#1Libroin5W.: Margherita Rimi, Il popolo dei bambini. Ripensare la civiltà dell’infanzia, Marietti.

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Chi?

I protagonisti del libro sono i bambini che io considero un popolo, e anche portatori di una loro specifica civiltà, quella che ho chiamato la civiltà dei bambini.     
I bambini sono un gruppo umano, legati da un rapporto comunitario e sono da considerarsi un popolo perché hanno peculiarità e aspetti così particolari che li rendono unici. Un unico popolo quello che tipizza l’infanzia. Un popolo nuovo, sui generis; un popolo trasversale che va oltre il concetto di razza, terra, lingua, religione e di limiti geografici. È un popolo che abita in tutto mondo e ha abitato in tutte le terre, in ogni tempo. I bambini scardinano l’idea di popolo così come l’hanno concepita gli adulti solo per sé stessi e, allo stesso tempo, lo rappresentano in una visione nuova. Di questo concetto ne parlo nel primo capitolo del libro dal titolo Un popolo[1].         
Per civiltà dei bambini io intendo tutto quelle peculiarità di cui essi sono portatori: il gioco, il patrimonio di linguaggio/lingua, di pensiero, di corpo, di disegni e scritti vari nei loro straordinari sviluppi, ma anche delle malattie. Tutti questi sono oggetto di studi scientifici particolari che hanno portato a nuove conoscenze; e io le lego a una civiltà, appunto: la civiltà dei bambini.         

I piccoli in tutte le loro manifestazioni di vita, e a ogni età, sono espressione di una umanità e civiltà che, noi adulti, conosciamo solo in parte. Faccio degli esempi: il gioco è un elemento distintivo dei piccoli, nessuno sa giocare come giocano loro. Il gioco dei bambini rimane ancora così misterioso, tanto da essere, negli ultimi decenni, oggetto di studio da parte della scienza medico-psicologica e della psicopatologia: pensiamo ai bambini autistici gravi che non sanno giocare; o ad altri che presentano patologie varie che giocano in un modo “non regolare”. Un altro esempio è il linguaggio: il linguaggio dei piccoli ha delle specificità sul piano prosodico-fonologico, sintattico e di pensiero, per ogni età. Ciò diviene ancora più evidente e irregolare nei bambini che hanno disturbi neuropsichici. Io penso che il linguaggio dell’infanzia abbia tali peculiarità da rappresentare una vera e propria “lingua”, al di là di quelle che vengono parlate (francese, tedesco, russo etc…). Ho imparato, per quanto mi è stato possibile, a parlare con loro, a interagire attraverso le parole, non in modo imitativo o facendo il verso, ma cercando di apprendere la loro lingua, nelle diverse attività e in particolare nel gioco dove emerge il modo di vedere il mondo, il pensiero, l’affettività.         
E qui si apre il grande capitolo: la letteratura per l’infanzia. Scrivere sui bambini o per i bambini non è una cosa facile, mentre molti pensano che lo sia. E, pertanto, non sempre si rispetta il valore del bambino del quale vengono alterate le caratteristiche della lingua, del pensiero, del gioco e dell’affettività.  Quando si scrive per i bambini o sui bambini bisognerebbe imparare da loro; bisogna conoscerli e riconoscerli: questo è spesso sottovalutato da alcuni scrittori. I grandi scrittori e artisti lo hanno fatto. Per dare alcuni esempi di sapienti “interpreti” dell’infanzia richiamo Collodi, Tolstoj, la Montessori e Rodari, Ágota Kristof, Charles Dickens; nella fotografia Josef Koudelka, Robert Doisneau, Letizia Battaglia; nel cinema Abbas Kiarostami, Gianni Amelio. La letteratura per l’infanzia non può essere considerata una letteratura secondaria o, come spesso viene definita, un genere “minore”. La letteratura per l’infanzia illumina aspetti di una grande umanità e civiltà rappresentata dai bambini.

Cosa? 

Uno dei temi cardine affrontati nel libro è la differenziazione tra la «civiltà dell’infanzia» e quella che io definisco la civiltà dei bambini. La civiltà dei bambini, lo ripeto, è rappresentata da tutte quelle specifiche caratteristiche del patrimonio culturale e umano di cui sono portatori i piccoli; e si contraddistingue per la unicità di aspetti dello sviluppo fisico, intellettivo e linguistico, affettivo-sociale e spirituale, della relazione e del gioco. E ancora, per ciò che pensano e sentono bambini e bambine, non solo in uno stato di normalità ma anche di malattia, o in uno stato di guerra e di abbandono; nei casi di sopraffazione e abuso, di spose bambine, di bambini soldato o reclusi in campi di concentramento. Per tutto quello di cui sono fatti bambini e bambine nella loro essenza di esseri umani, di corpo e di anima.        
La «civiltà dell’infanzia», invece, è tutto quello che gli adulti hanno pensato sia bene per i bambini e che non sempre ha coinciso con il loro reale bene. Nella storia ve ne sono tanti esempi, tra questi i metodi educativi: la costrizione del banco su cui richiama l’attenzione la Montessori, per non parlare poi dei metodi pedagogici violenti e dell’uso della bacchetta, e altre punizioni fisiche e psicologiche umilianti. L’idea pedagogica distorta, sottesa, è quella che il bambino debba essere preparato al mondo degli adulti e che, quindi, debba essere “corretto” per diventare grande: un bambino distorto e storto da “raddrizzare”. Il non riconoscimento dell’essere bambine e bambini.    
Si deve dunque partire dalla civiltà dei bambini per ricostruire una «civiltà dell’infanzia» nuova, che possa rappresentare al meglio quello di cui essi hanno bisogno per la loro crescita: è uno spostare l’ottica dalla parte dei bambini. Il concetto di «civiltà dell’infanzia» – presente a diversi studiosi da Philippe Ariès a Gianni Rodari –, coincidendo con il bene dei piccoli, rappresenta una conquista di valori, pensiamo agli ospedali pediatrici, allo sviluppo di una legislazione a tutela dei minori, i Tribunali per i Minorenni; pensiamo alle biblioteche a loro dedicate; agli spazi ludici e di gioco. Se riconoscere la «civiltà dell’infanzia» è stata una conquista fondamentale della cultura umana, ora bisogna fare un passo ulteriore. È cioè necessario riconoscere e concettualizzare, oltre che una «civiltà dell’infanzia» e una cultura nei confronti dell’infanzia, anche una civiltà propria e specifica di cui sono portatori i piccoli: quella che io ho chiamato civiltà dei bambini[2]. Allo sviluppo di questo mio pensiero e a questa concettualizzazione sono giunta grazie a un confronto con uno dei critici più autorevoli che abbia il nostro paese: Daniela Marcheschi, che ringrazio.  
Un altro importante tema che tratto nel libro è il gioco e i giocattoli a cui dedico un capitolo cospicuo, sia da un punto di vista scientifico che letterario.    
I bambini sono il popolo del gioco, nessuno sa giocare come lo sanno fare loro. Il gioco è la lingua universale del popolo dei bambini, è una forma di arte. Se si mettono assieme dei bambini di nazione, razza, religione e lingua diverse, troveranno un modo per giocare, tanto il gioco è loro connaturato. Il gioco come massima espressione della creatività e di invenzione, della fantasia dei piccoli, ma anche elemento di socializzazione, di crescita e di apprendimento del mondo. In questo capitolo tratto anche della storia fantastica e millenaria dei giocattoli, che hanno accompagnato i piccoli nel corso dei secoli. Ma i giocattoli possono essere trasformati, in mano agli adulti, in una vera e propria arma di brutalità e di manipolazione. I regimi di ogni epoca hanno imposto giochi e giocattoli, modalità educative, sempre più invasive per propagandare il culto della forza e della violenza, per condizionare e plasmare il bambino, che poi da adulto sarà un uomo più influenzabile, più facile da subordinare. Basti pensare alla Germania di Hitler con la creazione della Hitlerjugend, o ai Balilla nell’Italia di Mussolini. E anche oggi in alcuni paesi, esistono i bambini soldato addestrati alla crudeltà e alla violenza. Pure nelle società democratiche c’è una parte del mercato, che opera un condizionamento più nascosto e più subdolo attraverso giocattoli, immagini, fumetti, videogiochi, attentamente manipolati: oggi si continua così a indirizzare e condizionare la personalità di bambine e bambini, per ridurne e controllarne la creatività[3]
Il gioco ha anche una grande utilità nei processi di diagnosi e cura dei bambini. Per esempio nel gioco simbolico dei piccoli c’è tanta verità del loro vissuto; paradossalmente, nel “facciamo finta che”, c’è la verità dell’esperienza del bambino. Difatti, in alcune situazioni di maltrattamento o di abuso, è proprio attraverso il gioco simbolico che il bambino mette in scena quanto gli è accaduto.     
Un altro tema trattato è l’abuso e il maltrattamento, che mi sta molto a cuore anche per l’esperienza in tanti anni di lavoro come medico neuropsichiatra infantile. La violenza sui bambini è causa di danni devastanti sia a livello sia psicologico sia fisico, cerebrale e biochimico[4], con gravi conseguenze sulla salute. Questo è stato dimostrato negli ultimi anni, non solo clinicamente ma anche grazie a più recenti studi di neuroscienza. Tali danni si manifesteranno successivamente anche in età adulta con disturbi neuropsichiatrici: abuso di sostanze, alcolismo, promiscuità sessuale, comportamenti antisociali. Oggi l’abuso sui bambini è poco trattato dai mezzi di informazione, sottovalutato; anzi, a volte si tende a pensare che i piccoli dimenticheranno. E invece no, non solo non dimenticheranno niente, ma dovranno fare i conti con conseguenze sulla salute per tutta la vita.

Quando? 

Quando ho deciso di rappresentare il dialogo esistente tra le mie due anime quella scientifico-medica e quella letterario-poetica, un dialogo in atto da tanto tempo, non facile descriverlo e raffigurarlo. Il mio lavoro di medico e neuropsichiatra infantile mi ha dato la possibilità di acquisire conoscenze dirette su bambini e bambine e sulla loro specifica umanità. Questa esperienza clinica e di studi scientifici, accumulata nel tempo, interagiva profondamente con il mio lavoro di poeta e con i miei studi letterari: si potenziavano e sostenevano, in una reciprocità necessaria.  Anche questo è Il Popolo dei bambini.   
La scienza medica e la poesia, l’arte, sono state insieme determinanti nella mia formazione umana ed etica, sono state una guida nella conoscenza del mondo, nella mia ricerca di senso e verità. Il libro metaforicamente è, così, un ponte tra arte a scienza; vi sono diversi scritti, citazioni, con miei commenti su scrittori e poeti (Manzoni, Sant’Agostino, Collodi, Tolstoj, Giuseppe Bonaviri, Pitrè, la Szymborska, la Blandiana, Rodari, Sciascia), tanti riferimenti a studiosi di scienza (Ferenczi, Winnicott, Montessori, Vygotskij, Daniel Stern, Freud, Emma Baumgartner) e tante invenzioni.         
È un libro scritto anche in forma poetica nell’embricarsi tra scienza e arte.

Dove? 

Dove? Io lo immagino in un luogo complicato: dove etica e pensiero, estetica e responsabilità, esperienza umana e letteratura si incontrano. Questo libro, come alcune mie poesie, sono un atto di gratitudine verso bambine e bambini.  Essi mi hanno donato tanto: il gioco, i disegni, il linguaggio e la fantasia; tanto pensiero, la loro sofferenza, il loro dolore; mi hanno dato fiducia: tanta umanità. Anche loro sono stati gli ispiratori artistici di alcuni miei versi e idee.    
Sul piano politico e sociale ho ritenuto necessario contribuire a promuovere i valori dell’infanzia, questa delicatissima età della vita. Un’infanzia vissuta bene può creare un mondo nuovo e di pace, come sostiene la Montessori.

Perché? 

Un riconoscimento al valore di bambine e bambini, alla civiltà e umanità di cui essi sono portatori. Una restituzione di quello che ho imparato da loro durante tutti gli anni di lavoro di neuropsichiatra infantile. La conoscenza profonda del bambino potrà migliorare la nostra sensibilità, potrà migliorare la nostra umanità. E poi c’è anche un monito per gli adulti, perché la conoscenza approssimativa e superficiale dei bambini rischia di portarne la visione, sia nell’arte che nella vita, su un terreno ambiguo, dove prevalgono mistificazioni e alterazioni e distorsioni della loro natura, in modo non dissimile da quanto avviene emblematicamente nell’abuso sessuale.

scelto per voi

(Margherita Rimi, Il popolo dei bambini, cit., pp. 135-136.)

«Se persistono tali idee, non è forse perché, in fondo, vogliamo tenere lontane alcune paure, alcuni sentimenti, il nostro stesso essere stati bambini? Quello che i bambini rappresentano? Forse l’infanzia è un mare di insegnamenti, di specchi di differente umanità dentro i quali è difficile guardarsi riflessi? Forse perché i bambini ci ricordano quanto siamo lontani dal loro modo di essere e possono rappresentare una forma di sovvertimento del nostro modo di pensare e dell’ordine costituito? Forse perché ci costringono a rivedere la priorità dei valori su cui si sostengono i modelli dominanti nel mondo degli adulti, fiaccati dalla corsa al danaro, al successo e dalla vanità dei loro desideri? Letteratura minore: forse perché i bambini rappresentano la criminalità e la prostituzione, lo sfruttamento, l’abuso sessuale, il lavoro infantile che l’adulto ha creato nelle nostre società? Letteratura minore: perché ci ricorderebbe le immagini di crudeltà, malvagità e di morte, il male subìto dai bambini innocenti nella storia di tutti i tempi e senza nessuna colpa, nelle guerre, negli abbandoni, nelle violenze, nelle carceri o nei manicomi? Letteratura minore: perché di fronte a tutto questo il bambino continua a restituirci il suo essere, la sua umanità, la voglia di giocare, l’immaginazione, il suo sogno di crescere? Letteratura minore: perché ci sono ancora i bambini e ci rimandano alla nostra responsabilità, alla nostra coscienza? Letteratura minore: perché ancora il bambino ci dovrà raccontare e scrivere tutto questo?».

 

 

[1] Margherita Rimi, Il popolo dei bambini. Ripensare la civiltà dell’infanzia, Bologna, Marietti 1820, 2021, pp.7-24.

[2] Margherita Rimi, Il popolo dei bambini, cit., pp. 28-37.

[3] Ivi, pp. 63-67.

[4] Cfr. M. Cavallo e A. Signorino, Correlati neuropsicologici e di neuroimaging del maltrattamento e dell’abuso infantili, in
«Maltrattamento e abuso all’infanzia», 17, 3, novembre 2015, pp. 13-38.

 

 

in copertina Margherita Rimi nella foto di Dino Ignani.

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