1Libroin5W.: Francesco Ferracin, “La Leonessa”, Linea Edizioni.

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Chi? 

La protagonista è Friederike “Rike” Beck. Nata a Berlino nel 1936, Rike ha perso entrambi i genitori durante la guerra.  Cresciuta dal nonno, un noto etnologo vicino al regime nazista, dopo la capitolazione viene accolta a malincuore dalla sorella di sua madre, una vedova ipocondriaca ed egocentrica, che, come Rike, è stata profondamente segnata dalla guerra. Ancora bambina, dopo la scuola, è costretta ad accollarsi la cura della zia costantemente affetta da inspiegabili malattie e del nonno mentalmente fragile e senile. Unica sua consolazione i libri e la natura ancora incontaminata del Brandeburgo: fiumi, laghi, foreste che permettono a Rike di tenere in vita il mondo fantastico in cui aveva trovato rifugio durante i bombardamenti che le avevano strappato tutti i suoi affetti. Rike stessa, per il suo aspetto fatato, fiero e selvaggio, sembra uscita da una fiaba romantica. Tuttavia, lei non si rende conto dell’effetto che la sua bellezza ha sulle persone, e il suo carattere introverso e diffidente non le permette di legarsi a nessuno, se non a Brigitte, una sua ex-compagna di scuola: l’unica persona al mondo con cui riesce a confidarsi e con cui si prepara ad affrontare l’incerto futuro del loro paese, la Repubblica Democratica Tedesca, schiacciato fra la Germania Federale del “miracolo economico”, e l’Unione Sovietica ancora prigioniera del fantasma di Stalin. Nel 1961, poco prima della costruzione del muro di Berlino, Rike conosce Alexander, uno studente di ingegneria nigeriano e contro ogni convenzione sociale decide di sposarlo e di seguirlo in Nigeria. Dopo un viaggio rocambolesco, con pochi bagagli, due figlie piccole e senza un soldo, armata solo della sua intraprendenza, riesce ad atterrare a Enugu. L’impatto con l’Africa è a dir poco traumatico. Unica donna tedesca in un paese ancora profondamente “inglese”, si scontra subito con le difficoltà linguistiche e culturali e, soprattutto, con le contraddizioni e i problemi che la Nigeria ha ereditato dal governo coloniale britannico. Grazie al marito, entra a far parte dell’élite locale, composta soprattutto da occidentali: uomini d’affari, diplomatici, spie. E proprio in questi salotti si rende conto che il paese è sull’orlo di una guerra civile che scoppierà Il 6 luglio del 1967: uno dei conflitti più sanguinosi nell’Africa post-coloniale e una delle più drammatiche crisi umanitarie del ‘900. Sarà l’inferno. Alexander viene chiamato alle armi e Rike deve provare a scappare dal paese assediato con i suoi 4 figli. Avrà così inizio il viaggio di una madre coraggio che per salvare la vita dei suoi figli è costretta a fronteggiare il lato più oscuro dell’essere umano, e a compiere scelte drammatiche che la porteranno a dubitare di tutto, anche di sé stessa.

Cosa?

“Il segreto dell’amore è più grande di quello della morte”, fa dire Oscar Wilde a Salomè. Amore e morte si incrociano spesso in questo romanzo di formazione. Da un lato c’è l’educazione sentimentale della protagonista, prigioniera di un costante senso di inappartenenza, di una inattualità che la fa sentire costantemente estranea al mondo e al suo stesso corpo del quale prenderà coscienza solo quando, in Africa, entrerà a contatto con quella forza primordiale che l’Europa del ‘900 aveva represso; dall’altro il drammatico susseguirsi di conflitti che dai primi anni ’50 aprirono la strada alle crisi geopolitiche dei nostri giorni: la polarizzazione della guerra fredda, le rivolte nei paesi del Patto di Varsavia, la costruzione del muro di Berlino e la radicale separazione delle due Germanie, la crisi di Cuba, il Vietnam, la Guerra dei sei giorni e i conflitti nell’Africa post-coloniale, in particolar modo quello del Biafra, nel quale la protagonista si troverà invischiata. Le ragioni che mi hanno spinto ad affrontare questi due temi in costante dialogo fra di loro sono state il desiderio di riportare alla luce eventi meno conosciuti  della storia tedesca, utili a parer mio a capire la Germania, e, se vogliamo, l’Europa contemporanea; di parlare, nel modo più oggettivo (e documentato) possibile, del travaglio attraverso il quale sono nati gli stati africani moderni: l’ambiguità dei processi di emancipazione dalle potenze coloniali, talvolta paradossali, quasi sempre a discapito dei popoli africani; la necessità di raccontare la guerra civile nigeriana e la tragedia umanitaria del Biafra attraverso gli occhi di una donna tedesca e socialista, quindi privi del filtro culturale con cui il mondo occidentale e imperialista ce l’aveva raccontata finendo poi per derubricarla come una delle tante crisi umanitarie africane, per coprire le vere ragioni che l’avevano causata: le stesse ragioni che governano i conflitti che stiamo vivendo oggi. È attraverso questa danza macabra che ancora più forte risalta l’aspirazione all’amore della protagonista (e di molti dei personaggi che incontra nel suo cammino), il suo bisogno di comprendere quel sentimento irrazionale che riesce a trascendere la morte, e la vita, ma che, forse, alla fine, è in grado di dare un senso alle nostre esistenze.

Quando?

È nata poco più di tre anni fa, quando Patricia Onyewenjo Rosin, un’artista tedesca di grande talento, ha proposto a Lisa Marra, la mia editrice, di pubblicare i diari di sua madre, Christel Onyewenjo-Schröder, la donna straordinaria che avrebbe ispirato il personaggio di Rike Beck. Lisa mi presentò Patricia a Padova e dopo pochi minuti decidemmo che dai diari di sua mamma sarebbe dovuto nascere un romanzo. Essendo germanista di formazione e vivendo a Berlino da una ventina d’anni, ho avuto il privilegio di “sentire” la voce di Christel in originale. Le esperienze da lei vissute nei suoi anni in Nigeria, mi hanno fatto capire che mi era capitata fra le mani una storia magnifica, da scrivere coi guanti bianchi perché, nonostante le vicende della vita di Christel siano state in gran parte romanzate, volevo essere il più possibile fedele e rispettoso della sua memoria.

Dove?

I due temi principali de La Leonessa sono nati nella mia adolescenza, e si sono sviluppati durante i miei anni di formazione. Non è la prima volta che li affronto “artisticamente” (per Linea Edizioni l’ho fatto in un’opera poetica intitolata L’Incubo della Farfalla e li ho affrontati nelle sceneggiature di due miei film, That year in China e The Golden Cage), ma mai lo avevo fatto in un modo così esteso, e, in un certo senso, spero, compiuto. Fin da subito mi sono reso conto che non era una storia che si poteva raccontare in poche pagine, e forse, in un solo libro. Era una storia che richiedeva ricerche, letture, lunghe ore in biblioteca (non mi fido troppo di google). Optai per lasciare che fosse essa a dettarmi la sua lunghezza, e lo stile in cui doveva essere raccontata. Volevo far entrare il lettore nella mente della protagonista, servendomi di una ideale telecamera che mi aiutasse a cambiare le prospettive di narrazione, passando dalla terza persona della prima parte, alla prima (corale) della seconda, in forma di romanzo epistolare, alla prima “diaristica” della terza parte che si scioglie progressivamente (nella quarta parte) in un flusso di coscienza quando la protagonista si trova ad affrontare l’ “ingiustizia della Storia”. Questo procedimento ha richiesto più di due anni e un migliaio di pagine che poi sono diventate 650 nella stesura finale, divisa in 4 parti che potrebbero anche essere lette come tre libri.

Perché?

Perché credo che la letteratura debba continuare a occuparsi dei “grandi temi”, debba voler ambire all’universale, e, come mi ha detto una scrittrice meravigliosa: “debba dar voce alle vittime delle divisioni imposte dalle ideologie, dalle guerre decise altrove, agli esseri umani che si muovono nella geografia come animati da una luminosa vendetta contro l’impossibile” (Saba Anglana).

 Scelti per voi

Il corpo dell’uomo pendeva dal lampione. Era stato appeso per il collo con una corda da balle, legata alla meglio sul braccio di ferro verderame che reggeva la lampada elettrica dal vetro opaco e incrostato di smog, polline e insetti. Uno sciame di mosche ronzava attorno al suo volto insanguinato, reso quasi irriconoscibile dalle percosse. Un occhio aperto incorniciato di viola fissava l’aldilà, l’altro pendeva bianco e gelatinoso dall’orbita fratturata a colpi di bastone. La lingua bluastra sembrava come incastrata nell’angolo della bocca, fra le labbra gonfie: un’immagine grottesca che pareva uscita da un quadro di Bruegel il Vecchio, e che poco o nulla aveva più di umano.

A poca distanza, giù dalla riva erbosa della Havel, un gruppo di cigni scivolava ignaro della violenza che aveva sconvolto per alcune ore le vie di quella tranquilla cittadina di provincia.

Manfred Granzow era stato impiccato a neppure quattro metri da terra, la camicia a brandelli e i piedi nudi perché qualcuno doveva aver pensato che le scarpe non gli sarebbero più servite. Aveva trentasette anni, due dei quali li aveva trascorsi a non vedere nulla su una torretta del campo di concentramento di Buchenwald. Poco prima dell’arrivo dei russi era riuscito a sbarazzarsi dell’uniforme e a darsi alla macchia. Calmatesi un po’ le acque, aveva girato i villaggi della Germania Orientale, lavorando come bracciante agricolo fino a che il suo vagabondare non lo aveva condotto a Rathenow, una cittadina tardomedievale nel circondario del Havelland, nota soprattutto per essere stata la culla dell’industria ottica tedesca. Fu infatti a Rathenow che, nel 1801, Johann Heinrich August von Duncker aveva inventato la macchina rettificatrice multimandrino che avrebbe di lì a poco rivoluzionato la produzione delle lenti per occhiali e, nei secoli a venire, garantito alla città il relativo benessere che neppure due guerre mondiali sarebbero riuscite del tutto a cancellare. Fu proprio in una di quelle fabbriche di componenti ottici che Granzow aveva trovato un impiego ed essendo sempre stato un uomo ricco di parlantina e povero di coscienza – sapeva quando tacere e, soprattutto, quando ascoltare – non ci aveva messo molto a farsi notare da un funzionario del SED. Era l’autunno del 1950 e il terzo congresso del Partito socialista unitario di Germania aveva mostrato al paese la strada per il futuro. A Berlino Est, il popolo aveva conferito i pieni poteri al comitato centrale del partito, il quale lo aveva ricambiato presentandogli un piano di sviluppo quinquennale che avrebbe dovuto finalmente traghettare il paese nel più reale dei socialismi. Il tutto con la benedizione di Stalin. Walter Ulbricht, il segretario del SED, aveva chiamato tutti i cittadini della Repubblica a collaborare allo sforzo collettivista e Granzow non se lo era fatto dire due volte. Alla prima occasione era entrato nel partito, per offrire al paese i suoi occhi e le sue orecchie. E il partito lo aveva ricompensato dandogli in gestione un’edicola di giornali e un appartamento di tre stanze, moderno e in affitto agevolato. Un appartamento che lui avrebbe presto dovuto riempire di figli, ma, vuoi per il suo carattere che i più consideravano viscido e sgradevole, vuoi per il suo aspetto rozzo e poco attraente – alcuni suoi concittadini lo avevano soprannominato il Rospo per via della sua marcata somiglianza a uno degli abitanti palmipedi degli acquitrini che si stendevano lungo il fiume che attraversava la città –, Granzow non era mai riuscito a  trovare moglie; e pure di amici non ne aveva alcuno perché, ovunque egli andasse, veniva preceduto dalla sua fama.

Ragion per cui, quando la mattina del 17 giugno del 1953 una folla inferocita lo aveva trascinato a forza fuori dalla sua edicola, non c’era stata una sola voce a levarsi in sua difesa.

E non ci sarebbe stato nessuno ad andare al suo funerale.

 

Rike raggiunse il centro del laghetto e si girò verso Brigitte che dalla riva sabbiosa le appariva grande neppure un pollice. L’acqua era il suo elemento. Non c’era luogo al

mondo in cui si sentisse più al sicuro che in quell’umido abbraccio. Alzò un braccio per salutare l’amica che rispose facendo lo stesso. Poi, fece un profondo respiro e, dopo aver unito i palmi delle mani sopra la testa, come aveva visto fare alle figlie del Reno in un’illustrazione, si lasciò affondare fino a scomparire dalla vista.

E buio fu.

L’onnipresente ronzio degli insetti venne inghiottito dalla verde oscurità acquatica. Si raggomitolò su sé stessa, con gli occhi chiusi, gli avambracci ben stretti attorno alle

ginocchia, e le bollicine d’aria che le centellinavano la vita dalle narici. Come avrebbe voluto che i suoi polmoni fossero in grado di filtrare l’ossigeno! Essere un pesce, o, come in uno dei suoi sogni ricorrenti, essere una di quelle foche di cui le aveva raccontato il nonno. Animali misteriosi, le foche. Gli abitanti del Baltico pensavano che avessero poteri magici e che una volta al mese, al crepuscolo, quando le luci e le ombre si confondono, prendessero la forma di splendide ragazze, e, lasciate le loro pelli sugli scogli, danzassero vestite solo di luce d’argento. Nei suoi sogni anche lei ballava al chiaro di luna assieme a loro, fra le nebbie d’un Baltico che non aveva mai visto. Ballavano e ballavano in cerchio, tenendosi per mano, al ritmo della musica delle sfere celesti. Il cerchio girava in senso antiorario ed era iscritto in un altro cerchio, più ampio, che si muoveva invece in senso orario. Poi, quando il sole sorgeva sul mare, il cerchio si scioglieva e le ondine sue sorelle si rivestivano delle loro pelli grigie e si tuffavano nell’acqua e scomparivano fra i flutti. Ma quando giungeva il suo momento Rike scopriva, con orrore, che la sua pelle non c’era più. Cominciava a cercarla fra gli scogli di gneis mentre le onde di un mare fattosi nero e ostile trascinavano con loro il sordo rumore che proveniva dai misteriosi fondali. Si svegliava con il magone, sola e abbandonata in un mondo in cui si sentiva, per qualche minuto, estranea.

Si lasciò affondare lentamente, ancora per qualche istante, poi aprì gli occhi e con una bracciata e un potente colpo di gambe si spinse alcuni metri verso il basso, col solo istinto a guidarla giacché la luce non riusciva a spingersi troppo oltre la torbida superficie, che, nel frattempo, era tornata immobile e oleosa, come se lei non l’avesse mai scalfita. Completamente nuda, si lasciò scivolare sul fondo fangoso, ondeggiando rapida e sinuosa, con le gambe unite come fossero una pinna e le braccia sottili che afferravano l’acqua con lenti movimenti semicircolari. Le foglie filiformi delle piante acquatiche le accarezzavano la pelle: elodee e brasche increspate, e molte altre di cui ignorava i nomi, le quali, più risaliva verso la riva, più si facevano fitte, e impudenti. I minuscoli granelli di sabbia che intorbidivano l’acqua le facevano dolere gli occhi, ma si costringeva a tenerli aperti per poter rimirare le ombre che la circondavano. Chissà che aspetto doveva aver avuto il brodo primordiale, pensò. Quel piccolo stagno caldo,

come lo aveva chiamato Darwin. Quando lo aveva letto la prima volta l’aveva fatta ridere perché lei, quel famoso brodo, se lo era sempre immaginato non come un cacciucco di acqua, idrocarburi, amminoacidi, ammoniaca e altri elementi chimici che non era mai riuscita a memorizzare, bensì come un universo liquido dal color verde bottiglia, simile a quello in cui stava nuotando ora, abitato non da informi molecole organiche generate chissà come da chissacché, ma da pesci antropomorfi, da gasteropodi giganti, da polipi e meduse, e da kraken mostruosi provenienti, forse, da altri mondi, da altri universi più antichi. Assomigliava al fondo dell’oceano in cui si era smarrito il Nautilus; al regno di Poseidone e Tritone; di Aegir e di Ran, la rapinatrice, la sua favorita. Un mondo pieno di pericoli e meraviglie, opposto e complementare a quello dell’aria dove i dinosauri si davano battaglia nelle foreste e nelle praterie mentre gli enormi vulcani vomitavano magma infuocato e gas mefitici che oscuravano la volta celeste abitata da draghi e grifoni. Quanti viaggi aveva fatto nei mondi della fiaba e del mito che, per quanto crudele e spaventoso fosse, era sempre preferibile a quello reale dove il cielo non era solcato da roc e pterodattili, ma da stormi di uccelli di ferro, gravidi di piombo e di fuoco. Non le era rimasta molta aria nei polmoni e visto che gli spiriti dell’acqua, come sempre, non le si erano voluti mostrare, decise che fosse meglio riemergere.

Brigitte la vide bucare la superficie del lago a un paio di metri dalla riva, i grandi occhi sgranati con le pupille quasi scomparse al centro delle iridi color acquamarina, e un sorriso strafottente dipinto sul bel volto spruzzato di efelidi.

Brigitte se ne stava con l’acqua alle ginocchia a scrutare nervosamente il lago.

«Sei un’incosciente!»

Rike le passò accanto, poi si fermò un attimo e le accarezzò una guancia.

«Laggiù c’è un mondo che neppure ti immagini…» disse, e si diresse verso la piccola spiaggia sabbiosa sulla quale l’amica, nel frattempo, aveva allestito il picnic col suo solito gusto per i dettagli.

Leningrado, 14 dicembre 1962

Cara compagna,

sono appena rientrata nello studentato, e ho subito pensato di scriverti perché ho visto un film che mi ha fatto pensare a te. Si chiama L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, un

giovane regista di cui si parla tanto da queste parti. Spero che la pellicola arrivi presto anche a Berlino, così possiamo andarlo a vedere assieme e parlarne. C’è stato un feroce dibattito al caffè perché gli animi sono polarizzati e una parte dei nostri coetanei difende la scelta poetica del regista, il suo espressionismo visivo. Una storia in cui

il mondo onirico e quello reale si alternano e si confondono nella mente di un bambino. È un film sulla guerra, la Seconda. Quel mostro contro natura che trasforma le vittime in carnefici e ruba l’infanzia ai bambini. Ho pianto pensando a quello di cui ci siamo macchiati. Ho pianto per l’innocenza perduta del piccolo Ivan (che attore!), e anche per la nostra, la tua e la mia. Mi sono vergognata di essere tedesca, ma alcuni ragazzi russi mi hanno detto che anche loro si vergognano e che tutti dovrebbero vergognarsi per l’umanità, perché essa non è in grado di fermare quel Moloch disgustoso e infernale al quale si continuano a sacrificare i sogni di pace e fratellanza, e a cui noi in particolare dovremmo credere ciecamente. C’era chi diceva che questa è arte vecchia. Decadente e figlia di un’estetica simbolista, superata dalla realtà del mondo moderno. Un film fatto per gli europei. Sciocchezze! Agli occhi di quel bambino, e del bambino che c’è in noi, è la realtà a essere un incubo e un’allucinazione, e il sogno diventa così il posto più sicuro in cui trovare rifugio.

Leningrado è una città sontuosa, ordinata, terribilmente fredda, terribilmente occidentale, come direbbero quei mascalzoni. Ma i ragazzi sono molto caldi… Di carattere!

Cosa hai pensato?

Il prossimo anno vieni anche tu! I cinema proiettano capolavori, e al Mariinskij va davvero in scena l’Arte. Ù

Un saluto,

a presto,

Isa

Peter Gordon aveva l’atteggiamento di chi non aveva mai stirato una camicia in vita sua.

«Maugham non ha mai vissuto in Africa, ma la precisione con cui descrive i tic e le manie degli espatriati nei Mari del Sud la si può applicare benissimo a noi, come avrai

modo di constatare fra qualche mese.»

Stingevo in mano il volumetto che Peter aveva deciso di darmi personalmente mentre Alex si premurava di tradurmi in tedesco quello che diceva. L’altra dozzina di libri che

aveva comprato per me a Londra me li aveva portati Alex la sera prima, quando era tornato a casa, esausto. Il viaggio in automobile era stato funestato da due temporali e da un blocco stradale causato da un non specificato incidente che aveva costretto la polizia a ispezionare, fucile mitragliatore alla mano, tutte le vetture che dal sud si dirigevano in direzione di Enugu. Se Peter non si fosse fatto avanti con il passaporto diplomatico e il modo di fare di chi ha passato gran parte della vita in uniforme, sarebbero stati costretti a trascorrere la notte in macchina, mi aveva raccontato nel silenzio nella nostra camera da letto, il solco fra i materassi ormai ampio come un crepaccio.

«Ti ringrazio davvero. Non lo conosco, ma sono sicura che mi piacerà» risposi con l’aiuto di mio marito, che, da quando eravamo entrati al country club non mi aveva lasciato il braccio per un secondo. «E grazie anche per tutti gli altri libri e per quelli per Mathilde! Adora Roald Dahl! Come lo sapevi?»

«E come non adorarlo! Vero, mio caro?» disse rivolto ad Alex.

«Mi fido della tua opinione.»

Non sopportavo tutte quelle confidenze che la lingua inglese pare consentire. Come il dover dare del tu a un uomo col doppio dei tuoi anni o doversi far costantemente chiamare cara, tesoro e altre smancerie che non riuscirei a tradurre in tedesco neppure ora. Anche se, devo ammettere, questa apparente confidenzialità anglosassone è e rimane sempre, e solo, apparente. Ha l’unico scopo di rendere le chiacchiere con le nuove conoscenze meno tediose, e questo, stavo cominciando a imparare, è il modo migliore per uscire incolumi dagli eventi mondani. Il country club consisteva in un edificio bianco in stile vittoriano con un ampio parco circondato da bungalow

giallo ocra, due campi da tennis e una grande piscina attorno alla quale si stava intrattenendo la crème-de-la-crème della regione del sud-est. C’erano il governatore e tutti gli alti funzionari del governo locale, generali e comandanti di alto rango dell’esercito, preti cattolici compreso il vescovo di Enugu, pastori protestanti, un paio di capi tribù con le mogli, in abiti tradizionali, e altra gente infagottata in completi da sera. La maggior parte degli ospiti, tuttavia, aveva la pelle bianca. Perlopiù inglesi, ma anche americani, olandesi, francesi e pure alcuni tedeschi, fra i quali spiccava una donna ingioiellata in modo molto volgare, poco più vecchia di me e dall’aspetto imponente tanto che sovrastava di una spanna le mogli inglesi dei petrolieri, banchieri, diplomatici e della gente a cui avevo stretto la mano senza capire nulla di quello che mi dicevano, anche perché, dopo quasi un’ora di convenevoli e scambi di amenità, avevo desiderato

tornarmene alla quiete della mia stanza da letto e al libro che Peter aveva avuto la cortesia di mettermi in mano, dicendomi poi molte altre cose sul suo autore, che stando a lui aveva un senso dell’umorismo “quintessenzialmente” inglese, proprio

così aveva detto, con un avverbio che mi era rimasto subito impresso. Mi aveva detto che era molto noto come commediografo – commedie leggere e taglienti come lame di rasoio – e amante di ragazzini di bell’aspetto. Le donne? Le preferiva vecchie, sagge e vedove. Io avevo continuato ad annuire e quando Daniel ci aveva raggiunto per rapire Alex – il governatore desiderava presentagli qualcuno –, approfittai della prima pausa per dirgli che dovevo andare in bagno.

«Friederike, che piacere rivederla!»

Il calore familiare della mia lingua pronunciata con la lenta cadenza mediterranea mi raggiunse mentre mi stavo riempiendo il piatto di sandwich e canapè mai visti prima.

Non feci in tempo a girarmi che Edoardo mi aveva già allungato un calice di champagne. Lo afferrai d’istinto tenendo il piatto di porcellana con la sinistra.

Non avevo più pensato a lui dal giorno in cui ci eravamo salutati, un mese prima, e mai avrei creduto che lo avrei rivisto. O, forse, sto mentendo a me stessa. Mi era tornato in mente un paio di volte. E mi aveva visitato in un sogno indecente di cui mi erano rimaste impresse alcune immagini che avrei preferito dimenticare, ora che me lo ero ritrovato

davanti, abito da sera bianco crema, senza cravatta o papillon, ma con una pochette azzurro malachite damascata in oro e bronzo, e un anello con una grossa pietra verde infilato nell’indice della mano destra, troppo grande per essere uno smeraldo, pensai, morendo dalla curiosità di sapere se in realtà lo fosse. Sembrava ricco.

«Cosa ci fa qua?»

«Potrei farle la stessa domanda» rispose con un sorriso che

sapeva di menta piperita.

«Mio marito è membro del club…»

«Un pezzo grosso allora!»

Non seppi come rispondere e il modo in cui mi fissava mi

metteva un po’ a disagio. Era come se avessi tutti gli occhi dei

presenti puntati su di me.

Invece nessuno ci stava guardando.

«E lei?»

«Che ne dice se ci diamo del tu? Mi fa sentire più vecchio

di quello che sono.»

«Non mi pare proprio che sia vecchio.»

«Ci sono giorni in cui sento tutti e due i millenni sulle mie

spalle…»

«Cosa vuole… Cosa vuoi dire?»

«Siamo gente antica, noi italiani.»

«Suppongo che quello che conta siano gli anni che uno

si sente…»

«È un complimento?»

«Dipende.»

«Da cosa?»

«Da come uno è in grado di portarli, effettivamente.

Gli anni.»

Rise. Mi invitò ad alzare il bicchiere. Brindammo. Diedi

un sorso al vino mentre Edoardo lo buttò giù tutto d’un

fiato e, con un gesto, attirò l’attenzione di un giovane cameriere in livrea che si affrettò con calma verso di lui, bilanciando con una mano un grande vassoio pieno di calici.

Lasciò che il cameriere lo alleggerisse del calice vuoto prima di afferrarne uno pieno, con studiata indifferenza.

«Andiamo a sederci là sotto?» mi propose indicando un gazebo nel quale erano allineate delle sedie di legno con lo schienale reclinabile. «È più semplice mangiare da seduti, e lontano da tutto questo fastidioso chiocciare.» Indicò con lo sguardo un gruppo di donne inglesi di mezza età, intente in quella che pareva una seria conversazione.

Mi fece strada senza aspettare che accettassi il suo invito a seguirlo. Cosa che esitai a fare, preoccupandomi, chissà perché, che Alex ci vedesse.

Scorsi Peter che, a poca distanza, si stava intrattenendo con un omone in uniforme verde scura, tappezzata di mostrine e medaglie. Il collo taurino e lo sguardo duro e giallo non si accoppiavano bene alla risata bonaria con la quale rispondeva ai motti di spirito del vecchio inglese. Alex era scomparso all’interno del club e fra le centinaia di persone che mangiavano, bevevano, ridevano e parlavano non riuscivo a scorgere un solo volto che mi facesse sentire a mio agio come mi sentivo quando parlavo con quell’italiano.

Ruppi quindi gli indugi, e mi feci strada fin sotto al gazebo, dove Edoardo si era premurato di scegliere due sedie e avvicinarle, a strategica distanza dalle altre.

Nonostante i miei ventisette anni, due matrimoni e due figli, non avevo molta esperienza di uomini. Ne avevo però abbastanza per capire che la galanteria di quel bell’uomo non

poteva essere fine a sé stessa. Dovevo fare quindi molta attenzione a non lasciargli intendere quello che lui avrebbe voluto, anche perché, per quanto innegabile fosse il suo fascino, nel mio mondo non c’era spazio che per la mia famiglia.

Passammo qualche minuto a parlare del più e del meno, di come mi trovassi a Enugu, del clima – pesante, ma sopportabile se confrontato con quello del Congo, dove aveva

passato due anni prima di essere trasferito in Nigeria, non capivo ancora bene a far cosa visto che lui restava vago, apparentemente più interessato a come passassi io il mio tempo… cosa questa che, francamente, a raccontarla annoiava anche me.

«Non è che abbia visto chissacché da quando sono qui.»

«Permettimi allora di farti da cicerone!»

«Farmi che cosa?»

«Da guida! Cicerone, diciamo in Italia.»

«Come quell’avvocato romano?»

«Esatto…» mi fissò per un istante più del necessario. «Sei

una donna molto colta… e affascinante.»

Mi sentii arrossire e per nasconderlo mi dedicai a quello che avevo nel piatto. Avrei dovuto alzarmi ma non mi pareva educato farlo. E questo mio silenzio imbarazzato probabilmente lo incoraggiò. Si spostò sul bordo della sedia, accorciando la distanza fra noi di una ventina di centimetri.

«Pensavo che abitassi a Lagos» dissi, tanto per dire qualcosa.

«Sono in città per qualche giorno.»

«Sempre per il tuo misterioso lavoro?»

Sorrise. Di nuovo.

«Ma dimmi. Una donna come te, fra questi fantasmi, non si annoia?»

«E che donna sarei io? Non dirmi di nuovo colta e affascinante, che sono le ovvietà che ti dicono gli uomini per farti sentire al loro livello.»

Rimase per un istante senza parole.

«Allora?»

«Non lo dico a tutte quelle che incontro.»

«Quindi lo dici a qualcuna.»

«A te. Ma se ti dà fastidio, mi scuso…»

«Chi ti ha detto che mi dà fastidio? È solo che non mi piace quando le cose vengono dette solo per compiacere gli altri. Tu non sai assolutamente nulla di me e non hai nessun modo di sapere se io sia colta o meno. Mica basta conoscere il nome di Cicerone per esserlo. Perché sappi che è l’unica cosa che so, di quell’avvocato. Il nome.»

«Pure io» disse con un sorriso disarmante a cui non credetti neppure per un istante.

«E continui ad assecondarmi. Cosa avete mai voi uomini col vostro bisogno di farci sentire a nostro agio! E se non volessi?»

«Volessi cosa?»

«Sentirmi a mio agio. Sentirmi, alla pari. Sentirmi protetta.»

Non sapevo perché la conversazione avesse preso questa piega. Era come se le parole mi uscissero di bocca da sole.

Come se non fosse lui quello a cui erano destinate.

«Capisco…» Avevano comunque sortito l’effetto di calare una cappa di gelo su di noi. «Comincia quindi a dirmi che lavoro fai» dissi dopo un minuto di silenzio durante il quale aveva avuto il tempo di svuotare il piatto.

Edoardo mi guardava, pensieroso, e per un attimo mi sentii in colpa di essere stata così scortese.

«Facilito i rapporti fra il mio paese e la Nigeria. Nel settore energetico.» «Petrolio?» «Diciamo di sì.» «E sei di Venezia.» «Sissignora.» «E scusa se sono indiscreta, ma come si finisce a facilitare l’acquisto di petrolio?» «Sono un avvocato. E ho sempre avuto un discreto talento per la diplomazia.»

«Un avvocato. Vedi? Ora si capiscono molte cose.»

«Tipo?» Sorrisi, e lui capì.

«Con te non mentirei mai.»

«Non lo metto in dubbio.»

«Sì, le idee. Non essere ingenua. Il mondo non è organizzato in modo razionale, come piace a voi tedeschi. Si possono trovare compromessi su tutto, anche sulle idee. E

se queste si assomigliano, bene, è più facile farlo credere ai soldati perché il vero problema sono loro. Loro e i sottufficiali, un branco di illetterati fanatici e violenti…»

«Una ragione in più per mandare i nostri figli dai tuoi, non ti pare?»

Ci rifletté ancora un attimo.

«Non vuoi andarci anche tu?»

«No. Il mio posto è accanto a te. Magari posso dare una mano coi profughi…» Il pensiero mi terrorizzava, ma come potevo sottrarmi a un dovere umano? Dopotutto anche io e

il nonno eravamo stati profughi… Non ricordavo gli orrori della Seconda guerra mondiale. Avevo vaghi ricordi anche della morte di mia mamma e dei miei fratelli. Ma ricordavo i bombardamenti, le macerie e i cadaveri. Ricordavo mio nonno in fin di vita e le colonne di gente che scappava da Berlino. I soldati erano russi, ma il dolore e la disperazione sulle facce della gente non era diverso da quello che avevo visto vicino a quel ponte. Né lo era l’atteggiamento che avevano i soldati nei loro confronti.

Alexander mi mise un braccio attorno al collo.

«Tu sei tutta la mia vita. Sei più di quello che ti posso dire con le parole perché non c’è una parola come amore, nella mia lingua.»

«Com’è possibile?»

«Com’è possibile dare un nome a qualcosa che non possiamo comprendere? A quella forza che annebbia la nostra ragione, ma ci rende lucidi; che ci fa amare la vita, ma che, per essa, saremmo anche disposti a sacrificarla? A quella tempesta che si abbatte sulla casa che abbiamo faticato una vita a costruire, e la spazza via lasciandoci nudi, indifesi, poveri, ma felici di essere ancora uno accanto all’altra? Come si può definire una cosa che desideriamo con tutti noi stessi e che, una volta che la possediamo, non riusciamo a trattenere? Che ci investe con la forza di un’onda, ci trascina a fondo e che poi, se non anneghiamo, ci scaraventa sulla spiaggia, come dei naufraghi?»

«I nomi ci aiutano a mettere ordine nel nostro universo. Ed è bello sentirseli dire, ogni tanto.»

«No, anima mia. I nomi ci offrono solo l’illusione di possedere le cose. La vita non ha bisogno di nomi, e nessuno ha bisogno di possedere alcunché. Perché la vita

non è ieri, non è domani. La vita è noi due sotto al cielo, due anime libere di darsi e di prendersi. Libere di cavalcare l’onda nella speranza che, quando essa, un giorno,

ci abbandonerà sulla spiaggia della morte, saremo ancora uno accanto all’altra.»

Arriviamo alla colonia penale che il sole è appena sceso e il quarto di luna ricorda la falce della morte. Alte le mura del carcere. Aperte le porte, due soldatini di guardia, col fucile spianato. Il cortile, enorme, è stipato di gente smagrita, e di mosche. Accucciati i bambini, a centinaia, le madri affrante, la dignità che non vuole farsi compatire, che non chiede nulla, ma attende. Attende che la falce della luna tranci le loro teste prima di quelle dei loro figli, per non vederli spegnersi nelle loro braccia, raggrinziti, col ventre gonfio di vermi, il rigor mortis di statue eburnee, o di pupazzi di cera emaciati, piagati, ritornati feti, abortiti da una nazione illusa, e disillusa: reclusa nel più grande cimitero del mondo. Occhi indifferenti, senza più lacrime, mi guardano passare coi miei bambini ed entrare nell’edificio che ospitava i detenuti e ora funge da ostello e da ospedale e da obitorio; su per le scale fin nell’ufficio del direttore che ci saluta con inopportuna cordialità. Certo che conosce l’ingegner Onyema. E conosce suo figlio Ezike, certo, Ezike, sì, Ezike, il maggiore perché il minore non si ricorda come si chiama, avevano cenato assieme da Opkara, il vecchio premier, un grande uomo, un grande uomo, non come quell’Ojukwu che è un uomo piccolo e meschino. Gli dico che siamo esausti, gli domando se ha un posto in cui posso starmene da sola con quello che resta della mia famiglia. Ma l’ingegnere? È rimasto indietro. Il marito al fronte? Non lo so. «Certo che abbiamo un posto per lei signora Onyema. La prigione è grande e gli uffici sono vuoti. C’è un ufficio tutto per voi e sarete affamati, sì?» Lo siamo, ovviamente, ma lo sono anche le migliaia di persone abbandonate a loro stesse nel cortile. Prevale tuttavia il mio istinto di sopravvivenza che mette i miei figli davanti a chiunque e a qualsiasi cosa. E così riceviamo una scodella di zuppa di pesce. L’ufficio è stato spogliato di tutto tranne che della bandiera del Biafra che pende rassegnata, a mezz’asta. Lungo la parete sono state allineate sei stuoie. Mangiamo, in silenzio, poi preparo il biberon per la piccola, e inizio a raccontare una fiaba ai miei figli. «No mamma. Racconta quella della foca e il pescatore» dice Mathilde in tedesco. E io gliela racconto, come me l’aveva raccontata il nonno, un po’ diversa da quella della Lagerlöf perché alla fine, dal sangue dell’ondina tradita dal pescatore non nasce Stoccolma, ma la città degli elfi di Tieck: un posto lontano da questo mondo dove il tempo non passa mai e la gente non può morire. Il suono della mia lingua mi conforta e dopo la fiaba comincio a cantare, anche se si sono tutti addormentati; tranne Johnny, che se ne sta seduto con le spalle al muro e il fucile in braccio, lo sguardo determinato di suo padre, sguardo che sul suo volto dai tratti delicati, forse quelli della madre, chissà, appare quasi sinistro. Canto quello che mi viene in mente, Lieder sepolti nella memoria pregni del ricordo di altre guerre, ma ci confortano come a dire che, forse, la morte non fa male quanto la vita. E così, cantando, mi addormento anch’io.

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