rubrica, Il Cinematografo visto dall’Etna

È un classico tipo da. Presente in ogni simile situazione, dunque non degnamente sottolineabile ma in ogni caso allettante. A Milano, la chiamano sciura. Altrove è una donna borghese, tendenzialmente un po’ in là con gli anni, che si accompagna al marito in occasioni culturalmente degne di rilievo. Un’anteprima, ad esempio. Di un film recentemente acclamato a Cannes. Vincitore del Grand Prix Spécial du Jury. La Signora in questione, dicevamo, non riesce a nascondere un attimo d’insofferenza durante le scene, a-ehm, esplicite (ci torneremo più in là nel corso della recensione) tra omosessuali. La Signora è il nemico perfetto, è il capro espiatorio di associazioni LGBT, cinefili, libertini. La Signora è un bersaglio facile, la Signora ha scelto di rappresentare la controparte, di fare il ruolo della cattiva, di essere – insomma – quivi additata e ridotta a brandelli. E invece no. Invece la Signora – sì, la medesima: quella che fosse stato inverno avrebbe indossato una pelliccia e che adesso, piena estate, sfoggia un elegantissimo pantalone bianco – è la nostra principale alleata, il miglior critico possibile od immaginabile per questo 120 battements par minute. Perché la Signora, nel corso dell’indimenticabile pre-finale di questa magnifica opera terza del regista Robin Campillo, ha pianto. La Signora ha detto – in riferimento al protagonista della storia, un gigantesco Nahuel Pérez Biscayart – testuali parole: «Ma quanto è bravo questo attore!». E ha pianto. Perciò la Signora, meglio di chiunque altro, può introdurre un commento breve al lungometraggio forse più discusso sulla croisette del 2017. Perché la Signora ha avuto ragione a commuoversi.

Forse la Signora, come parecchi, non ha immediatamente identificato Robin Campillo: nome importante della cinematografia francese, soprattutto sceneggiatore e montatore legato a Laurent Cantet, ma anche autore dei belli e fortunati “Les Revenants” (dal quale è nata l’omonima serie televisiva) e “Eastern Boys”. Per questo film, certamente pietra angolare della sua carriera, il cinquantacinquenne di origini marocchine ha sfoderato come di consueto per i propri lavori tutti i suoi tre talenti, firmando script, regia ed editing. Prendendo, chiaramente, tre centri clamorosi. “120bpm” segue la – vera – vicenda del gruppo parigino di Act Up, associazione di denuncia che all’inizio degli anni ’90 si impegnò a lungo per richiamare l’attenzione del governo e dei cittadini francesi su AIDS, sieropositività e omosessualità, cercando di far luce e informazione riguardanti il prima e il dopo: cioè prevenzione (all’epoca per niente discussa) e cura della malattia. Con occhio e stile a tratti documentaristico, il film salta da un dibattito all’altro, da un’azione all’atra dell’organizzazione, introducendo in tale modo i personaggi principali, il loro carattere, la loro condizione di salute. I grandi meriti del regista, tra gli altri, sono principalmente due. Il primo: la precisione storiografica, medica, emotiva della storia riportata – che Campillo conosce poiché vissuta in prima persona all’epoca dei fatti. La seconda: la complessissima capacità di tessere un racconto corale che riesca a farti amare tutti gli interpreti, dal primo all’ultimo, da chi ha un’unica posa a chi è sempre in scena.

Il cineasta ci riesce nel modo più corretto possibile: stando cioè letteralmente addosso alle sue creature, in primo piano, di nuca, in interni, esterni, comunque, dovunque. Quando comincia a delinearsi con forza la storia d’amore tra Sean (il già menzionato Nahuel Pérez Biscayart) e Nathan (il neo arrivato del gruppo, Arnaud Valois) ci si è già affezionati a tutti gli altri. E quando insieme, nel sopracitato pre-finale, si riuniranno ancora in una stessa stanza, l’emozione sarà autentica, incontenibile. “120 battements par minute” sarà probabilmente ricordato, insieme all’iconico “Blue” di Derek Jarman, come il più grande film europeo sul tema che fronteggia. Perché è scritto, diretto e montato egregiamente. Perché non ha un secondo – uno – di retorica sentimentalmente sloganistica, pur avendo ogni occasione e pretesto per farla. Perché ha un cast stellare, potentissimo, efficace. Perché riesce ad evitare la trappola, ultimamente assai ribadita, del sesso esplicito – che in questo caso sarebbe stato un orpello. Perché i penultimi quindici minuti sono tra le cose più reali viste nel cinema di finzione degli anni ’10 del nuovo secolo. Perché il cinema, quando è bello, è bello. E anche la Signora se n’è accorta.

Voto: 8

 

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