#1Libroin5W.: Valentina Durante, “Enne”, Voland.

#1Libroin5W

Chi?

Il protagonista di “Enne” ha un desiderio tanto semplice quanto impossibile: non soffrire mai. Ora, quand’è che si soffre? Quando si produce una divaricazione fra la realtà per come la vorremmo e la realtà per come essa è realmente. Un fallimento lavorativo, la mancanza di denaro, la malattia della madre o del padre o di un figlio, la disistima di coloro che stimiamo… sono tutti eventi di un mondo nel quale non vorremmo trovarci mai a vivere. Ma più di tutto, la realtà per come non vorremmo che fosse è quella dove la persona che amiamo scompare per sempre. E dunque può venirci una tentazione, anche questa tanto semplice quanto impossibile: quella di avere il controllo di ogni singolo piccolo pezzo della nostra esperienza – fisica e mentale – per avere l’illusione che tutto dipenda da noi, in una soppressione generale del caso. Però no, vi ho mentito. Questo secondo desiderio non è veramente impossibile. C’è un’occasione – una soltanto – in cui abbiamo facoltà di realizzarlo, ed è quando inventiamo una storia.
L’inventore di storie ha un dominio completo sulla materia che inventa. È il dominus del mondo da lui concepito. È ciò che fa il protagonista di “Enne”: accanto a una scansione meticolosa delle proprie giornate, egli vive nelle storie e attraverso le storie che racconta a sé stesso. Si tratta di mondi conchiusi, perfetti e perfettamente privi di sofferenza. E anche laddove una sofferenza si produce, questa può essere addomesticata con facilità da una mente controllante. Persino il trauma peggiore – la perdita della persona amata – è rivissuto (o forse solo fabbricato o prescritto) attraverso una narrazione che lo disciplina; è la differenza tra la paura che proviamo precipitando da un grattacielo senza speranza di salvezza, e la paura – viscerale, sì, ma consolatoria – che ci prende quando sprofondiamo in un giro di montagne russe. La perdita è accaduta realmente? È davvero morta la donna che il protagonista avrebbe dovuto sposare? Lo scopriremo alla fine, oppure non lo scopriremo affatto, ed è questo il bello delle storie: sono una fantasia dell’autore che diventa forma, ma sono anche una forma che ridiventa fantasia nella mente di chi legge o ascolta.

Cosa?

Dunque il “cosa” di “Enne” è una realtà fittizia al pari di quelle che inventa ogni narratore. E, come accade in narrazione, questa realtà non è solo una concatenazione di eventi ma anche l’imporsi di un preciso mondo mentale. Leggere “Enne” significa trascorrere una certa quantità di tempo in compagnia di un uomo che, forse, non inviteremmo neanche per un caffè: ossessivo, saccente, trincerato nelle proprie abitudini e convincimenti, sarcastico, debole ma prevaricatore e – nella scorza morale – profondamente abulico. È un uomo che conosciamo in un tempo di narrazione che non è, per quanto lo sembri, lineare; somiglia piuttosto a quella “quarta dimensione” che i cubisti cercarono di rappresentare bidimensionalmente: un oggetto ha tre dimensioni da un punto di vista, ma se me lo giro tra le mani, o se ci giro attorno, il mio punto di vista cambia e per rappresentarlo ho bisogno di una diversa prospettiva. La realtà dell’oggetto è dunque, in potenza, un numero infinito di prospettive da infiniti punti di vista. In questo senso, la donna col basco è un secondo punto di vista che apre a una seconda realtà possibile. Il “cosa” viene reinventato: la mensola di ciliegio diventa un ciliegio appesantito dai frutti; il finestrino di un treno intorbidato dalle luci – bianche, gialle, rosse – diventa un finestrino rigato dalla pioggia che cade; i pacchi che contengono gli oggetti-simboli diventano le scatole che accolgono i libri per il trasloco; un incidente che uccide diventa un incidente che salva; un insetto liberato e proiettato fuori dalla finestra diventa un insetto schiacciato contro una parete… eventi ed esistenti che compongono la storia raccontata dal protagonista si ricombinano nella storia della donna col basco per dare vita a un diverso organismo narrativo. E allora, è davvero l’autore delle lettere a inventare il Doppelgänger di sé stesso e la donna col basco? Oppure è la donna col basco che inventa lui e di conseguenza sé stessa? La visione più prossima a questo “cosa” è forse, più ancora che un quadro cubista, quel che si produce quando poniamo due specchi uno di fronte all’altro e un soggetto nel mezzo. Il soggetto è riprodotto all’infinito e non potremmo dire a quale realtà appartenga, se allo specchio di destra oppure allo specchio di sinistra. Infatti, irretiti dall’illusione, non ci viene naturale di cercarlo nello spazio esterno agli specchi, ossia nella realtà. La sua esistenza materiale è proprio ciò che non vediamo.

Quando?

C’è un aneddoto risalente al febbraio del 2016: un giorno, leggendo il giornale, mi sono imbattuta in un trafiletto che parlava del “primo codista d’Italia”. Mi sono incuriosita, ho fatto delle ricerche ma soprattutto ho cominciato a pormi delle domande: cosa significa accarezzare le vite degli altri – di molti altri – senza mai poterle penetrare? Forse, mi sono detta, per farsi contenitore tanto neutro e capiente – il “guscio” della donna col basco – bisogna svuotarsi rinunciando ad avere una vita propria. Si vive delle vite altrui che diventano così di nostra appartenenza. L’assonanza di questo pensiero con ciò che fa il narratore è stata inevitabile: anche il narratore, mentre inventa, si appropria di una vita che sta fuori da lui – eventi che spesso riguardano altri, e che altrettanto spesso sono solo ascoltati, visti da lontano, letti – e che, una volta re-immaginata, diventa vita dentro di lui – la storia che egli inventa e possiede.

Dove?

Le mie storie – almeno quelle che ho immaginato e scritto finora – nascono, crescono e vivono sempre nello stesso luogo: una gabbia. Può trattarsi di una casa anche accogliente, con un bel giardino, bei mobili e belle tendine alle finestre, un edificio con muri visibili oppure inesistenti; può trattarsi di un legame affettivo: tra coniugi, amanti, fratelli, figli e padri e madri; oppure può essere la prigione di un rituale ossessivo come è la disposizione su una mensola di ciliegio di dieci vasetti di vetro, sera dopo sera, misurando le distanze fra un vasetto e l’altro, come se una singola, minima distanza scorretta avesse il potere di incrinare l’universo producendo una frattura e scagliandoci fuori, nel mondo inumano. Ma se c’è un carcere deve esserci anche un carceriere. Ora, il vedersi carcerieri di sé stessi è di norma difficile (anche nella vita) e ci riesce di rado; preferiamo affidare questo compito a qualcun altro, o a qualcosa d’altro: una persona, un amore, una passione, un ideale (vero, falso) una paura o – come in “Enne” – un trauma.

Perché?

Perché dalla gabbia, per vivere, bisogna uscire. Mi sembra che un buon percorso di avvicinamento sia quello di immaginare una scarcerazione.

 

scelti per voi

A un’ora che non saprei dire mi sono buttato a letto, sudato, tremante, ancora con i vestiti addosso, nella speranza di addormentarmi. Non mi sono addormentato. Mi sono buttato a letto sperando che il sonno, nel suo abbacinante nero, potesse vincere i mezzi toni della mia vita di prima, la vita che avrei voluto annientare assieme al mio annientamento e che invece non si annientava affatto. Il mio annientamento era una burla, una buffonata, perché la mia vita di prima continuava a riprendermi, ad agguantarmi come si agguanta un gatto rognoso per la collottola. Quando ho sentito la nausea premere alla bocca dello stomaco sono corso in bagno e, come tutte le altre sette sere, ho vomitato. Ho vomitato non sulle mattonelle tiepide del mio appartamento di pregio, ma su quelle fredde e sporche dell’appartamento di Villa Zuccareda Binetti. Ho vomitato finché non ho sentito lo stomaco libero, anch’esso finalmente vuoto e bianco. Poi mi sono sciacquato la bocca, mi sono lavato i denti, mi sono ributtato a letto e ho fatto un lungo sonno fino al mattino, un sonno intorbidato dal niente.
Il giorno dopo ho gettato il resto della grappa nel lavello, ho pulito il bagno dal fango e dagli schizzi di vomito e ho saputo che non avrei più bevuto. Ho saputo anche che non avrei più tralasciato di dedicarmi, ogni sera, dalle ventuno e trenta alle ventitré e trenta, alla disposizione sulla mensola di ciliegio dei dieci vasi di vetro. Ho saputo che quella sarebbe diventata la mia occupazione. Ho saputo che l’appartamento di custode era veramente mio. Ho saputo che la mia vita di prima non lo era più. Anche la donna che avrei dovuto sposare non lo era più. Ho saputo che sarei rimasto, Enne, e senza più alcun rischio, perfettamente vuoto e bianco.

*

Guarderà di fronte a sé lo sbarramento dei pioppi, i semi lanuginosi precipitanti dai rami, danzanti, in controluce, leggero sciame diurno di lucciole spente. L’aria sarà piena del crepitio delle foglie e del verso inconsulto, potente, delle cicale, nell’illusione sonora di una presenza invece minima. Lui camminerà verso il pioppeto sentendo l’erba nuova frusciare sotto le scarpe, siederà sotto la prima chioma lasciando che i semi lanuginosi gli cadano addosso, che le lucciole spente si posino infine sulla maglietta e sulla pelle. I semi lanuginosi non faranno rumore, e per conoscerli dovrà stringerli fra le dita, polpastrello contro polpastrello, fibra contro carne, i piccoli semi che pungono appena contro la pelle. Le lucciole spente seguiteranno a cadere non sembrando più lucciole. Lui guarderà in alto: le foglie brulicano nell’aria (penserà lui, nel sogno, nel sonno), brulicano come i vermi rossi e gialli nella scatola di polistirolo, i pioppi brulicano contro il sole sputando lontano i loro semi marroni, eiaculando lontano da quella rumorosa massa fogliacea. E io mi lascio coprire dai semi dei pioppi (penserà lui, nel sogno, nel sonno), mi lascio fecondare dalla lanugine bianca, lo sperma di cotone dei pioppi s’incolla alla tela della mia maglietta (qualcuno s’impiglia fra i capelli), e dunque cosa succederebbe se restassi qui? Cosa succederebbe se scegliessi di non opporre resistenza? Io verrei coperto dalla lanugine bianca. Io soffocherei, nella lanugine bianca.

Valentina Durante

Nata a Montebelluna nel 1975, è copywriter e consulente di comunicazione freelance. Fino al 2009 ha lavorato come ricercatrice di tendenze coordinando per la Camera di Commercio di Treviso un gruppo di stilisti, designer, artisti, progettisti e fotografi. Il suo primo romanzo – La proibizione – è uscito nel 2019 per l’editore Laurana. Suoi racconti sono stati pubblicati nelle riviste “Altri Animali”, “Leggendaria”, “L’ircocervo” e “Vibrisse” e nella raccolta Polittico (Caffèorchidea, 2019). Dal 2019 collabora con la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi. 

Potrebbero interessarti