#1Libroin5W.: Marinella Fiume, “Le ciociare di Capizzi”, Iacobelli editore.

CHI?

Mi piace definire questo libro un “libro corale” in quanto, senza la collaborazione e le testimonianze delle donne e degli uomini, giovani ed anziani, di Capizzi (Me), un piccolo borgo sui Nebrodi di pastori, allevatori e coltivatori di grano, non avrebbe potuto vedere la luce. Io ho solo aiutato loro a trovare le parole per dire una violenza insensata e indicibile, taciuta per 75 anni. Sono loro i protagonisti del libro, con il loro vernacolo che ho dovuto trascrivere e tradurre con fatica in assenza di studi filologici, con la loro cultura, molto meno arretrata di quanto l’antropologia anglosassone e gli stessi Alleati non pensassero.

COSA?

Il libro affronta un capitolo di storia mai raccontata dagli storici e dagli scrittori, ignorato, minimizzato, una delle pagine più nere dell’operazione “Husky”in Sicilia nel corso della seconda guerra mondiale e della Liberazione: le violenze fisiche e sessuali sulle donne di Capizzi da parte dei goumiers, truppe marocchine e nord-africane irregolari, autorizzate a comportamenti di questo tipo dal comando alleato. “Con la guerra viene il bottino” è uno slogan assai noto, e le donne sono considerate parte del bottino di guerra. Lo stupro ai danni delle popolazioni civili è stato ed è strumento di guerra, una grave violazione dei diritti umani.
Ma, sia in guerra che in pace, la cultura che sottende lo stupro è la medesima: quella cultura patriarcale che vede il maschio forte e la donna vittima. Non c’è un vero e proprio dopoguerra di pace e di tutela giuridica per le donne, in quanto si assiste ad un costante reiterarsi della violenza semplicemente perché non si rimuovono le sue cause sottese. Il libro contiene anche un intervento sociologico di Maria Pia Fontana che si sofferma sull’analisi di questo fenomeno e propone qualche soluzione.

QUANDO?

L’idea è nata il 25 novembre del 2015, quando fui invitata a Capizzi a parlare della giornata internazionale contro la violenza sulle donne e invitai i presenti a fare ricerche in loco. Neanche loro sapevano! In assenza di bibliografia, ho seguito un metodo già sperimentato in altre pubblicazioni, quello della storia orale e della ricerca sul campo, attraverso la collaborazione e l’aiuto delle donne, in particolare delle socie FIDAPA, con la loro presidente avvocata Melinda Calandra, e di volontari locali. Ha collaborato al lavoro anche un appassionato di storia militare, conoscitore dei luoghi del teatro di guerra grazie ai racconti del nonno, il dottor Giuseppe Vivaldi. Com’è naturale, inizialmente dovemmo vincere una certa resistenza: le sopravvissute, ormai poche, e i loro congiunti erano vissuti lungamente con questo macigno sul cuore e scattava un sentimento di “vergogna alla rovescia”. Ma si comprese ben presto che non cercavamo lo scandalo, ma ci muoveva piuttosto il desiderio di cercare la verità, di aiutare la comunità a rielaborare il dolore, riconciliarsi con la memoria e persino perdonare. Un aneddoto: Accompagnata da un’amica capitina, busso ad una casa su suggerimento di un impiegato che mi dice che quella signora anziana potrebbe sapere tante cose. Dal vetro delle imposte vedo avanzarsi verso la porta una anziana signora ben messa che non solo non ci fa entrare, ma non ci apre nemmeno per intero la porta, cosa inconsueta in un paese così ospitale con i forestieri. “ Che vuole? Chi la manda?” – mi dice contrariata. Rispondo che vorrei sapere da lei qualche notizia sulla guerra. “ Signura, si facissi i cazzi soi. Iu sugnu malata e non voglio vedere nessuno” e ci sbatte la porta in faccia. Qualcuno dalla piazza antistante assiste alla scena e bisbiglia: “E’ sempre stata pazza dopo la violenza subita dai marocchini…”.

DOVE?

La narrazione è nata e si è sviluppata tra le donne di Capizzi, qualche vittima, le nipoti ed i nipoti, ed è cresciuta attraverso le storie di vita raccontate “dal basso”. Abbiamo intervistato un centinaio di residenti, raccolto le loro testimonianze di violenze subite dai familiari, dai vicini di casa, da amici e conoscenti, individuato i luoghi, frugato nelle memorie, sofferto con loro.

PERCHÈ?

Le ferite inflitte nel corpo delle donne producono gravi lacerazioni nelle vittime così come nel corpo sociale e sono destinate ad attraversare le generazioni. Il discorso si fa più complesso nel nostro caso in quanto, davanti al lavarsene le mani dei comandi alleati, i Capitini reagirono con una guerriglia nei boschi che fece vittime molti stupratori. E stante che i maschi validi erano al fronte, furono gli anziani, le donne, i bambini a reagire così. Reagire alla violenza con la violenza, se è comprensibile umanamente ed integra le ipotesi di legittima difesa, sul piano psicologico non consente di archiviare i conti con il passato. Il rischio è quello di rimanere ancorati al rancore verso il sopruso facendo vivere dentro il ricordo dell’abusante e del trauma subito. Ma liberare aggressività per difendersi dalla violenza non libera dall’aggressore che abita nella memoria e consente un senso di integrità. Occorre, quindi, un lavoro di rielaborazione che possa “guarire” sia dall’aggressività subita che da quella agita per necessità ed indotta dalle circostanze, perché in definitiva la violenza rappresenta sempre un fattore nocivo per la propria pace interiore. Abbiamo voluto che la comunità si riconciliasse con la propria memoria fino al perdono.


Inoltre ti chiediamo di riportare alcuni passi dal libro per salutare (e incuriosire) i lettori , così COME nessuno meglio dell’autore più fare.

“Gli Inglesi portarono in Sicilia i marocchini perché dicevano che in Sicilia semu sarbaggi (siamo selvaggi), perciò ci volevano selvaggi come noi. I marrocchini erano di bassa statura e color marrone in faccia, vestiti con una coperta lunga detta barracano, avevano capelli lunghi e intrecciati e portavano turbanti, senza calze e con gli zoccoli ai piedi. Ma siccome gli Inglesi non ci difendevano, i Capizzuòti (Capitini) ne ammazzarono tanti di marrocchini, a colpi di bastone e con le roncole. Tanto danno facemmo loro, più di quanto loro non ne fecero a noi con le loro marocchinate. I marocchini venivano nelle masserie a truppa e facevano i comodi loro. Le donne di tre famiglie le violentarono, madri, zie, cognate, sorelle e figlie, tenendo gli uomini sotto la scopetta (fucile) e perciò non potevano reagire. Violentarono una ragazza di 16 anni che era andata sola a prendere l’acqua alla sorgente. Ma i Capizzuoti non se la tenevano (non subivano) e fecero un’imboscata nel bosco. Una volta, al pascolo nel bosco trovai un elmetto, incuriosito mi avvicinai e dentro ci trovai la testa di un marocchino a cui l’avevano tagliata con l’ascia. Quella fu la guerra della città di Capizzi contro i liberatori, i vinnignàmmu (facemmo vendemmia di loro come si fa con l’uva) con una guerriglia». (classe 1923)

Breve nota biografica

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche, dottore di ricerca in Lingua e Letteratura italiana, è stata per due legislature Sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia, cittadina sulla costa jonico-etnea dove risiede. Tra le sue pubblicazioni: Sicilia esoterica (2013), Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014); La bolgia delle eretiche (2017); i racconti Ammagatrìci (2019), Le ciociare di Capizzi (2020). 

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