#1Libroin5W.: Matteo M. Vecchio, “Tre imperdonabili. Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Cristina Campo”, a cura di Silvia Giacomini, Le Càriti Editore.

#1Libroin5W.: 

Matteo M. Vecchio, Tre imperdonabili. Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Cristina Campo, a cura di Silvia Giacomini, Firenze, Le Càriti Editore, 2022.

Chi?

Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Cristina Campo, Matteo M. Vecchio. Tre imperdonabili più uno: colui che di queste autrici è stato studioso appassionato e attentissimo. “Imperdonabile”, secondo Matteo M. Vecchio, è un intellettuale considerato “scomodo” in quanto rifiuta di adeguarsi al pensare comune, ai precetti opportunistici della società del commercio, per votarsi a una personale rivoluzione dei valori che persegua la radicalità e la purezza, in una interdipendenza di pensiero e vita. Purezza è prima di tutto implacabile svisceramento di sé (con sguardo di diamante, affilato come bisturi, che non esita ad affondare nel fango). È una abissale nudità. Commentando la poesia di Antonia Pozzi Canto della mia nudità, durante una videoconferenza del marzo 2021, Matteo parlò di volontà di spogliazione intesa come “l’atto di liberarsi degli abiti di scena imposti dalla società”, al quale segue “la manifestazione veritiera di sé”. Purezza, imperdonabilità – come mostrano le autrici esaminate, nonché il loro studioso – significa scrivere spendendo tutto il proprio essere nella “ricerca spasmodica, e a volte dolorosissima, della parola che carpisca, che afferri, che ghermisca la realtà”; significa mettere interamente in gioco la propria esistenza nel tentativo di portare in superficie qualche tremante indizio di luce.

“Sto nel buio”, scrive Cristina Campo in una delle lettere riportate nel libro, “ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce”. Per queste tre poetesse e pensatrici “la poesia non si dona se non entro una precisa cornice di eticità”. La dimensione etica alla quale Matteo si riferisce, e nella quale avveniva anche il suo lavoro, è avversa a ogni dogmatismo – ha a che fare con le viscere del cuore. La poesia è un dovere, per Cristina Campo, che rimpiange di averla presa e lasciata “le mille volte come un capriccio”; alla poesia si rivolge Antonia Pozzi nei versi di Preghiera alla poesia chiamandola “il mio profondo rimorso”. Anche per Antonia la poesia è quasi un dovere sacro, del quale tuttavia non si sente degna, per quel Pudore su cui Matteo si sofferma, e che racchiude forse un sentimento di inferiorità, insieme a un eccesso di coscienziosità. Il fiore che partecipa alla complicata “faccenda della luce”, scrive Emily Dickinson, deve fare in modo di “Non deludere la grande Natura che quel giorno l’attenderà – essere un fiore, è una profonda responsabilità –” Profonda responsabilità, la scrittura, per i quattro imperdonabili, compito al quale si è continuamente tentati di fuggire. E, allo stesso tempo, necessità vitale. Senso del vivere, senza il quale l’esistenza diventa un vuoto intollerabile. “Negare a lei la poesia significava negarle la vita”, dice Matteo di Antonia Pozzi.

Cosa?

Poesia e vita (arte e vita, pensiero e vita), nella loro inscindibilità, nel loro reciproco nutrirsi – tema al quale Matteo ha dedicato diversi studi. Scrivere costa sangue, è un atto di rivolta contro il tempo che dovrebbe bonificare le ferite, tenendole aperte per tastarne il vivo. “Ogni cosa è per me una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi” – emblematiche, oltre che di una personalità ipersensibile, di una vocazione alla poesia, queste parole di Antonia Pozzi. Ogni incontro con l’altro, ogni tono di voce e di luce, ogni parola e sguardo, la miseria come la bellezza, tutto le procura ferite che ella – precisa Matteo – non riesce a suturare, ferite che “continuano a fiottare sangue”. Donare completamente sé stessi implica il rischio di frantumarsi nell’urto violento con l’incomprensione del mondo. Secondo Matteo, lo scontro tra slancio del donarsi (“se getto nelle cose la mia anima / più grande”) 2 e mancato accoglimento da parte dell’altro è una delle più profonde sofferenze di Antonia. La sofferenza per Cristina Campo è anche di natura fisica, legata ai problemi cardiaci, e la induce a “riflettere sul ruolo degli altri nella propria vita”, in particolare sul valore degli amici che le offrono “il fiore della presenza”, come scrive in una delle Lettere a Mita 3, definito da Matteo “forse uno dei più bei carteggi femminili del Novecento italiano”. Come Cristina, a lui affine sotto molti aspetti, Matteo, negli ultimi tre anni, ha attraversato sofferenze fisiche, dovute alla leucemia e ai ripetuti cicli di chemioterapia, senza mai smettere di lavorare con passione ai propri scritti, alcuni dei quali nati e maturati durante le lunghe degenze ospedaliere. Nei mesi precedenti l’aggravarsi della malattia, oltre a lavorare alla cura di un importante carteggio di Vittorio Sereni, a una biografia dettagliata di Antonia Pozzi, a un volume su Giuseppe Antonio Borgese e uno su Nino Rota, Matteo aveva cominciato a dedicarsi all’approfondimento del tema della neurodiversità in letteratura. Per neurodiversità (o – pare sia più corretto dire – neurodivergenza) si intende una differente modalità di cognizione, di relazione e di ricezione degli stimoli, che comporta una diversa visione del mondo. Nelle lezioni trascritte in Tre imperdonabili, si accenna al possibile autismo di Emily Dickinson, e alla “non neurotipicità” di Cristina Campo, la quale, secondo Mita Pieracci, possedeva la capacità di osservare la realtà stando “a lato del proprio corpo”, come alcune persone neurodiverse sono naturalmente portate a fare (“un piede dentro e uno fuori – in fondo l’Asperger è tutto qui” 4, testimonia, in un libro un po’ datato sull’argomento, una ragazza a cui è stata diagnosticata questa sindrome.) Matteo, del resto, conosceva dall’interno le modalità di funzionamento della mente autistica in quanto persona Asperger con acuta capacità di autoanalisi. Ne parlava spesso come di una condizione difficile, soprattutto in rapporto a una società in cui manca una cultura della diversità (che va rispettata, conosciuta e coltivata, non certo piegata a denaturarsi per aderire ai dettami della maggioranza, ovvero di un tipo di follia immatricolato dalla Norma).

Dove?

Il margine, la soglia (altro tema caro a Matteo). Gli imperdonabili sono votati al margine poiché rifiutano di vendersi, di intrecciare relazioni utili, di essere competitori e prevaricatori. Se ne infischiano delle ambizioni e dei traguardi imposti dalla società. La loro attenzione è volta altrove dagli “squallori” del mondo (“Com’è squallido – essere – Qualcuno!” 5, scrive Emily Dickinson) – è orientata alla fragile meraviglia delle cose minime, ai bui fondali dell’animo umano, ai baratri celesti del “Mistero”. Ma il margine, la soglia, è anche il luogo di un delicato sostare in attesa dell’incontro con l’altro: al “magma” di una esistenza bisognerebbe sempre accostarsi “a piccoli passi, senza disturbare, in silenzio reverente”, scrive Matteo. Questo – egli sostiene – deve saper fare un buon critico, la cui prima qualità dovrebbe essere l’umiltà, la capacità di inginocchiarsi di fronte a un’opera – a un pezzo d’anima, a una vita –, in una bruciante tensione d’ascolto. Matteo, che si proclamava laico, aveva l’abitudine di inginocchiarsi fisicamente nei luoghi sacri, talvolta con un trasporto che commuoveva chi gli era accanto. Viene in mente Etty Hillesum (pensatrice da lui molto amata, insieme a Simone Weil) che percepisce il gesto di inginocchiarsi connaturato al proprio corpo come “una irresistibile necessità” 6, benché non giunga subito a realizzarlo. Di una “sovrabbondante dolcezza, la quale, allorché si manifesti, va accolta in ginocchio” parla Cristina Campo in un’altra lettera esaminata nel libro; e Antonia Pozzi, che di fronte alla “soavità perfetta” di certi paesaggi naturali provava un turbamento tale da crollare a terra in pianto, in una pagina di diario racconta di essere “caduta in ginocchio davanti alla finestra aperta” dopo aver percepito il tocco di un “angelo” 7Il margine, come Matteo ha saputo cogliere, è anche la stanza tutta per sé 8 di Virginia Woolf, ed è la stanza nella casa di Amherst in cui Emily si chiude per essere libera di accogliere i tesori dell’interiorità. Altri “dove” sono i bellissimi prati attorno ad Amherst che Emily vede dal treno, le periferie di Milano in cui Antonia scopre ciò che non conosceva della realtà, la raffinata atmosfera della Firenze a cui Cristina dice addio. E poi c’è il primo “dove” necessario – il luogo accogliente in cui si sono svolte le lezioni dalle quali nasce il libro: la Galleria Boragno di Busto Arsizio, grazie all’attenta ospitalità di Francesca Boragno.

Quando?

Dal 26 gennaio 2020, presso la Galleria Boragno, per tre domeniche consecutive, Matteo ed io abbiamo tenuto un corso di poesia e di lettura intitolato “Le imperdonabili”. Il libro raccoglie le trascrizioni da registrazione vocale delle tre lezioni tenute da Matteo rispettivamente su Emily Dickinson, Antonia Pozzi e Cristina Campo, al termine delle quali iniziava la breve parte laboratoriale di cui mi occupavo io, dedicata all’apprendimento di tecniche di lettura ad alta voce sulla base dei testi delle tre autrici. Era un buon periodo, per Matteo: la malattia era in remissione ed erano moltissimi i progetti letterari ai quali si dedicava (curatele, recensioni, volumi di saggi, persino un romanzo); tante erano anche le mete di viaggio, tra cui la casa di Emily Dickinson ad Amherst, l’archivio di Nino Rota a Venezia, la casa di Leopardi a Recanati, il castello di Muzot dove Rilke si rifugiò a terminare il compito che gli “fu dettato nel centro del cuore” 9. Ma alla fine di febbraio sarebbe cominciata la pandemia, e, quattro mesi dopo, sarebbe giunta la notizia durissima della recidiva della leucemia, affrontata da Matteo con una “resistenza quieta” (espressione sua), e con la fiducia in una nuova “possibilità di luce” (così definì il midollo ricevuto in dono). Ricordo le tre domeniche del neonato 2020 in cui si è svolto il corso domeniche di gioia – di quella gioia che Cristina Campo, in una lettera di cui sono riportati nel libro alcuni brani, definisce “sacra e intangibile”, alla quale, dice, bisognerebbe educare (“Chi ci insegnerà la disciplina della gioia, i suoi meravigliosi catechismi?”) Era il primo corso che tenevamo insieme (altri ne stavamo progettando); era un inizio, rimasto fermo in una eterna aurora.

Perché?

Perché negli anni del suo tempo troppo breve, compresi i tre, così difficili, della malattia, Matteo ha lasciato opere di valore, innumerevoli doni di bellezza e di pensiero che chiedono di essere salvati, custoditi e seminati. Anche amore ha lasciato, ed esso continua spontaneamente a germinare. Nel suo lavoro critico e di ricerca Matteo coniugava amore, umiltà, tenacia e rigore. Conviveva a lungo, e senza mai smettere, con gli autori di cui si prendeva cura, spendendosi al massimo grado, e lavorando in ogni condizione, anche, come accennato sopra, in un letto d’ospedale. Inoltre, quando la salute glielo permetteva, partiva per andare a incontrare persone depositarie di ricordi e svolgere meticolose ricerche d’archivio, scovando talvolta documenti rari. E quindi vale la pena leggere questo libro anche per i riferimenti a materiali inediti, per informazioni e aneddoti conosciuti da pochi. Perché la poesia, e perché la poesia “imperdonabile”. In questo momento mi viene da dire: per ritrovare il dialogo con sé stessi e con il tutto, per tornare a un’isola interiore che è la casa dell’universo. Quando mi sento persa, urgono oasi di raccoglimento in cui radunare i pezzi di me – mi accosto allora assetata a quei testi in cui sento pulsare una mia verità. Solo la verità disseta. Non abbiamo bisogno di illusioni quanto di verità, perché nella verità c’è una maggior intensità di vita. Ad esempio, contro certe desolanti norme di rinascita, tonificante verità trovo sia questa poesia di Emily Dickinson, antologizzata nel libro: “Tutti coloro che perdiamo qualcosa ci tolgono; / resta ancora uno spicchio sottile, / che, come luna, qualche torbida notte / obbedirà al richiamo delle maree”. Colte dalla poesia, le verità del profondo sorprendono come illuminazioni e sono tutt’uno con la bellezza. Ne scaturisce un ardore che trattiene dal lasciarsi andare alla deriva nel niente.

P.S. Poesia e vita si intrecciano anche ora e qui. Nei non facili giorni in cui comincio ad abbozzare i brani di questa intervista per l’EstroVerso accade una coincidenza incredibile. In una tremenda vigilia di Natale, incontro in un luogo d’ansia (nel quale, tra l’altro, era impensabile incontrare un qualunque conoscente) una persona intimamente legata a Tre imperdonabili il cui sostegno mi è stato indispensabile, non solo in quel momento, ma anche nei giorni a seguire. Questa coincidenza davvero improbabile mi ha riportato in contatto con “il mistero di ciò che esiste” (parole di Cristina Campo, ma anche Emily Dickinson parla di “intimità con il Mistero”). Un mistero che a tutti, credo, accade per attimi di sentire – come uno squarcio di assurda meraviglia, una vertigine, un abbraccio che apre spazi.

La poesia è il dono di questi attimi, come lo sono le coincidenze – brevi schianti di luce, buchi nella nostra pretesa di sapere; testimonianze, forse, di quanto il reale sia molto più profondo e complesso di quel che crediamo. Sulla sua lapide Matteo ha voluto fossero incisi, in lingua originale, questi versi tratti dalla prima delle Elegie Duinesi di Rilke: “Voci, voci. Odi, mio cuore, come solo udirono / i santi: sì che l’immenso richiamo / li levò dal terreno; ma essi, impossibili, / rimasero in ginocchio e non se ne curarono: / così erano ascolto” 10.

Note

  1. Bloom – is Result – to meet a Flower, J1058.
  2. A. Pozzi, Cose, in Poesia che mi guardi, Bologna, Luca Sossella, 2010, p. 252.
  3. C. Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999
  4. T. Attwood, Guida alla sindrome di Asperger, Trento, Erickson, 1998, p. 46.
  5. I’m Nobody! Who are you?, J288
  6. E. Hillesum, Diario, Milano, Adelphi, 2012, p. 474.
  7. Pagina di diario datata 8 sett. 1937, in A. Pozzi, Mi sento in destino, Diari e altri scritti, Milano, Àncora, 2018, p. 100.
  8. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Milano, Feltrinelli, 2013.
  9. R. M. Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile, Lettere da Muzot, Milano, De Piante, 2022, p. 10.
  10. R. M. Rilke, Elegie Duinesi, in Poesie 1907-1926, Torino, Einaudi, 2000.

scelti per voi

L’imperdonabile è dunque colui, o colei, che si sottrae – in una lotta del tutto pacifica ma non per questo incruenta – alle dinamiche opportunistiche e degradanti del proprio tempo; è colui, o colei, che ragiona con la propria testa, che oppone a quella indifferenza e a quella superficialità che lo/la turbano una visceralità in cui vita e pensiero si stratificano e reciprocamente si vivificano.

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«Non parlavo mai – se non interrogata / E in quel caso, brevemente e a bassa voce – / Non potevo sopportare di vivere – a voce alta / Il Chiasso mi faceva così vergognare»: una condizione subìta, quella di marginalità – un po’ perché Emily era strana secondo i criteri dell’epoca, un po’ perché era donna –, diventa tuttavia una potente corazza: smetto di vivere a voce alta, sembra dirci, faccio che la voce bassa, la mia nessunità, diventi la mia condizione esistenziale privilegiata. Ecco che questi versi sono strettamente legati ai versi di Io sono Nessuno: la soglia, da imposta, diventa scelta, e scelta che si rivela del tutto fruttuosa.

Del resto: «L’Anima – Mi accusò – Ed io tremai / Il Mondo Mi accusò – Ed io sorrisi –». È l’anima lo spazio più problematico. Del mondo posso anche disinteressarmi, è l’anima a occupare tutta me stessa – questo sembra dirci Emily Dickinson. Che il favore dell’anima sia il miglior disprezzo contro gli artifici del tempo e degli uomini è già un programma di vita.

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«Molta Follia è il più divino Senno»: i valori condivisi sono sovvertiti e viene rivendicata una obiezione di coscienza estremamente forte, estremamente significativa; una poesia di questo tipo, come qualcuno ha scritto negli anni Trenta del Novecento, avrebbe condotto Emily Dickinson nientemeno che sul patibolo se fosse vissuta nel Seicento.

«Approva – e sei sano / Obietta – sei subito pericoloso / E trattato con Catene»: nella sua retorica scabra, questa sembra una poesia attagliata per il nostro tempo più che per il suo; è più prossima al nostro concetto di obiezione di coscienza che a quello di una distinta gentildonna dell’epoca.

[…] Se potrò aiutare un pettirosso caduto a tornare sul nido non sarò vissuta invano: qui viene rivendicata la dimensione estremamente marginale, estremamente minuta delle cose, anticipando, pur in modi assolutamente diversi, il decadentismo pascoliano, ovvero una salvaguardia delle piccole cose al di là dei grandi valori romantici.

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Con Dino Formaggio […] Antonia, insieme anche all’amica cattolica Lucia, viene condotta nella Casa degli Sfrattati […] La «cara vita» di cui si parla in Periferia non è la vita intesa come destino esistenziale, è un appellativo di Dino Formaggio.

È come dicesse a Dino: cara vita, tu mi conduci dove non sono mai stata, dove inizio a espiare eticamente ciò che non conoscevo della realtà – è una sofferenza gnoseologica quella di Antonia Pozzi –; io non conosco la vita (non ho l’esperienza per capirla), e non riesco a scrivere – non come avrebbe voluto lei, non il romanzo.

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Dopo la pagina di diario, abbiamo La porta che si chiude, una poesia enigmatica che, a mio avviso, va letta sempre come una poesia apocalittica per quella sorta di tensione rivelatoria che è tipica della poesia di Antonia Pozzi: per percepire la realtà, per carpirla, le parole devono in qualche modo vivere un transito palingenetico verso la leur saveur maxima (il ‘loro sapore massimo’) – cito Simone Weil perché, come Cristina Campo, ella tese sempre a una parola che afferrasse la realtà e la penetrasse come in una fusione nucleare. E così Antonia Pozzi, sebbene non lo abbia teorizzato (la Weil e la Campo, sì).

Le «parole prigioniere» devono in qualche modo eruttare, devono transitare attraverso una fessura – quasi la «porta stretta» evangelica – per anche verificare la propria tenuta rispetto alle cose.

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Cristina Campo e Pier Paolo Pasolini condividono la radicalità della scrittura, la visceralità, che contraddistingue sia l’una sia l’altro, e anche una smania, un desiderio a volte quasi autodistruttivo – ed è il caso di Pasolini, certamente autodistruttivo, ma forse è anche il caso della Campo che si logorò, negli ultimi anni, in una battaglia di cui poi parlerò –; condividono la voracità, l’autodistruzione in una lotta titanica, oserei dire, contro la parola sprecata, contro la vitalità gettata, contro l’inutilità dei cascami nella vita, ma a favore di una autenticità relativa alla parola che si rifletteva inesorabilmente anche sulla vita.

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«Due mondi – e io vengo dall’altro»: anche questa è una dichiarazione di poetica, con una forte vocazione politica. Io non appartengo a questo mondo, dice Cristina; e che cosa ha scritto Pasolini? «Io sono una forza del Passato», io non appartengo al mio tempo – altro elemento, questo, che può rimandare all’ipotetico e possibile parallelismo tra i due, pur a partire da premesse culturali completamente diverse. In entrambi c’è un ripudio del proprio tempo. […]

Cristina Campo va studiata; bisogna leggerla, convivere: anche solo le lettere esigono una convivenza, perché in una letterina di venti righe costei – che secondo me non era del tutto neurotipica, o meglio, aveva una visione del mondo scentrata rispetto a una prospettiva più tipica – concentra gli universi.

In copertina Silvia Giacomini (nella foto di Mario Chiodetti) con Matteo M. Vecchio, dipartito prematuramente, resta, indelebile, “nello splendore del mattino”, in coloro che hanno incontrato il suo cuore “imperdonabile”, mirabile e libero, di uomo e di studioso.  

gc

Matteo Mario Vecchio (Milano 1981 – Alessandria 2021) è stato dottore di ricerca in letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Firenze. Ha collaborato con «L’immaginazione», «Paragone Letteratura», «Materiali di Estetica», «Otto/Novecento», «Rivista di Storia della Filosofia», «Fronesis». Ha curato testi di Antonia Pozzi (alla quale ha dedicato, tra gli altri, il volume Perché la poesia ha questo compito sublime, Borgomanero, 2013, traduzione portoghese Lisbona, 2016, e una antologia di testi tradotti in francese da Camilla M. Cederna, Une vie irrémédiable, Lille, 2018) e di Vittorio Sereni (tra cui i carteggi con Giancarlo Vigorelli e con Antonio Banfi al momento inediti). Di Antonia Pozzi ha curato inoltre l’edizione della tesi di laurea dedicata alla formazione letteraria di Flaubert, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, Torino, 2013. Di Daria Menicanti ha pubblicato un’ampia antologia poetica, La vita è un dito, Borgomanero, 2012. Inediti i progetti editoriali su Piera Badoni, Giuseppe Antonio Borgese, Nino Rota, Nella Berther, e alcuni materiali di studio su Cristina Campo. Oltre a partecipare a numerosi convegni si è occupato di liturgia e di musica gregoriana, e ha studiato violino al Conservatorio.

Silvia Giacomini ha pubblicato due raccolte di racconti, Pozzanghere e bagliori e La metamorfosi delle cose, Progetto Cultura, 2011 e 2015, e le raccolte di poesie La sirena discorde, Edizione Ape, 2012, Il sangue del cielo, Italic Pequod, 2014, La tentazione di essere vento, La vita felice, 2014, e Mal Bianco, Ladolfi, 2019. Attrice di teatro, ha scritto i testi e partecipato alla rappresentazione di spettacoli di argomento astronomico andati in scena per il Gruppo Astronomico Tradatese e presso il Civico Planetario di Milano. Con la compagnia I Desideranti ha realizzato uno spettacolo sulla mitologia degli alberi, rappresentato per il F.A.I. a Villa Necchi, al castello di Padernello (Bs) e al Parco Nord di Milano. Dopo aver frequentato la scuola di formazione in Drammaterapia di Lecco, ha partecipato alla conduzione di laboratori di teatro creativo nell’ambito del disagio psichico e della disabilità. Ha tenuto mostre personali di incisioni a Varese e Milano e una mostra fotografica inserita nel Circuito Off del Festival di Fotografia Etica di Lodi. 

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