#1Libroin5W.: Renato Pennisi, Nel mio futuro non ti porto, interlinea.

Chi?

Ho raccontato le vicende di un avvocato cinquantenne. Età complicata quella perché è tempo di rese dei conti, di verifiche, di ricerca di nuovi spazi. La mia idea iniziale era di scrivere una storia in prima persona col tono leggero di una commedia, ma man mano che procedevo nella scrittura mi rendevo progressivamente conto di comporre un romanzo complesso perché vi confluivano, formando un un’unica lega, le dinamiche familiari, la propria dimensione lavorativa, la stessa idea che il protagonista ha sé stesso. L’avvocato Marcello Nicosia è imprigionato nella noia delle proprie «giornate tutte uguali», e a dispetto dell’età che dovrebbe costituire una garanzia di solidità, è molto facile infilarsi in situazioni complicate destinate ad andare fatalmente del tutto fuori controllo. Mi verrebbe da dire d’istinto che il romanzo non sia autobiografico, ma ogni libro in effetti quantomeno un poco autobiografico lo è sempre.

Che cosa?

Dovessi dare un sottotitolo diverso da «Una storia siciliana», il sottotitolo reale, darei «Il libro dei compromessi». La vita di ciascuno di noi è il risultato faticoso di infiniti compromessi a partire dalla sfera affettiva. Penso al difficilissimo e instabile equilibrio nella relazione di coppia. Buona parte del romanzo è dedicata ai silenziosi rancori tra marito e moglie.  Faticosissimo è poi il rapporto con i genitori prima e con i figli dopo. Nel romanzo padre e figlio sono linee rette destinate a non incontrarsi mai. Il lavoro poi ci condiziona fino al più sotterraneo dei nostri progetti, si insinua nel nostro sonno. Il protagonista del romanzo incontra una donna molto più giovane con cui avvia una relazione, ma questo ingresso nella sua vita sarà causa di altre incertezze, di nuove precarietà. La sua attività lavorativa lo metterà in contatto con ambienti politici e malaffaristici, e la seduzione del facile arricchimento tenterà il protagonista fino a fargli perdere ogni certezza. Il romanzo è questo che vuole raccontare, la difficoltà di trovare l’equilibrio tra forze contrapposte, le prime nascono dentro noi stessi e sono le scelte che ci portiamo dietro per educazione, credo religioso, formazione culturale, tutte messe in discussione dalle tentazioni che ci aggrediscono dall’esterno, la seduzione del potere, la forza del denaro, la nostra incapacità di resistere al piacere e alla vanità dell’apparire.     

Quando?

Il progetto del romanzo è piuttosto recente, risale a pochi anni fa, diciamo a due o tre anni fa. Inizialmente volevo scrivere una storia tra giallo e noir, ma quasi subito mi è piaciuta l’idea di far prevalere la condizione del protagonista sulla vicenda narrata, e di far descrivere in prima persona allo stesso protagonista l’evolversi della sequenza narrativa. Penso che per uno scrittore sia fondamentale la gioia del raccontare, e quando questa gioia è presente il lettore l’avverte e diviene comune. Penso alla gioia con cui Boccaccio ha scritto i racconti del Decamerone che ho riletto di recente, la si avverte immediatamente e diviene contagiosa, come anche alla gioia del raccontare che trovo nelle Mille e una notte, che ho letto molto giovane e che rimane uno dei libri più belli e potenti che abbia mai incontrato.     

Dove?

Ho scritto Nel mio futuro non ti porto in circa sei mesi, ma poi ho impiegato due anni buoni per riprenderlo e sistemarlo nella versione finale. Ho lavorato soprattutto al ritmo del libro, perché non avesse tentennamenti e incoerenze, evitando che i dialoghi implodessero nella banalità di una brutta sceneggiatura, come registro in molti romanzi che oggi si leggono. In tutto questo sempre cercando di rimanere legato al canovaccio narrativo che mi ero prefissato.

Perché?

Premetto che occorre sempre rispettare il lettore, e quando dopo le prime venti o cinquanta pagine decide di chiudere per sempre un libro dobbiamo avere rispetto. E poi a chi non è capitato? Penso che uno scrittore debba cercare la complicità del proprio lettore, debba tentare una specie di seduzione amorosa, a partire della descrizione di un mondo che il lettore riconosca a sé familiare. Spero che questo lavoro costituisca la rappresentazione del nostro tempo dall’angolazione, molto particolare, di chi esercita la professione di avvocato, che è il mestiere che pratico e col quale mi guadagno da vivere.  

Scelti per voi

Stasera non piove, ma c’è tanto freddo. E la voglia come sempre di non tornare a casa. Eppure con Maria le cose, in passato, sono andate diversamente. Maria un tempo fu la mia passione, totale, esaltante, devastante. La conobbi una notte di capodanno, a casa di una mia cugina, e subito mi parve la cosa più bella del mondo. C’era freddo anche quella sera, si cantava e si beveva vicino al caminetto aspettando che nascesse il nuovo anno. Vestiva un maglione verde e dei jeans attillatissimi che disegnavano curve promettenti e morbide anse. Si avvicinò e sfiorò i capelli corvini al mio volto. Annusai il suo profumo e volli che quel profumo fosse tutto per me. Mille paure e mille desideri attraversavano il mio cuore. Gli amici, il mondo, ogni cosa svanì attorno a me, e quando a mezzanotte mi augurò buon anno baciandomi sulla guancia mi sembrò di impazzire, di nascere e poi di morire.

Con Maria ho passato molti anni felici, con lei ho avviato la mia professione, ho sognato una casa tutta per noi, e poi quando il lavoro ha preso a ingranare ho comprato una modesta villetta in collina, dove andavamo a rifugiarci ogni fine settimana. Andavamo a rifugiarci per sfuggire al caos della città, ai rumori, alla invadenza dei parenti, alle madri asfissianti, a tutti coloro che vogliono dare buoni consigli. Poi ci siamo sposati. Sul comò in una cornice d’argento la foto di noi che usciamo dalla chiesa. Nella foto siamo radiosi, non sembriamo neanche noi. E poi, dopo un paio d’anni, nasce Martino. Le notti in bianco per le colichette, i pomeriggi per le visite di controllo dal pediatra, un sospetto soffio al cuore, i dentini che spuntano, il gel da stendere sulle gengive, il primo compleanno. E poi… possibile che tutto sia finito? Quando scoprii la sua relazione con un suo collega di banca, sposato e con tre figli, era già tutto finito da un pezzo, e io non me ne ero proprio accorto. Mi disse che era soltanto una questione di sesso, perché con me non si sentiva più una donna, che con me non aveva da tempo più orgasmi. Mi disse che ero un egoista, che ero schiavo del mio lavoro, che non c’ero mai, che vivevo soltanto per me. Per me. E dire che avevo fatto sacrifici enormi, mi ero quasi ammalato, per dare alla nostra famiglia una tranquillità economica. Ascoltai le sue parole con incredulità distaccata, come se stessi sognando, come se quello che mi diceva non stesse accadendo a me, come se vivessi un’allucinazione.

Che fare? Maledizione, che fare? Con Martino che aveva soltanto tre anni. Che fare? Andai via da casa, piansi per giorni, da solo. Mi passarono davanti agli occhi tutte le storie degli uomini e delle donne che in quegli anni avevo aiutato a separarsi e a divorziare. Mi trovai improvvisamente in mezzo a loro. Ciò che Maria mi rimproverava era più o meno quello che tutte le mogli rimproverano ai mariti. Mi trasferii nella mia villetta in collina, mi mancavano la mia casa e soprattutto mio figlio. Le notti erano silenziose, mi agitavo nel sonno come se il pianto di Martino mi dovesse svegliare da un momento all’altro. Al risveglio ero completamente solo, completamente infelice.

 

*

 

Ho voglia di parlare con Martino, ma non c’è verso. E in questa notte che non dormo entro nella sua stanza. Lui non c’è, e chissà dov’è. Potrebbe essere in galera, o morto, non lo so. Sua madre lo copre e lo difende. Mi dice che dorme da amici. Ma quali amici? Non lo vedo mai, non viene neppure la domenica. E dire che sono cresciuto all’idea che la domenica dovevo lasciare qualsiasi impegno per sedermi a tavola con mio padre e mia madre. Altri tempi. Un’altra vita.

Quali amici? Sul suo letto il poster della nazionale di calcio campione del mondo nel 2006. Accanto al cuscino il peluche di Gatto Silvestro, un regalo di quando aveva cinque o sei anni. Il tavolino con il computer, un piccolo televisore e la Playstation. Su una mensola i suoi compact-disc musicali con cui è cresciuto, e due automobiline con cui giocava da bambino. Maria dice che dorme da amici, ma non ci credo. Non lo vedo da settimane, forse da mesi, e io stasera ho la disperata nostalgia di quando gli cambiavo i pannolini. Accarezzo le sue cose, ed è come accarezzare lui che non mi pensa e non mi cerca perché è chiaro che io sono il suo passato, per lui io sono estinto.

Ed ecco i raccoglitori dei suoi disegni. In tanti anni non li ho mai visti. Non ne ho mai avuto la curiosità. Apro una carpetta a caso. Un seno. Sfoglio. Altri seni, ancora seni, di donne senza volto. Apro un altro raccoglitore, seni, seni e ancora seni. Piccoli, enormi, flaccidi, minuti di adolescente, con capezzoli quasi invisibili, altri con capezzoli grandi come una castagna. Cosa significa? Perché? Un’altra carpetta e un’altra ancora. Seni, cento, mille seni, delicati, deformi, a pera, a palla, altri appena accennati da bambina. Perché? Perché?

 

 

Renato Pennisi è nato a Catania nel 1957. Tra le sue pubblicazioni romanzi, testi teatrali e alcune plaquettes di poesia con le Edizioni l’Obliquo.  Con Interlinea ha pubblicato i libri di poesia La notte (2011), Pruvulazzu (in dialetto siciliano 2016), e L’impazienza (2019).

Con Gualtiero De Santi ha curato il saggio-antologia Dalle carte dell’isola. Il libro della poesia neo-volgare siciliana oggi (Carabba 2021). Il suo ultimo romanzo è Nel mio futuro non ti porto (Interlinea 2022).

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