#1Libroin5W.: Elisabetta Carta, “Vertigine”, edizionicroce.

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Chi?
Gheorghij, Giorgio Caligiuri, commissario di origine greca ma residente nella capitale (coprotagonista di un mio precedente romanzo ambientato nel cuore di Roma “Un amore di troppo”, di cui questo è il prequel), che viene mandato nel paesino di Cavalpetra, sulle falde dell’Etna, a passare un periodo sabbatico dopo lo scandalo che lo ha coinvolto a causa della sua ex moglie.
Scaraventato dalla capitale, dove ha lasciato supporto amicale e cadaveri nell’armadio, fra difficoltà del dialetto e l’impatto con un mondo quasi sconosciuto si trova a indagare sull’omicidio di un’adolescente rinvenuta sul greto del fiume.” Onesto”, come racconta di lui l’assassino, “si capiva da una certa vena d’ingenuità, sincero e incapace di sotterfugi, appassionato al suo lavoro fino alla dedizione. Tetragono e intelligente, un vero talento da segugio. Sarebbe arrivato alla verità”.
Disorientato quanto basta dalla realtà con cui è costretto a misurarsi (problemi relazionali, attrazioni improvvise verso donne misteriose, intolleranza alle bevande che- come nettare degli dei- possono mandare in deliquio, vittima inconsapevole di sogni rivelatori, antiche canzoni colte alla finestra ad acuire un romanticismo combattuto e mai sopito), Caligiuri riuscirà comunque a mettere a fuoco la vera natura del luogo e delle relazioni che vi si intersecano. E affrontando l’indagine e i segreti di quel mondo, riuscirà anche a penetrare nella sua anima di ferito a morte.
Ma Caligiuri è nato, già nella sua prima apparizione romana, per consolare dal dolore dell’abbandono una donna tradita in cui l’autrice si identificava: un personaggio di cui innamorarsi, complesso con le sue ferite, i suoi punti oscuri, sensibile tuttavia alle “cose” del mondo e capace di raffinatezze e passione. Per cercare di salvare in qualche modo le creature ferite dalla protervia del potere.

Cosa?
La protervia del potere appunto, che ritorna inconsapevole in tutti i miei romanzi, anche nel precedente “Stasera niente stelle”, dove due bambine, forti della loro innocenza, vincono le forze oscure, quasi familiari, del male inaspettato e onnipresente.
In VERTIGINE il potere ha un aspetto sorridente e quasi bonario, a tratti neppure cosciente del male che provoca, mitigato dall’ avvolgente atmosfera di una Sicilia carica di profumi e sapori. Gelsomino, mandarini, gelsi, cannoli, biancomangiare “delle sue mani”, e le tanto decantate “Minne”, cassatine a forma di seni con una ciliegina per capezzolo.
E la MONTAGNA, con la sua polvere e i suoi umori mutevoli incombe su questa realtà con quel fascino primordiale che ha il potere di “Inzavanire” e/o purificare. Montagna che, per citare la prefazione di Andrea Giampietro, “tornerà più volte nel racconto, per la valenza minacciosa e premonitrice della sua natura vulcanica”.
E poi chiedeva visibilità la mia affezione per la Sicilia, terra di mio padre Sebastiano Carta, artista a tutto tondo, insieme alla sofferenza e al “consòlo” che si prova vivendola.
“Spighe e fantasmi al tuo alito, terra mia terra, macchia d’ulivo/Fulmine e pensiero ai tuoi occhi, terra mia terra, stella di pianto/…/La cenere del tuo corpo, il fuoco nelle dita/Terra mia terra, aria e seme”.

Quando?
L’idea è nata quando, su consiglio del mio compagno lessi la novella “La piccola Roque” di Mupassant, in uno dei supplementi che uscivano settimanalmente col quotidiano “La Repubblica” e che lui conservava nella sua libreria. La breve storia di quest’omicidio dell’ottocento, ambientata in un paesino rurale della Francia, con un bosco che nasconde e rivela, e il sospetto che attanaglia gli abitanti inconsapevoli, mi ha di fatto trasportata alla provincia catanese che spesso frequento quando sono in quella città, magari per andare a cercare un po’ di frescura nei giorni di fuoco laddove l’afa si dirada man mano che si sale. Mi sembrava la “location” ideale, citando un luogo del cinema che spesso viene affrontato in varie forme nel prosieguo dell’indagine, per inserire una storia carica di mistero, dove niente è come sembra.
Modernizzandolo avevo due, se non tre, elementi che potevano arricchire il contorno. La Montagna appunto, e la sua polvere che penetra ovunque e non lascia scampo, un fiumiciattolo la cui frescura può rappresentare il pericolo e un commissario, che sembrava fatto apposta per essere mandato in trasferta dalla capitale con tutti i suoi fardelli.

Dove?
Ho cominciato a scriverlo proprio in Sicilia, mentre ero in vacanza vicino Pachino, in una villetta sulla costa dell’Ambra, una spiaggia libera stupenda frequentata solo dai pochi villeggianti. Lì è nato il nome di Cavalpetra e il miracolo della polvere d’oro, che duecento anni prima, dopo un’eruzione, l’Etna aveva rivelato fra le rocce della lava incrostata. Fenomeno durato l’arco di poche settimane ma che lascerà strascico fino ai tempi del racconto.
Anche il cinema, come dicevo, ha contribuito a dare spunti all’indagine. Da “Il giorno della civetta”, con una donna misteriosa che si aggira per il paese, a un noir d’epoca “Nebbie” con Humphrey Bogart nei panni di un uxoricida, fino a “La lunga notte del ‘43” splendido bianco e nero tratto da un racconto di Bassani, dove un uomo in carrozzella costretto a vivere alla finestra assiste all’attuarsi di una vendetta. Anche “Il mio piede sinistro” verso il finale ispira il commissario: “A Caligiuri venne in mente un film con Daniel Day Lewis, che ci aveva pure vinto un Oscar e che aveva trovato l’amore proprio in ospedale. Gli parve che fosse intitolato “Il mio piede sinistro”, ma non ricordava il perché”.
Non ultimo il dialetto siciliano che ho inserito in moltissimi dialoghi e a cui “Caligiuri viene iniziato” per citare Andrea Giampietro “dal coloritissimo vice commissario Palombella”. Dialetto che torna, per tormentare la vena romantica del commissario, nei versi di un’antica canzone popolare:
“Lu suli è già spuntatu di lu mari/ e vui, bidduzza mia, durmiti ancora”, attribuita erroneamente a Vincenzo Bellini. Che anche se non è sua ci piace pensarlo.

Perché?
Perché la “vertigine” è sempre in agguato. Un’ombra che dal nostro inconscio si allarga e cresce per mandarci in deliquio fin nei visceri del monte a inghiottirci e purificarci. La leggenda del filosofo agrigentino Empedocle, che aveva fissato la sua dimora sull’Etna: la Montagna, madre e distruttrice a un tempo che ha sempre sedotto gli umani, ripagandoli con la sua terra fertile e pericolosa. Dedito allo studio degli elementi naturali, acqua, fuoco, terra, aria, immaginando di poter diventare tutt’uno con loro, convinto per il contatto continuo con queste forze della natura di essere divenuto immortale, si sarebbe gettato nel vulcano nel pieno di un’eruzione.
La sagoma nera che sta per cadere nei crateri può essere ognuno di noi quando la vertigine ci assale insieme all’oblio della nostra umanità. È un avvertimento, un presagio bianco, una guida. E Caligiuri l’assume come risorsa e riscatto. A differenza di John Ferguson-James Stewart, protagonista di “VERTIGO” di Alfred Hitchcock, altro film cui mi sono aspirata, che restando incagliato nelle sue angosce, se ne accorgerà troppo tardi.
E anche perché il “biancomangiare sulla foglia di limone” preso dalle mani della donna amata, (reale? Immaginaria?) è un cibo da cui non si può prescindere per diventare, anche per un attimo, immortali.

scelti per voi

Nelle intermittenze di veglia cui lo sottoponeva il rollio del treno e l’inevitabile scomodità, i suoi occhi si spalancavano ogni volta su paesaggi diversi che sembravano usciti dall’incubo di una fiaba medievale. A volte gli sembrava d’intravedere lingue di fuoco che cercavano di lambire senza riuscire ad attraversarlo il vetro dei finestrini e si riaddormentava immaginando di sprofondare all’inferno. Altrove la campagna appena rischiarata da qualche albeggiante bagliore, restituiva nei chiaroscuri immagini di arcadia perduta, e lo faceva ripiombare nel sonno con quell’acuto senso di nostalgia che lo accompagnava come una falce, come un coltello puntato alla gola. Nel dormiveglia si tormentava pensando di aver offerto ai compagni di viaggio qualche gesto inconsulto della mano a difesa della sua carotide. Ma per fortuna gli altri non sembravano accorgersi di quei tormenti. Il vagone, ne era certo, trasportava solo dannati e ognuno di essi aveva il suo personale supplizio cui aggrapparsi.

Spostò lo sguardo offuscato verso il busto cui quelle mani appartenevano, e non riusciva a spiegarsi l’emozione improvvisa che lo stava attraversando a partire dallo stomaco.” E’il vino, pensò, o il cibo, o entrambi. Devo darci un taglio prima di correre a vomitare in uno di questi bagni d’epoca”. Ma quando gli occhi sfiorano il volto che sovrastava quel busto, l’emozione, arrivata alla gola, sembrò togliergli il respiro e temette davvero per la sua immagine di commissario in visita dalla capitale. Era lei, la nera incantatrice, l’indossatrice fatale, foglia di limone sinuosa e fragrante su cui adagiare le membra e spargere sospiri e, finalmente, lacrime.

Entrambe sorprendenti, entrambe desiderabili.
Non riusciva a spiegarsi Caligiuri la sua mancanza di iniziativa, quell’impotenza guardinga che ormai l’avvolgeva, frustrante e tuttavia desiderata, ora se ne accorgeva, davanti a quelle visioni, e che gl’impediva di espletare i doveri di maschio nei confronti del suo sesso, a parte i tentativi inconsci abortiti nei sogni. Neanche a Chiericò avrebbe potuto confidare quei crucci. Per Carmela in fondo poteva giustificarsi, così misteriosa e irraggiungibile, almeno all’apparenza, quelle frasi dette e non dette, lo sguardo carico di segreti, anche se la sua intraprendenza d’un tempo avrebbe potuto incidervi facilmente una braccia senza paura di ricevere rifiuti. Ma per Simona non aveva scuse. Gli si era praticamente offerta davanti all’ingresso del ristorante, quel luogo fuori dal mondo, così asettico per stare alle falde di un vulcano che a ripensarci era come se avesse sognato il trailer di un film di fantascienza dove niente è come sembra. E in effetti la sua vita, da quando era arrivato sull’isola, ora gli pareva sospesa in un vuoto al di là dello spazio, quella Shangrilà sul Mongibello, bloccata nel tempo in una dimensione non ufficiale, da cui solo un antidoto avrebbe potuto liberarlo. Quanto tempo ci sarebbe voluto per scioglierlo dall’incantesimo? Ulisse nell’isola di Circe aveva atteso anni e perso tutti i compagni prima di approdare all’isola dei Feaci e fare ritorno a Itaca. Itaca, ma cos’era Itaca per lui?…

E senza accorgersene si addormentò come succede ai bambini, che fino a un attimo prima sembrano argento vivo e poi in un secondo cadono in trance, sfiniti dai loro giochi e dall’ansia si viverli. E la sagoma trasparente, in bilico sulla finestra, spiccò il volo dove era attesa. La mattina dopo si era svegliato di buon umore, un sonno senza sogni l’aveva riportato alla realtà e alla polvere Farenait, di cui doveva fare una scorta prima di tornare nel continente, casomai ci fosse tornato. L’aria era frizzante, l’umidità della sera prima un ricordo lontano e le foglie del giardino ondeggiavano alle folate del vento mormorando il suo nome.
“Giorgio Caligiuri sei un grande!” ecco cosa dicevano. E altre cose gentili che Caligiuri non voleva ascoltare per non inorgoglirsi troppo. Ma aveva bisogno di qualche parola di lode per tornare a fidarsi di sé stesso e il fatto che gli venissero dal giardino lo rassicurava. Gli umani potevano parlare per interesse, per piaggeria, gli alberi no, e poi quelle piante ormai lo conoscevano per come era veramente, pieno di difetti, cinico a volte e anche rancoroso e nonostante tutto passibile di stima e di fiducia. “E così sarà, per questa giornata almeno, promesso”, disse a voce alta infilandosi la giacca, mentre apriva la porta, che sbatté per un colpo di vento chiudendosi all’improvviso. “Se non sono impazzito poco ci manca” pensò avviandosi verso il commissariato, ma non aveva molto importanza perché quel giorno aveva il favore degli astri.

Mentre si accingeva a traversare quella specie di rigagnolo chiamato ‘U Giarnu, causa il colore terrigno di quella poca acqua che confluiva a fatica nel Simeto, spingendo a braccia sullo sconnesso ponticello l’amata bicicletta come una fidanzata restia, il portalettere s’era addunatu di quel fagotto di abiti sulla sponda opposta.
Appoggiata la bici alla spalletta mezzo pericolante del ponte, si era avvicinato con cautela. Gli indumenti erano stesi a coprire qualcosa che poteva essere frutta rubata da qualche ladruncolo vagabondo, e girò gli occhi torno torno all’orizzonte a taliare se ci fosse qualcuno arrampicato sugli alberi. Nessuno.
Allungata una mano e sollevato un lembo della veste, sotto erano spuntati due piedini di fanciulla ancora bagnati, talmente graziosi che si vergognò di quella nudità violata. Pensò che la ragazzina dormisse dopo essersi rinfrescata al fiume, e per ripararsi dal sole che dardeggiava in coppia con la montagna si fosse coperta dalla testa ai piedi con i suoi stessi indumenti. In corrispondenza del capo, infatti, se ne accorgeva ora, erano appoggiate un paio di mutande di cotonina bianca. Indeciso se forzare quell’intimità, preoccupato per la salute della misteriosa fanciulla, aveva lasciato scivolare dal viso l’indumento tirandolo con due dita. E quel viso, che immaginava immerso in un sonno innocente, gli rivelò invece la cupidigia della morte. S’era messo a correre verso il paese, assummato di terrore, poi era tornato indietro e afferrata la bicicletta per fare prima e anche per non lasciarla incustodita, che un cadavere non se lo ruba nessuno ma una bicicletta sì, lo diceva anche quel film del dopoguerra “Ladri di biciclette”, e arrancando sconvolto su per la salita, era arrivato al commissariato che stava giusto suonando la campana del mezzodì.

Dopo un tempo indefinito in cui Gennaruzzu non si faceva vedere e donna Rosaria continuava nel suo riacquistato potere di gentildonna, offrendo oltre al rosolio dolcetti di pasta di mandorle adagiati su salviettini ricamati, la porta del bagno, che era a fianco del salotto, si aprì e il figlio riapparve, avvolto ovviamente in una nuvola di fumo. Un quarantenne all’apparenza, bello come un dio greco, giacca di camera di velluto color sangue di bue, fazzoletto di seta attorno al collo. Un gentiluomo dell’ottocento che per corteggiare una fanciulla chiede il permesso per iscritto. Il lieve accenno di barba e qualcosa di scomposto nella piega delle labbra e nelle occhiaie marcate, viranti al blu, come probabilmente il suo sangue di nobiluomo, stavano a sottolineare il vizio che lo consumava e nottate intere senza sonno alla finestra.
E forse qualche vizio solitario, che la mancanza di femmina poteva aver scatenato fin dalla gioventù. Sorridendo ai due ospiti sedette sulla francesina imbottita di velluto verde appoggiata al davanzale e tirò fuori dalla tasca le cartine e il tabacco.
“Disturbo se fumo?” e cominciò ad arrotolare. Una, due, tre, quattro cannoncini tutti uguali, due con filtro incorporato.
“Posso offrire? Preferite con o senza?”
Caligiuri accettò quella col filtro, Palombella non fumava e si scusò, come se in quella casa fosse uno sgarbo rifiutare.
Mentre accendeva la sigaretta Caligiuri pensò a suo nonno il greco. Anche lui, per risparmiare, si comprava il tabacco e qualche volta al piccolo Gheorgy era capitato di prendere una cicca e aspirare di nascosto l’ultima tirata.
E osservando quell’uomo bello e infelice, quasi coetaneo, cominciò a vergognarsi delle sue ansie. Fece uno sforzo per evitare di perdersi in quei meandri della mente che ormai gli erano diventati così consueti, un vizio? Una mania? Si trovava lì per istinto sbirresco e si costrinse a fare marcia indietro.

Alla fine di tutte le coincidenze si accomiatò con la promessa di vedersi il giorno dopo, e prendendo sottobraccio Simona, appena fuori dalla stanza, le chiese a bassa voce cosa significasse quella frase che aveva sentito per la seconda volta.
“Acchiana mura lisci? Be’…Hai presente l’Uomo Ragno?”.

Elisabetta Carta è nata e vive a Roma. Debutta giovanissima al teatro stabile di Genova con la regia di Luigi Squarzina ne “La vita di Moliere” di Bulgakov accanto ad Eros Pagni, vincendo la “Noce d’oro” come miglior attrice giovane. Prosegue la carriera interpretando innumerevoli ruoli da protagonista, fra cui il personaggio di Desdemona nella prima regia di Gabriele Lavia. Interpreta autori come Pirandello ne “La ragione degli altri” e O’Neill in “Lungo viaggio verso la notte” con la regia di Giuseppe Venetucci al teatro “Ventesimo Secolo” diretto da Gianfranco Calligarich, “L’uomo la bestia e la virtù” con Roberto Herlitzka per la regia di M. Parodi e “Il fu Mattia Pascal” con Pino MIcol, regia di M. Scaparro. Affronta personaggi come Fedra di Ghiannis Ritzos e Lady Macbeth di Shakespeare con la regia di Fulvio d’Angelo, vincendo con d’Angelo il premio Maratea per la ricerca. In Sicilia, sua terra di origine interpreta fra l’altro “Rosa di zolfo” di Antonio Aniante, con Leo Gullotta e Rosa Balistreri, per la regia di Romano Bernardi.
Prende parte a numerose e commedie e sceneggiati nella stagione della prosa televisiva. Con Gabriele Lavia e Franca Nuti interpreta “Più grandiose dimore” di O’Neill e radiofonica prestando la voce a Madame Bovary e Paolina Borghese. Nel cinema, con il film “L’amore probabilmente” di Giuseppe Bertolucci, partecipa nel 2001 alla Mostra di Venezia. Recentemente ha preso parte alle fiction “Il giovane Montalbano” e “Questo è il mio paese”. Ha pubblicato nel 2009 “Cuore di scimmia”, dedicato a suo padre, Sebastiano Carta, pittore e poeta di origine siciliana dell’ultimo futurismo. Nel 2012 “Un amore di troppo, diario di una cinquantenne con delitto” ambientato nel cuore della vecchia Roma e nel 2021 “Stasera niente stelle. Due bambine nell’inferno dei grandi”. “Vertigine”, ambientato a Catania e dintorni, è il suo quarto romanzo.
Email:. carta.elisabetta@libero.it

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