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Chi?
La Sicilia possiede una storia plurimillenaria che – con un ininterrotto susseguirsi d’innumerevoli forme di governo che nel corso degli anni, promulgando leggi su leggi – ha contribuito allo sviluppo identitario del popolo siciliano; l’isola è diventata come un laboratorio d’esperienze storiche, prodromiche per uno sviluppo più attento e sostenibile sia di tutto il continente europeo sia dei paesi che insistono sulle coste del mar Mediterraneo. Le diverse civiltà in essa avvicendatesi, da quella greca alla disastrosa spedizione ateniese contro Siracusa e Agrigento che distrusse quasi totalmente i meravigliosi templi greci sia dell’omonima valle sia di Selinunte e Segesta, da quella cartaginese a quella romana dopo le guerre puniche, da quella arabo-saracena a quella normanna, dai Barbari agli Spagnoli, dagli Angioini e Aragonesi ai Borbone, hanno fatto della Sicilia un territorio nel quale ogni presenza straniera ha lasciato un segno indelebile del proprio passaggio, contribuendo all’evoluzione culturale del popolo siciliano. I siciliani sono, come ogni popolo, ma forse ancora più marcatamente d’altri per la natura specifica della loro terra, trattandosi di un’isola, un popolo plurale. Sono molti e uno insieme. Sono un popolo, ma sono molti popoli. Come una e molteplice è la loro isola. Quante Sicilie esistono? Si chiedeva lo scrittore Gesualdo Bufalino, e non poteva che rispondere: “Molte”. “Vero è che le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle: vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava; vi è la Sicilia babba, cioè mite, fino a sembrare stupida e la Sicilia sperta, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode; vi è una Sicilia pigra e una frenetica, una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale e una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso d’abbagliato delirio…”. Di tutte queste Sicilie e dei molti modi d’essere siciliani abbiamo cercato di offrire un repertorio straordinario e coinvolgente, attraverso un testo di storia della Sicilia, ma anche di storie dei siciliani.
Cosa?
Una galleria di fatti e personaggi da leggere dall’inizio alla fine, o dalla fine all’inizio, o cominciando in un punto qualsiasi e prendendo qualsivoglia direzione, verso il passato o verso il presente. Una galleria di racconti dentro cui passeggiare, lasciandosi guidare solo dal piacere della lettura e della scoperta o riscoperta d’avvenimenti, personaggi, luoghi. Non manca l’indagine storica, ovvero la ricerca di quegl’indizi che possono comporre un quadro storico attendibile e condivisibile della Sicilia. Un’Isola, raffinata ma al contempo selvaggia, ammantata sia di tenebrosità sia di solarità, divisa tra ascetismo e paganesimo che quasi si fondono in un dualismo atavicamente inscindibile. In essa convivono tutte le contraddizioni: la violenza mista a una spiritualità incarnata; una sublime bellezza che spesso è stata deturpata nelle sue forme più armoniose; l’opulente ostentata ricchezza che coesiste con una tangibile miseria capace di pregiudicare seriamente la dignità morale o sociale d’un’intera comunità; una voglia di riscatto come reazione a un angosciante dolore vissuto sulla propria pelle. Essendo stati molti i popoli che l’hanno contesa, è diventata essa stessa un coacervo di religioni, usanze e quant’altro che l’hanno resa il centro propulsore di quella che, poi, è diventata la cultura che ha permeato l’intera Europa. Vi cuntu chiddu ca sacciu (vi racconto quel che so) con un “taglio” giornalistico e quasi romanzato, sempre supportato dalla ricerca archivistica e dalla lettura di autorevoli storici, noti e meno noti. Pagine sparse… Storia e storie di Sicilia, in realtà, raccoglie una serie di saggi, che seguono rigorosamente la linea del tempo, apparsi (nell’arco di oltre due lustri) sulla “terza pagina” del settimanale regionale Gazzettino di Giarre (oggi Gazzettinonline), su Effemeridi e su altre testate. Non avendo un carattere “accademico”, ma semplicemente divulgativo, è stato ridotto al minimo l’uso delle note, mentre i corsivi delle citazioni provengono dagli originali consultati. Sotto ogni titolo è presente un occhiello introduttivo, a volte, riporta un aforisma d’illustre autore, altre volte, (ove manca l’autore) è una nostra breve notazione.
Quando?
In un periodo particolarmente problematico della mia vita, tra il 2016 e il 2017; per non deprimermi, sollecitato da diversi amici, in modo particolare dal collega Domenico Cacopardo (docente di Storia e Filosofia, che curato la presentazione dell’opera), ho cominciato a catalogare, ritoccare e scriverne di nuovi, tutti i miei saggi storici, per inserirli in uno o più volumi, che in realtà sono diventati quattro. L’idea l’avevo accarezzata da tempo poiché i lavori giornalistici finiscono sempre nell’oblio. Il desiderio imperante era di affidare la pubblicazione a un editore siciliano, competente di storia e coraggioso: l’ho trovato in Algra Editore. Poi, gli anni del covid ci hanno consentito di curare i volumi nei minimi particolari, corredandoli di foto provenienti dai migliori archivi fotografici pubblici e privati. Una particolare gratitudine va ai prefatori: Luigi Simanella, Nino Prastani, Orazio Mellia, Sr Ivana Sanfilippo Scimonella; alle correttrici delle bozze: Agata Donzuso e Carmelinda Villeri; a Zelinda Di Gricoli e a Mirella Pappalardo che coordinano l’organizzazione delle presentazioni dell’opera.
Dove?
Nel mio studio-biblioteca, tra i faldoni dei documenti rinvenuti negli archivi storici isolani e nazionali, dove mi ritrovo sempre la sera ad interrogare le mie fonti dirette e indirette. Soprattutto nelle ore notturne mi dedico alla riflessione e alla scrittura. La mattina presto, prima di recarmi al lavoro, rileggo quanto scritto precedentemente.
Perché?
In un’epoca di imperante globalizzazione è facile perdere la memoria del proprio passato, soprattutto se di esso si conosce ben poco. L’essere “cittadini del mondo” non significa rinunciare alla propria identità, ma promuovere e coniugare positivamente le diversità. Purtroppo, una damnatio memorie impera da oltre 160 anni sulla Sicilia e i siciliani, consolidando l’assunto che l’Isola sia sempre stata una colonia con un popolo incapace e sottomesso. Di conseguenza è risultato facile ridurre i lemmi Sicilia e siciliani a sinonimi di povertà economica, culturale e spirituale; arretratezza; sottosviluppo; assistenzialismo… e se poi si aggiunge mafia e mafiosità, non rimane più nulla di salvabile. Per cancellare un popolo basta togliergli la lingua parlata e la memoria storica: perderà l’indentità e l’orgoglio di essere. Infatti, abbiamo perso tutto! Siamo stati deculturalizzati, desicilianizzati e colpevolizzati; e tutto ciò è avvenuto con la complicità della classe politico-dirigente siciliana. Come spiega il giornalista Pino Aprile (nel suo Terroni, ed. Piemme 2010): “È accaduto che i meridionali (nel caso nostro, i siciliani) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”. Verosimilmente, proprio per nascondere questa presunta “vergogna” abbiamo preferito studiare (leggasi: siamo stati costretti), la storia scritta dai vincitori – su manuali pubblicati altrove –, relegando la storia della nostra Isola nel dimenticatoio, quasi come atto d’abiura identitaria. Dopo il 1860, i siciliani abbandonarono subito le grandi speranze suscitate dalla “invasione” e dalla successiva e incondizionata annessione al Regno del Piemonte. Si accorsero, presto, che le speranze riposte nelle nuove etichette politiche si rivelavano per quelle che effettivamente erano, e cioè, etichette straniere nuove appiccicate ai soliti e vecchi vasi», e in una logica gattopardiana era proprio necessario che tutto cambiasse affinché tutto restasse come prima. La stessa cosa è accaduta all’indomani della promulgazione dello Statuto Siciliano (15 maggio 1946), vero patto tra la Sicilia in armi contro lo Stato italiano, concesso solamente per fugare una possibile secessione e non per migliorare le sorti politico-economiche dell’Isola. Non si spiegherebbe altrimenti la mancata emanazione dei decreti attuativi – riguardanti soprattutto gli articoli più sostanziali –, che attendiamo da ben 77 anni. E, guai a parlarne… si viene subito tacciati di eresia! Mi auguro che l’intreccio storico costruito da vite di uomini, da fonti documentali e bibliografiche, risulti avvincente e dia, nel contempo, a ciascun lettore le risposte più “interattive e immediate” sui grandi personaggi e sui fatti salienti della storia di Sicilia, dalle origini e fino ai giorni nostri e con uno spazio dedicato alla Cultura popolare, alla religiosità e al folklore. Infine, i volumi Storia e storie di Sicilia, ponendosi in sintonia con la ratio della Legge Regionale n. 9, del 31 maggio 2011, “Promozione, valorizzazione ed insegnamento della Storia, della Letteratura e del Patrimonio Linguistico siciliano nelle scuole”, rappresentano un sussidio per docenti e studenti e per quanti hanno voglia di “conoscere per riconoscersi”. Turpe est in patria vivere et patriam ignorare, (Plinio il Vecchio).
Fenici, Greci e Romani (Primo Tomo)
(…) Particolarità dei greci di Sicilia, così come anche nella comune terra d’origine, era il frequente dissidio fra loro stessi e le conseguenti guerre fra le città siceliote. Se, infatti, esse trovavano spesso una certa convergenza e compattezza per combattere contro i comuni nemici, per il resto erano sovente in lotta fra di loro. Per tale motivo non riuscirono mai a unificare l’isola in un solo grande Stato, preferendo le “Città-Stato”.
Come già annotato, sicelioti e cartaginesi furono in guerra quasi permanentemente. I sicelioti fecero di tutto per conquistare le terre d’occidente e similmente i cartaginesi provarono sempre a conquistare le terre d’oriente.
Questo interminabile conflitto durò circa 300 anni. Particolarmente celebre è rimasta nella storia la battaglia di Imera (480 a.C.), un vero trionfo per i sicelioti che, nel trattato di pace, imposero ai cartaginesi l’abolizione dei sacrifici umani, presenti nei loro riti religiosi.
Intanto, per la prima volta nella storia della Sicilia, il principe Ducezio (Noto, 488 — Caronia, 440) provò a creare una federazione tra le città dell’isola sotto la guida d’un solo re costituzionale. Egli dominò la scena politica e militare per più di 10 anni e fu l’antesignano di tutti coloro che, nei secoli e nei millenni futuri, avrebbero promosso iniziative per fare della Sicilia uno Stato sovrano e un territorio a disposizione solo dei siciliani.
Morto Ducezio, ogni città tornò nel proprio particolarismo e la Sicilia fu nuovamente esposta alle ambizioni degli stranieri.
La coscienza della comune patria siciliana ricominciò a germogliare circa vent’anni dopo, soprattutto nella parte orientale dell’isola, quella culturalmente più evoluta.
A Gela, considerata storicamente la prima “capitale” della Sicilia, nell’anno 424 a.C., si tenne il congresso costituente d’una federazione tra tutte le città dell’isola per stabilire una pace stabile e per creare un esercito comune contro le aggressioni nemiche.
Lo stratega siracusano, Ermocrate, tenne per l’occasione un discorso memorabile, che sanciva l’identità nazionale del popolo siciliano e così concludeva: “Non è vergogna per uomini che abitano la stessa Patria scendere a qualche concessione reciproca tra genti vicine che abitano il medesimo suolo, lambito dal mare e distinto da un unico nome di popolo, sicelioti.Stringiamoci compatti sempre a far barriera, se siamo ragionevoli, contro Genti Straniere che si avanzino con propositi aggressivi. Potremo in seguito godere d’assoluta autonomia, tra noi, senza il terrore costante d’un agguato straniero. Nè dori, nè joni, ma siculi! (…) anche se di diversa origine, siamo tutti siciliani. E da secoli questa beata isola noi tutti abitiamo. Dunque, un solo vincolo di pace perpetua ci unisca. Se abbiamo senno, sempre uniti respingiamo gli stranieri (…) La qual cosa facendo (…) la libereremo ora dagli Ateniesi e dalla guerra fra noi stessi e per il futuro la possederemo libera per noi stessi e non soggetta alle insidie degli altri” (…).
I lager dei Savoia (Secondo Tomo)
Dopo la resa di Gaeta e la capitolazione della Cittadella di Messina e di Civitella del Tronto, circa sessantamila soldati del valoroso esercito duosiciliano furono deportati, dai “liberatori” savoiardo-piemontesi, nei campi di concentramento del nord con l’intento di “rieducarli” e la speranza di recuperarli. La loro unica colpa era soltanto quella di rispettare il giuramento di fedeltà prestato al loro sovrano e alla loro bandiera. Gli fu chiesto di rinnegare la loro patria, anche se invasa senza nessuna dichiarazione di guerra da un esercito straniero, e di servire il nuovo Re Vittorio Emanuele.
Pochissimi lo fecero, mentre altri preferirono patire “tutti coperti di rogna e verminia” come scrisse Alfonso Ferrero La Marmora. Per questo furono inviati nei lager di Bergamo, Milano, Alessandria, San Maurizio Canavese e Fenestrelle.
Specialmente Fenestrelle, piccolo centro di Torino situato a milleduecento metri sulle Alpi, luogo impervio, divenne la tomba dei soldati duosiciliani, cittadini del sud definiti “razza maledetta” secondo la teoria di Alfredo Niceforo oppure “razza degenerata” secondo la formulazione di Cesare Lombroso, studioso d’origine ebraica, che teorizzò per i meridionali l’enunciazione del “delinquente nato per regressione atavica”.
A Fenestrelle si giunge attraverso un irto sentiero: è la “Via dei Siciliani”, così la denominarono all’epoca gli abitanti del luogo, per indicare una “via senza ritorno”. Il gulag dove ancora oggi è visibile l’iscrizione: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” (ricorda quella di Auschwitz) fu costruito dai Savoia alla fine del settecento per rinchiudervi gli oppositori politici, come il cardinale Bartolomeo Pacca.
(…) Come evidenzia Lorenzo Del Boca in Maledetti Savoia: “Le vittime dovettero essere migliaia anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo. Morti di nessuno. Terroni”.
Nel campo di concentramento di Fenestrelle furono deportati i soldati “terroni” che avevano dichiarato aperta resistenza ai piemontesi: tra vessazioni inaudite molti di essi cessavano di vivere e i loro miseri corpi venivano gettati, “per motivi igienici”, in una vasca ricolma di calce viva (onta della cultura progressista piemontese). (…)
A Portella della Ginestra cambiò la storia d’Italia (Terzo Tomo)
(…) La rilettura dei fatti di Portella della Ginestra, considerato ciò che è emerso dall’analisi dei recenti documenti americani desecretati, ci porta a concludere che quanto per tanti anni si è dato per scontato non è più credibile. Ciò rende doveroso un severo accertamento sulle complicità e sulle responsabilità che determinarono tanti delitti.
In realtà, la strage di Portella della Ginestra e la serie di attentati che la seguirono assumono via via i connotati di una “Strage di Stato”. Di uno Stato, la cui sovranità viene limitata e calpestata dalla prevaricazione dei Servizi Segreti degli Stati Uniti, interessati più che mai a tutelare la loro leadership sull’area mediterranea.
In questo quadro di squallidi intrecci tra politica, mafia, Servizi Segreti Italiani e Americani, si esaurì l’avventura del bandito Salvatore Giuliano, che a soli 28 anni non poteva comprendere la pericolosità del grande gioco nel quale era stato coinvolto, non già come protagonista, ma oggetto d’una trama che veniva da lontano.
Fu ucciso a tradimento, secondo la versione ufficiale, nella notte tra il 4 e il 5 luglio 1950.
Di fatto, Giuliano venne assassinato almeno 24 ore prima che il suo cadavere fosse portato nel cortile dell’avv. Gregorio Di Maria a Castelvetrano, dove il capitano dei carabinieri Antonio Perenze, sotto l’abile regia del colonnello Ugo Luca, inscenò il falso conflitto a fuoco.
(…) Gaspare Pisciotta, detto Aspanu, condannato ingiustamente pur essendo estraneo ai fatti di Portella, a sua volta venne avvelenato nel carcere di Viterbo il 9 febbraio 1954, dopo aver preannunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage.
Eliminato il luogotenente di Giuliano, seguì una serie di morti misteriose. Nell’arco di un decennio, furono assassinati o si suicidarono tutti i depositari dei segreti di Portella della Ginestra.
(…) Alla richiesta di verità fu contrapposta l’ “Omertà di Stato”, che da quel momento avrebbe influito nella vita della nascente Repubblica, consolidando la machiavellica “Ragion di Stato”, in nome della quale si può fare qualsiasi cosa. Inevitabilmente, l’uccisione di Giuliano e l’inchiesta sulla strage di Portella vennero subito dichiarate “Segreti di Stato”.
In Sicilia… la chiave di tutto! (Quarto Tomo)
Nonostante l’integrazione del modo di vivere e del costume nel progressivo appiattimento generalizzato della società contemporanea, religiosità, arte, usanze e tradizioni rimangono elementi determinanti per la conoscen-za dell’isola e dei suoi abitanti. Si conserva ancora nella vita del Popolo Siciliano un peculiare folklore identitario che, attraverso espressioni molteplici, riecheggia le mescolanze d’antichi popoli e gli incroci di etnie diverse.
Il continuo inserimento di nuove civiltà ha creato una sedimentazione di credenze, riti, modi d’essere, canti, che, tramandati per lo più oralmente, testimoniano il vasto patrimonio di cultura popolare diversificato, ma convergente, nei tratti essenziali delle differenti aree geografiche isolane.
In Sicilia, religiosità e folklore sono vissuti in tutte le loro manifestazioni. In essi si fondono e s’intrecciano fantasia e realtà, paganesimo e cristianesimo, superstizione e incredulità, gentilezza e prosaicità, mondo antico e mondo moderno. Tutto è storia nella religiosità e nel folklore dei siciliani.
I normanni infusero nel popolo uno dei sentimenti più forti e radicati: il senso della cavalleria che, ancora oggi e soprattutto con l’Opra dei Pupi e con la decorazione dei carretti, genera espressioni artistiche d’insospettata potenza e rara raffinatezza.
Le multiformi tradizioni popolari sono, nella più parte, chiari esiti dello stratificarsi di culture diverse: greca, latina, bizantina, araba, normanna, francese, spagnola, le quali nel tempo hanno connotato l’etnos di vere e proprie giustapposizioni sincretiche.
Col diffondersi del cristianesimo, alle formule indicanti divinità e azioni da esse compiute, se ne sostituirono altre aventi come personaggi i Santi e la Sacra Famiglia o Dio stesso. Da qui il popolo, non distinguendo fra preghiera – che è soltanto un’invocazione a Dio o a un Santo – e scongiuro – la cui recita, secondo credenza, determinerebbe ciò che l’individuo desidera – chiama anche gli scongiuri preghiere, laddove essi tali non sono.
(…) Le sovrapposizioni di culture diverse emergono pure nel dialetto, non tanto in quello letterario (vera e propria lingua), quanto in quello parlato che si rifrange nelle molteplici vulgate, a parte le vere e proprie “isole” linguiste greco-albanese e gallo-italica. (…)
Salvatore Musumeci (in copertina nella foto Studio Fotografico Russotto – Zafferana Etnea), nato a Santa Venerina (Ct) nel 1958, oltre agli studi Umanistici e Artistici, Maturità Classica, Maturità Magistrale, Diploma di Magistero Musicale, ha conseguito la Laurea in Scienze Politiche, prediligendo l’approfondimento delle materie storico-sociali. Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo “Federico De Roberto” di Zafferana Etnea Ct (già Dirigente dell’I.C. “Cardinale G. B. Dusmet” di Nicolosi Ct e docente nella scuola dell’obbligo), svolge anche attività didattico-musicale – Maestro Direttore e Concertatore della “Royal Horchestra” (orchestra sinfonica); condirettore del Corpo Musicale Intercomunale (Mascali, Fiumefreddo di Sicilia, Santa Venerina) “Orchestra d’Armonia della Contea” – e pubblicistica. Molte sue composizioni sono state incise, date alle stampe e utilizzate come commento musicale di cortometraggi culturali (documentari). Suoi saggi storici e sociologici sono stati pubblicati da diverse testate giornalistiche regionali e nazionali. Ha realizzato le monografie: Il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, L’Altra Sicilia, Bruxelles 2003; Tra Separatismo e Autonomia, Armando Siciliano Editore, Messina 2005; Voglia d’Indipendenza, Armenio Editore, Brolo (Me) 2012; Conoscere Santa Venerina, coautore Salvatore Raciti, edito dal Comune di Santa Venerina (Ct) 2016; Conoscere Nicolosi – Porta dell’Etna, Chiesa graphic & print, Nicolosi (Ct) 2020; Chista è Sicilia! (e altri, a cura di), I.C. “F. De Roberto”, Zafferana Etnea (Ct) 2021. Cultore di Storia Contemporanea del Meridione e di Storia della Sicilia è stato allievo e collaboratore dello storico Mauro Canali, dell’Università di Camerino (Mc) e membro del Comitato Scientifico di Rai Storia. Dal 1998 al 2003, ha ricoperto la carica di Vice Presidente e di Presidente ff. del Consiglio Comunale di Santa Venerina. Dal giugno 2003 al gennaio 2007, è stato Vice Sindaco e Assessore alla Cultura, Sport, Turismo e Spettacolo, e ha ideato e promosso l’istituzione del Premio Internazionale di Giornalismo “Maria Grazia Cutuli”, ottenendo l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Ha fatto parte del cast artistico-scientifico – insieme a Carlo Ruta, Stefania Limiti, Giuseppe Sciortino Giuliano, Fabio Delicato, Leonardo Epifaro, Antonino Terranova, Catalin Tutu – per la realizzazione del film documentario Il Padrino del Bandito Giuliano, con la regia di Ieva Lykos, prodotto da Carlo Fusco nel 2017.