#1Libroin5W.: Gabriella Bertizzolo, “Racconti dal Lido” / Genesi Editrice.

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CHI?

Le ampie sale di proiezione del Lido di Venezia, durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, si trasformano spesso in un luogo perfetto dove ambientare una storia, dando così vita a una sorta di film nel film. Fra platea e maxischermo si crea un flusso di reciprocità e le azioni del pubblico possono risultare talvolta interessanti e addirittura esilaranti. Questa dinamica interattiva mi ha così coinvolto che talvolta ho perso sequenze di storie proiettate nel maxischermo, rapita da altre nate fra il pubblico. Anche al di fuori delle sale accade che nelle lunghe processioni di cinefili, giornalisti, operatori, inviati, si consolidino delle abitudini che possono costituire interessanti sequenze per l’elaborazione di un testo filmico.

COSA?

Cosa si nasconde dietro questo titolo così ambiguamente balneare di Racconti dal Lido? Cosa sono questi otto racconti che Gabriella ci propone oggi, dopo una lunga stagionatura maturata per anni nell’ombra di un cassetto? Un diario di esplorazione del mondo del cinema in uno dei suoi più noti e autorevoli santuari celebrativi ma solo in apparenza, ché si rivela essere poi un diario intimo, un’imprevista riflessione esistenziale. E questo pur sempre attraverso il cinema e tutto quello che gravita attorno, che lo circonda e lo anima. Diario come oggettivazione del “sé”. Uscita dal solipsismo, uscita apparente ma in realtà “apparentemente apparente” perché conduce, attraverso appunto l’oggettivazione del sé, ad uno sguardo su sé stessa da un punto di vista esterno, dal di fuori. Diario di una maturazione, di una crescita. Quasi un romanzo di formazione… Due ruoli e una persona: la cinefila, l’insegnante, la don – na (la veste di poetessa/scrittrice è qualcosa che ingloba gli altri ruoli e, inglobandoli, li trascende al tempo stesso). Tre figure che si passano con estrema fluidità il testimone, che si scambiano le parti con naturalezza e sincerità perché figure solo apparentemente esteriori di una stessa persona ma in realtà ben radicate nel suo sé più profondo. Una successione en abîme. Un triplo selfie. Un selfie verbale. Il festival di Venezia è il luogo di questa autorappresentazione. Il festival come tempio del cinema, il cinema come illusione di vita e celebrazione di questa illusione, cioè conferma dell’illusione come verità di vita, ovvero come illusione dell’illusione. Poi la vita fa irruzione, sempre un po’ per la porta di servizio, quando meno ce se l’aspetta, e allora emerge la donna in quanto tale, non più interprete di un ruolo mondano se non quello di se stessa. Allora, quella che poteva apparire come una piccola cronaca mondana, si eleva a livello di metafora e viene a toccare allusivamente uno dei temi fondanti e sempre ricorrenti dell’esistenza: il mito. E lo rivela, in modo appena velato, nella sua illusoria (in)consistenza. Il mito: menzogna che dice la verità, ovvero – viviamo nell’illusione perché in essa cerchiamo l’assicurazione, la ricerca del ricono-scimento dell’altro, soprattutto quando l’altro è persona già (ri)conosciuta e, questo, a conferma dell’autoriconoscimento attraverso lo specchio, dello sguardo amoroso verso se stessi. Ecco allora il piccolo vezzo teneramente civettuolo di Gabriella nel sottolineare in modo ricorrente la cura e la ricercatezza del proprio abbigliamento e del proprio aspetto esteriore. Ed è proprio attraverso questa ingenua, adolescenziale tendenza a mitizzarsi, a scrivere nel proprio diario quello che vorremmo gli altri autorevoli pensassero e dicessero di noi. Penso che qui si tocchi veramente uno degli aspetti più specifci e fondanti della nostra umanità: questa nostra comune tendenza, soprattutto a livello di memoria, alla trasformazione della realtà oggettiva in una sua versione ideale e mitizzata e, questo, attenzione, sia nel bene che nel male, sia negli aspetti positivi che in quelli negativi. (Mario Brenta, Prefazione)

QUANDO?

I racconti scritti una ventina d’anni fa, lasciati a lungo riposare, sono stati recentemente ripresi in mano dalla sottoscritta, mantenendo la caratteristica originaria, e cioè quella di essere un miscuglio di ricordi ed emozioni, vivide immagini e fiabesco incanto. Pur avendo una precisa collocazione spazio-temporale, i testi volutamente non sono stati disposti in ordine cronologico. Nel periodo compreso fra gli ultimi giorni di agosto e la prima settimana di settembre, decade deputata alla proiezione dei film, anch’io per quindici anni (dal 1988 al 2003), a volte come giornalista freelance, altre volte come cinefila, facevo parte di questa lunga teoria di “fedeli”. E anch’io puntualmente adempivo a dei piccoli irrinunciabili rituali: la corsa all’ufficio accrediti per ritirare la tanto attesa tessera, l’acquisto del catalogo corredato del volume monografico, la ricerca dell’ultimo nu13 mero di Variety nella hall dell’hotel Excelsior e la corsa all’ufficio della Sacher Film (la casa fondata da Nanni Moretti in onore dell’omonima torta viennese) per ricevere in omaggio la richiestissima e presto esaurita borsa di plastica offerta dalla Casa, dove riporre catalogo, block notes, riviste e la bottiglia d’acqua.

DOVE?

Nel tempio del Cinema, al Lido di Venezia. Ma con l’immaginazione (diversa dalla fantasia, perché la facoltà immaginativa fa in modo che l’autore attivi una vera e propria azione magica, crei o modifichi una realtà, faccia un’esperienza)… anche nell’arena dei gladiatori, nel “Cromosoma Calcutta”, a Varsavia da dove i nazisti deportavano verso i campi di sterminio i genitori di Roman Polański, a Palermo nel carcere di Malaspina fra i ragazzi foruncolosi e malavitosi, fra le musiche e i balli dei gitani della Bosnia Erzegovina, a Bassano del Grappa a Villa Serena, prima sede di Ipotesi Cinema, nel “bosco degli urogalli” dell’Altopiano…

PERCHÉ?

Per invitare il lettore a fare assieme a me un viaggio di evasione nel mondo dell’illusione che conduce ad un’inattesa presa di coscienza della realtà e della sua verità. Per riflettere sulla comune tendenza, soprattutto a livello di memoria, alla trasformazione della realtà oggettiva in una sua versione ideale e mitizzata sia nel bene che nel male, sia negli aspetti positivi che in quelli negativi. Per far entrare il lettore nella sala degli specchi deformanti (quelli presenti in alcune giostre), nel gioco degli specchi… Infine per cercar, assieme al lettore, di una risposta ad una domanda implicita: cosa c’è di più misterioso, enigmatico e, nello stesso tempo, chiaro e trasparente se non la vita stessa? Questa è la domanda che mi sono posta scrivendo i racconti veneziani.

Scelti per voi

«L’incomprensione della gente, quando sono tornato a casa, mi pesava più della stanchezza fisica. Avevo pensato di farmi una tana sottoterra, come facevo in guerra, coprirla con frasche e andare sotto… La gente ha la memoria labile.» Memoria: un termine che unisce icasticamente Olmi a Rigoni Stern, ma anche a Brenta e a De Gregorio. Come dice l’archeologo Paolo Brusasco «il genocidio si coniuga con lo mnemocidio, lo sterminio della memoria collettiva». Memoria, silenzio, e ascolto “forza suprema di ogni azione e di ogni fare”. E un rispettoso silenzio regna nella sala percorsa da un ininterrotto filo di empatia e di commozione che non si spezza fino al termine della conferenza. Il Maestro parla poi della natura sacra, misteriosa, affascinante; degli animali montani e della loro simbologia: la betulla rappresenta la Russia, il larice che vive sulle rocce come i montanari l’altipiano, la pernice bianca gli amici che se ne sono andati all’aldilà. Distingue poi i diversi modi con cui era chiamato: “Quello che era al catasto” per i compaesani, “Mario del Toni”, “L’uomo con cui andare a passeggio” per i turisti. E a chi gli chiede “un pensiero anarchico” risponde: «andare per l’eternità per i boschi su un paio di sci.» Visibilmente commossa salutai il Maestro e mi congratulai con Mazzacurati, persi però di vista Paolini. Uscii dalla sala emozionata e soddisfatta. Nonostante fossero già quasi le sette di sera, i raggi di un tiepido sole rincuoravano la mia anima piena di tristezza. Attraversai il viale e mi sedetti sul muretto a osservare gli ultimi bagnanti che tornavano dalla spiaggia rischiarata dal riverbero del sole. Inspirai profondamente l’odore di salsedine e pensai che l’unica certezza che ha l’uomo è quella della morte. E, ad aumentare i miei lugubri pensieri mi venne in mente una frase che Rigoni Stern mi aveva detto ad Asiago, mentre ricordava la sua prigionia in Russia: «Vedi, Gabriella, la fame era peggio della tortura» «Davvero?» «Sì, perché la tortura finiva, la fame no.» Un concetto forse lapalissiano, che però mi fece molto riflettere: anche mio padre fu arruolato per la campagna di Russia, e riuscì a tornare in patria per la malattia mortale del fratello con un viaggio rocambolesco che non finì mai di raccontarmi. Dal muretto notavo il grande affollamento che si era formato davanti al Palazzo del Cinema. Improvvisamente mi ricordai che Laura e Michelle mi aspettavano al Lion’s bar, per cui mi alzai e mi affrettai a raggiungerle. Salii la gradinata cercando di farmi un varco fra i tanti giovani accovacciati e vocianti e riconobbi ben presto le mie amiche sedute a un tavolo nella terrazza. Chiacchieravano allegramente sorseggiando un aperitivo e notai che le scollature degli abiti mettevano in evidenza l’abbronzatura. Mi sedetti anch’io e ordinai una bibita fresca che mi aiutasse a rasserenarmi. Fu invece una notte piena di incubi. In un’enorme arena i cani poliziotto della Mostra, giganteschi e mostruosi, inseguivano caprioli, camosci e daini che correvano all’impazzata per sfuggire ai terribili morsi. Ma gli orripilanti quadrupedi riuscivano a raggiungerli, addentandoli e facendone scempio… C’erano anche pernici, poiane, gheppi e urogalli che svolazzavano sopra, qualcuno veniva azzannato dai famelici cani che si ergevano sulle zampe, mentre dai gradini provenivano grida di inumana ferocia. Una brama di sangue accomunava gli astanti sulle gradinate, che continuavano ad aizzare i cani. Improvvisamente da una porta situata fra i blocchi di pietra uscì un uomo avvolto in un lenzuolo bianco; col capo irradiato da una luce accecante, procedeva lentamente appoggiandosi al bastone, come un martire che va incontro serenamente al supplizio. A mano a mano che si avvicinava al groviglio di carogne e bestie moribonde che emettevano ranteghi e stridii, i cani lasciavano cadere a terra brandelli di carne insanguinata e si allontanavano mentre le carcasse di pernici, caprioli e degli altri volatili miracolosamente tornavano in vita riacquistando le sembianze originarie. Allora tutti gli astanti si alzarono in piedi inneggiando al vecchio dalla lunga barba bianca che si dissolveva lentamente come nebbia al sole. Mi svegliai di soprassalto, sudata e tremante. Il cuore mi batteva all’impazzata, respirai a fondo e realizzai che si era trattato solo di un brutto sogno. Avevo la bocca secca. Mi alzai per bere un po’ d’acqua e inghiottii un tranquillante. Poi andai ad aprire le finestre. Tutto era fermo, immobile, avvolto in un percettibile silenzio, solo in lontananza le increspature dell’acqua rischiarate dal nascente brillio rosato dell’aurora trasmettevano al paesaggio un certo movimento. Erano le sei del mattino. Il rimbombo ritmico e sonoro del russare del mio vicino di camera tagliava quel silenzio surreale. Ripensai alle terrificanti immagini della notte e subito le ricacciai. Bevvi ancora dell’acqua e tornai alla finestra. Osservai le discrete chiome dei pini marittimi prospicienti la facciata dell’albergo e il pergolato rivestito da un arabesco del glicine, il rosso e il viola dei gerani piantati nei lunghi vasi, l’esplosione sinuosa dell’agave vicino all’ingresso. Era una visione riposante di cui avevo davvero bisogno. Quel mattino indossai jeans, maglietta e scarpe basse, scesi a fare colazione e uscii inspirando profondamente l’alito frizzante del mattino. Gironzolavo per il Lido senza una meta precisa, mi sentivo vuota, ma era un vuoto amico, non il vuoto angoscioso che spesso mi assaliva. Era una sensazione sconosciuta, piacevole, sentivo una brezza leggera accarezzarmi il cuore mentre percorrevo strade e stradine che mi sembrava di non aver mai visto prima. Alla fine, non so quanto tempo dopo, mi ritrovai di fronte le capanne di uno stabilimento balneare, in una zona dove non ero mai stata. Mi tolsi le scarpe e camminai sulla sabbia fine e dorata fino a bagnarmi i piedi nell’acqua. Non l’avevo mai fatto in tutti gli anni dei miei soggiorni al Lido, completamente ingabbiata nel circuito hotel-cinema-conferenza stampa-hotel. Una sensazione inedita, mi sentivo leggera. Leggera e libera. Guardai l’orizzonte inondato dal sole. Chiusi gli occhi per assaporare quella magica sensazione di autentica serenità mai provata prima, per conservarla dentro di me. Pensai che altri orizzonti avrei dovuto scoprire… Riaprii gli occhi e li rivolsi al cielo. Era di un azzurro intenso, immenso e infinito, volavano degli uccelli, forse gabbiani, ma a me sembravano pernici bianche…

(da Pernici bianche in Laguna)

La sera del 3 settembre 1999 in sala Perla era molto atteso il film in concorso Une liaison pornographique del belga Frédéric Fonteyne. Una pellicola che ottenne vasti consensi e riconoscimenti con l’assegnazione dell’osella al miglior protagonista maschile, Sergi López. Una storia d’amore particolare, unica e irripetibile, come sono tutte le storie, le vicende di un’attrazione reciproca che spinge i due a dirsi “ti amo” e a lasciarsi. Un racconto delicato, volutamente in contrasto con il titolo che prometteva allo spettatore chissà quali performances erotiche! “Quella che possiamo considerare una storia d’a – more, non è tanto l’amore quanto la storia, il ricordo che ne serbiamo” avrebbe detto poi il regista alla stampa. Bravissimi gli attori in un ruolo insolito decisamente impegnativo. La giuria era presieduta dal regista Emir Kusturica [….] Entrai in sala vestita con particolare eleganza, come faccio abitualmente per le proiezioni serali, gonna plissettata nera e camicetta gialla avvolta da una stola di raso che riprendeva i due colori. Una hostess, probabilmente scambiandomi per un’ospite o un’attrice, premurosamente si avvicinò a indicarmi il posto dove sedermi. Alla mia sinistra una coppia di francesi, alla mia destra, dopo una sedia libera, una combriccola di napoletani, fin dall’inizio gesticolanti e chiassosi. Mancava una mezz’oretta all’inizio del film e quello che stava per consumarsi di fronte ai miei occhi ha dell’incredibile, del grottesco. Peccato non averlo filmato o registrato! Penso che Pedro Almodovar o lo stesso Kusturica ne avrebbero ricavato un’esilarante pellicola! Immaginate di vedere, volgendo le spalle al grande schermo, dunque in un’ottica prospettica opposta alla mia che ho gli occhi puntati proprio lì, sedute nella stessa fila di poltrone che concludono il primo spalto in un corridoio più largo da dove gli spettatori escono, le persone che mi accingo a descrivere. A destra una compunta coppia di francesi di mezz’età, in abiti sobri, lui seduto accanto alla sottoscritta che alterna la conversazione con la compagna abbozzate frasi di cortesia rivolte a me «Bonsoir, Madame, comment allez-vous?» al centro la sottoscritta quasi immobile nella scintillante mise da sera in quel contesto imbarazzante, a sinistra, primo di un gruppo di quattro amici, un napoletano in bermuda, che fiaccando le mascelle con il chewingum, si era lasciato scivolare sulla poltrona in modo che le pelose gambe divaricate arrivassero a circa metà del largo corridoio di passaggio. A sinistra, due gradini più in basso, posta in un angolo verso l’ultima rampa di scale che conducono all’esterno, una graziosa assistente di sala che chiacchiera beatamente con una collega e non si accorge di quello che sta succedendo. La sottoscritta sta sfogliando Variety e, non conoscendo il francese risponde in italiano alle frasi di cortesia formulate dal suo vicino di posto, mentre un forte odore di insaccati e formaggi si espande nell’aria coprendo un delicato profumo al bergamotto. La sottoscritta si gira lentamente a sinistra (sempre nell’ottica di chi guarda dallo schermo) e vede allibita che le ginocchia del napoletano, rizzatosi in posizione eretta, fungevano da tavolino su cui un po’ alla volta, prelevati abilmente dalle borse in plastica nascoste sotto le poltrone, venivano posati generi alimentari. Prosciutto e salame all’aglio affettati, ancora distesi nell’involucro, gocciolanti mozzarelle, Emmental e Gorgonzola con un coltellino spalmati con indifferenza su dei panini che il vicino di sinistra del giovane si affrettava a passargli, mentre il terzo ragazzo apriva delle lattine di coca-cola. Le luci erano accese, sembrava che nessuno osservasse la scena. Solo i due belgi, raggiunti anch’essi dal nauseabondo odore del formaggio, si guardarono perplessi in viso, poi rivolsero lo sguardo a quello che stava succedendo e alla fine guardarono la sottoscritta con un’espressione di fiero disappunto unito a remissiva impotenza. Ci sono dei momenti, in situazioni al limite della decenza e del parossismo, in cui una persona o agisce, e in questo caso va a chiamare un vigilante (spesso avevo visto degli steward redarguire un giornalista solo perché beveva da una lattina!) o lascia perdere. I belgi potevano soltanto intravedere la scena sporgendosi in avanti, dato che il mio corpo aveva la funzione di cortina di protezione, e lasciarono perdere, non so comunque con quale opinione sull’educazione degli italiani… Guardai l’accompagnatrice che sembrava ancora non accorgersi di nulla e pensai di andare a esporre le mie giuste lamentele. Feci per alzarmi ma una sensazione di disagio nel disagio, di imbarazzo nell’imbarazzo, mi tenne salda alla poltrona. Pensai a tante cose, considerai che in fondo quel lo era un film in fieri e che un mio intervento avrebbe interrotto il fluire di quella situazione parossistica, originale e irripetibile… Mi girai verso il mio interlocutore d’oltralpe che con un tono dispiaciuto, quasi assumendosi egli stesso la colpa, diceva: «Madame, je suis désolé» Il giorno dopo, nella hall dell’Excelsior, Richard, giornalista inglese e mio carissimo amico, mi presentò il Presidente della Giuria, Emir Kusturica, con il quale ci sedemmo a bere un caffè nella terrazza già piena di fotografi. Mi trovai di fronte un uomo alto, virile e intrigante, dall’aspetto molto più giovane di quello che appariva nel manifesto allora circolante, dove è tratteggiato un volto cupo segnato da profondi solchi in cui gli occhi appaiono incavati nelle orbite scure. Le rughe c’erano, ma inserite nei tratti maschi ben disegnati, e anche i capelli fluenti concorrevano ad accentuare quell’aria di uomo vissuto che affascina una donna. Lo immaginavo perfetto in un kolossal storico-mitologico nei panni di un gladiatore mentre aspetta il pollice verso dell’imperatore, o nella corsa con le bighe contro Ben Hur, o cavaliere nella giostra in duello con il rivale in amore… Ma Kusturica, talentuoso regista e musicista, a duello voleva sfidare il leader del movimento ultranazionalista, Vojislav Sešelj! Evitai l’errore fatto con Polański di parlargli nel mio inglese scolastico, così, grazie al bilinguismo di Richard, potemmo avviare una conversazione in un miscuglio di inglese-serbo-italiano. Mi feci coraggio e raccontai il “film al gorgonzola” di cui ero stata involontario personaggio la sera prima in Sala Perla. «Davvero un bel copione! Se le capita ancora, mi chiami!» esclamò sorridendo il regista che salutai con un “Dovigenia!”.

(da Gorgonzola in Sala Perla)

Gabriella Bertizzolo (nella ph. di Silvia Galvan) è nata a Bassano del Grappa dove ha frequentato il Ginnasio-Liceo Classico “G.B. Brocchi”. Nel 1978 si è laureata in Lettere Moderne a Padova. Docente nella Scuola Secondaria di Primo Grado, per un lungo periodo ha partecipato ai convegni di Ipotesi Cinema, istituto diretto dal regista Ermanno Olmi e alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia in qualità di giornalista freelance. Pubblicazioni: A tavola con l’Asparago di Bassano (1990 poesia conviviale), Antonio Baggetto “L’Illustre Bassanese” (1992 monografia). Seguono sei raccolte poetiche: Versi in gabbia (1995), Antiche fessure (1997 Premio Città di Fucecchio) entrambe per le Edizioni Del Leone; per Genesi Editrice: Mesti riverberi (2000 Premio Antonio Discovolo), Tutto era inizio (2001) e Il fruscio dell’attesa (2003), per Marsilio Editori: Argonauta (2007). Nel 2013 per i tipi di Leonida Editore è uscito il suo primo romanzo Figlio di Mercurio vincitore del Premio Int.le “G. Cingari” (2009) e del Premio Naz.le di Calabria e Basilicata (2010); nel 2020 Racconti dal Lido, Genesi Editrice. Dal 2017 al 2020 ha frequentato il laboratorio teatrale curato da Theama Teatro di Vicenza. Molti suoi racconti e testi poetici compaiono in antologie e compendi letterari. È presente nel sito online Italian Poetry. Per ulteriori informazioni si visiti il sito ufficiale dell’autrice: www.gabriellabertizzolo.it

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