suo Sud, meta destinale prima ancora che geografica, pecca per troppa bellezza. Tradizionalmente, la troppa bellezza può condurre alla rovina. Una rovina che costa il prezzo d’una passione deplorevole, una passione che, per amore di contraddizione, fonda e distrugge, avvicina e allontana: Qui non vorrei morire dove vivere/ mi tocca, mio paese/ così sgradito da doverti amare;/ lento piano dove la luce pare/ di carne cruda/ e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno […].

Rifuggire da una bellezza lungamente patita sarebbe come rinnovarla. Altro non resta che stare in quella paralisi di spettacolo retro-sommesso che solo la poesia può consegnare al tentativo della pagina: Sulle pianure del Sud non passa un sogno./ Sostantivi e le capre senza musica, con un segno di croce sulla schiena,/o un cerchio, quivi accampati aspettano un’altra vita […].

Il Sud di Bodini se ne sta incipiente e morente: nascente nella bellezza del decreto che lo ha scelto come album di passioni e morente per l’impossibilità di dare azione a queste stesse passioni fino a respingerle nella direzione di una non-risposta. E tuttavia una forza segreta ubbidisce sempre, è un’inquietudine nervosa, un malessere vitalistico; il duende lorchiano che si nasconde nella poesia di Bodini è il dettaglio che apre all’ambizione: Tutti gli orologi della tua casa/ sono fiori irrequieti,/ o battono con tempie di limoni/ nelle fruttiere, al buio delle sale.

Quando qualcosa diventa evidente non ci si può sottrarre alla sua denuncia: nel caso del poeta pugliese e di molti poeti del Mediterraneo (si ricorda che Bodini conobbe la Spagna, vi visse a lungo e fu traduttore dallo spagnolo), questa si esplica attraverso un uso carnale della parola (cioè della parola adoperata per corporizzare quello che è vivo sopra la platea dei vivi), attraverso una metafora che si spinge nella materia, la rovescia, la riconfigura assecondando quel desiderio frenetico di possesso che trascina un poeta verso il continuo mentire a se stesso. Da qui si originano le avventure retoriche di Bodini: il tramonto è di bestia macellata, il vespro a un angolo si pulisce la pipa, la luna è ghiotta d’angurie, gli aranci sono imbandierati, le stagioni hanno il becco sottile, le donne di Cocumola sono pennute. Una poesia “metamorfica”, come scrisse Michelangelo Zizzi nello studio “Il Sud e la Luna”(Levante Editori, Bari 1999), dove ogni essere in quanto essenza, apparizione, evidenza (questo è l’ordine) deve passare per il vaglio della simbiosi col mondo.

Dalle poesie di Bodini emerge, infine, un problema dell’antropologia esistenziale. Non già una questione meridionale, ma – oserei affermare – una questione più radicale: come un arazzo cucito su strati e strati di trama che nascondono l’ordito, il Sud è questo esempio di assemblaggio di colori dove la penna dei poeti incide lo spaesamento della vita, l’incognita della morte, il giudizio sull’identità.

Noi parliamo del logos e dell’amore, scrive Bodini, eleggendo la sua provincia salentina a modello per un discorso, un discorso che gira su se stesso e non ha mai fine, che sconvolge la vita di chi lo pronuncia e di chi ne è conoscitore profondissimo per averlo già pre-sentito (perché contadini invisibili parlano turchino dai campi di tabacco).

Insomma, leggere Bodini è scorrere un almanacco delle forze che allontanano il prevedibile e introducono alla profezia del senso. Tutto il Sud è terra profetica perché “potenziale”. Il senso stesso è continuamente potenziale dal momento che può sviluppare, se ben diretto, progressi verso il riconoscimento di sé. È la ragione per cui i campi lessicali di Bodini spesso slittano verso giochi associativi che stupiscono, che mandano in corto circuito la prassi ordinaria dei significati; è la ragione per cui le creature animate che il poeta descrive si sommano a quelle inanimate in una congrega di comuni percorsi. Così la luce è un’altra bestia sulle case; una funesta mano con languore dai tetti visita i forni spenti; ecco Monte Forato con l’anello al naso; fra un istante la notte avrà sapore di oliva verde. L’aria sa di gomma scura al crepuscolo meridiano, ogni cosa s’inverte in un’altra e la falce delle metamorfosi recide il linguaggio ordinario. Ne risulta una poesia “spettrale”, cioè una poesia fatta di apparizioni, visioni fomentate dal genio del sangue, dalla voglia di impartire lezioni di sé al mondo, come se dentro il giardino della propria stagione mortale crescessero astrazioni disposte a diventare materia da stornare fuori, all’aperto, in mezzo agli altri e dove natura comanda.

(versione rivisitata del testo già apparso in Le Voci della Luna, n.50)

Potrebbero interessarti

3 risposte

  1. Pingback: Bobby
  2. Pingback: oliver
  3. Pingback: tyler