Alessio Boni: “Credo all’intelligenza del cuore. L’uomo è quello che fa”

 

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni con Luisa Mazza e Grazia Calanna. Foto di Pier Raffaele Platania.

Socievolezza, introspezione, giocosità. Sono i tratti distintivi dell’attore Alessio Boni. Recitando oltrepassa i confini dell’io. Si svuota per ricevere l’altro, e accogliendolo si dona. Lo abbiamo incontrato a Noto, nei Luoghi dell’Arte e dell’Espressività, nell’ambito della VI edizione del progetto culturale Nei Luoghi della Bellezza, ideato e diretto dall’artista Luisa Mazza. Insieme abbiamo intrapreso un viaggio tra piccolo schermo, cinema e teatro, per vagliarne affinità e confini. Il tutto soffermandoci su quest’ultimo termine, Confine, e ricordandone – come chiarito dalla stessa Mazza – l’accezione di punto più alto di osservazione (quindi un punto di apertura) per abbracciare con lo sguardo, contemporaneamente, più Luoghi di rara Bellezza. Quella bellezza che, come la poesia, testimonia la vita e, con essa, la nostra non rassegnata casualità nel mondo.

Nel 1990 il debutto come attore nel film “Il Mago” con Anthony Quinn. Ci racconti un aneddoto che ha contraddistinto questa prima esperienza? A distanza di 26 anni, pensando a quello che hai imparato (umanamente e professionalmente), cosa vorresti dire ai molti adolescenti contemporanei sempre più spaesati come il protagonista (Michele) in fuga da tutto e da tutti?

“Ero ancora in Accademia, non avevo esperienza, né cinematografica né teatrale, frequentavo il secondo anno quando mi dissero che mi avevano preso per fare questo film accanto ad Anthony Quinn. Un po’ ti tremano i polsi ma, nello stesso tempo, quando ci sono dei grandi innanzi ti predispongono per essere sciolto, per essere quello che sei. Mi ha dato tanti consigli. Ricordo un aneddoto bellissimo. Stava lavandosi ad una fontana (interpretativa il capo di un grosso giro di affari sporchi camuffato da povero venditore ambulante) quando, ad un certo punto, si perde nel cielo. Io pensando che essendo anziano si fosse dimenticato la battuta decisi di suggerirgliela col risultato che venni fulminato da due occhi verdi bottiglia. Mi disse: ‘Chico non hai capito niente’. Lui stava pensando, guardava un volo di gabbiani che andava di là, poi arrivava e poi faceva la battuta che era un pensiero interno che per me era (sembrava) una pausa spaventosa. L’abbiamo visto dopo sullo schermo, era perfetto. Questo per far capire che non bisogna sempre correre. A volte le sospensioni tenute ad intensità forte, come faceva lui che aveva già fatto tutto nella vita, valevano più di cinque pagine di copione. E da lì, piano piano, mi ha fatto capire tante altre cose. Quinn è uno dei maestri che incontri sulla via. E se hai la fortuna di incontrarli, la capacità di carpire quello che ti insegnano sono delle ricchezze enormi. Questa è stata la prima esperienza, il film era diretto da Ezio Pascucci; un’emozione interessantissima come potete immaginare. Ero ancora un ragazzino e avere Anthony Quinn accanto è stato un grande insegnamento ma proprio di vita, di trincea, non di teoria. La cosa più difficile per un attore quando esce dall’Accademia è che ha teorizzato tanto, ha fatto delle prove, ha provato coi suoi compagni, coi suoi maestri e, poi, davanti alla macchina da presa, in pochi secondi di scena, deve incanalare tutto, ci devono essere la scioltezza, la concentrazione… Io ero ancora acerbo però è andata; mi facevo aiutare da tutti, io sono abbastanza umile; l’umiltà credo sia una delle cose più importanti in tutte le professioni. Noi pensiamo sempre di avere una credibilità e una conoscenza superiore agli altri. Spesso non ci poniamo di fronte al ‘noi’ ma c’è sempre ‘io, io… io’. È una società un po’ dell’avvitamento dell’io: ‘come ho sofferto io, tu che ne sai. Io, io, io… Piacere, come sto?’. Dovremmo poter incominciare a parlare del ‘noi’. Senza non si va da nessuna parte. Se ci fermiamo al nostro avvitamento personale, al nostro egocentrismo, all’ascolto della nostra sola voce, non serviamo a niente, non diamo nulla”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni con Luisa Mazza e Grazia Calanna. Foto di Pier Raffaele Platania.

Nel 1992 ti diplomi all’Accademia nazionale d’arte drammatica con un saggio d’esame tratto dall’Amleto di William Shakespeare. A 400 anni dalla scomparsa dello stesso (avvenuta il 23 aprile 1616 – questa almeno sarebbe la data ufficiale) la domanda (sempre attuale) è d’obbligo: “Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine?”.

“L’Amleto di Shakespeare credo sia uno dei passi più riusciti della letteratura teatrale mondiale. È una riflessione molto forte sull’essere umano. La coscienza a volte ci rende vili perché se reagisci arriva un risultato, se non reagisci il risulto è l’opposto. E qual è la giusta via? Come porsi ? È un equilibrio che la vita ci insegna magari negli anni. Tutto l’Amleto parla del dubbio, del dilemma del dubbio. Il dubbio: prerogativa delle persone intelligenti colte e sensibili avere tanti dubbi. Di contro, credo, tra le cause della crisi moderna, si possa individuare la presenza di persone tra le più incolte, tra le più arroganti, tra le più stupide che continuano ad andare avanti con le certezze. Questo mi fa un po’ paura. Tornando all’Amleto c’è un passo molto bello che in pochi conoscono. Mi riferisco alla visita dei due amici Rosencrantz e Guildenstern finalizzata a capire se il nostro finge o se è pazzo davvero. Lo trovano che sta suonando il flauto in un prato, sta guardando il cielo, è seduto su una roccia. Li vede da lontano e capisce già tutto. I due cominciano a disquisire: ‘ma mio signore come mai, come mai così melanconico?… C’è del marcio nel regno di Danimarca ma no mio Signore la Danimarca è meravigliosa, guardate questo cielo splendente, queste praterie, questi fiumi, questi alberi’. E lui: ‘Io potrei essere confinato in un guscio di noce e sentirmi Re dello spazio infinito se non avessi cattivi pensieri… Non è il luogo in se, è qualcosa che mi rode dentro’, ‘Voi dovete stare tranquillo, state sereno voi siete il Principe di Danimarca’. Allora infastidendosi dice a Rosencrantz: ‘tieni suona questo flauto’, ‘ma no non posso non l’ho studiato’, risponde. ‘Allora – domanda Amleto -, tu vuoi suonare me? Io sono uno strumento ben più complesso di un semplice flauto’. Dovremmo sempre averlo come monito: non sappiamo con chi abbiamo a che fare mentre giudichiamo da un’apparenza di barba, di capelli, di vestiario e ci facciamo un giudizio che è un pregiudizio. Bisognerebbe andare oltre l’apparenza, conoscere l’entroterra di un’anima che è la cosa che sprigiona maggiore bellezza. Chi fa della bellezza (apparente) l’unica risorsa di vita credo davvero sia un po’ arido ma lo dico con grande onestà, senza giudizio. Se non ti ricerchi non ti avrai mai, dobbiamo cominciare a cercarci perché altrimenti andremo a finire sempre peggio. E non è pessimismo, è ottimismo totale. Donarsi vuol dire che hai, darsi vuol dire avere, viceversa non vai da nessuna parte. C’è un bellissimo passo di Dante che dice ‘oh sanza brama sicura ricchezza!’. Non è povero chi non ha soldi, è povero colui che continua ad aver brama di volerne di più! Della crisi che avvertiamo, la punta dell’iceberg è un malessere etico, morale, che parte da 40 anni addietro e si sprigiona solo adesso come un fatto economico perché non si riesce ad arrivare alla fine del mese. Paradossalmente abbiamo più bisogno di poesia adesso, di ricerca, di teatro, di letteratura, di arte che non dieci anni fa affinché l’uomo ricominci a dare un po’ più di peso a se stesso”.

Raggiunta la popolarità con la serie televisiva italiana Incantesimo la svolta nella tua carriera arriva nel 2003 con La meglio gioventù, film vincitore della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes. Nel ruolo di Matteo Carati, giovane studioso appassionato di letteratura e poesia, hai ottenuto il Nastro d’argento come miglior attore protagonista (2004), smentendo l’idea diffusa che l’attore per interpretare bene un ruolo deve fare qualcosa di molto lontano da sé. Qual è la tua opinione in proposito?

“Sono sempre stato attratto dall’arte, non mi reputo un intellettuale, mi reputo un uomo d’arte nel senso che qualsiasi cosa d’arte mi attrae ma mi attrae in quanto è bella, in quanto mi arricchiste. Quando vedo “Apollo e Dafne” mi arricchisco, un Caravaggio mi arricchisce, se leggo un passo di Dostoevskij o le poesie della Dickinson mi arricchisco, mi sento più ricco. È una ricerca costante (non ossessiva) questo arricchimento di me stesso. Mi chiedevi se è meglio interpretare se stessi o un personaggio tanto distante da se stessi? Volendo fare qualche esempio, Troisi e Benigni sono due tipi di attori straordinari che hanno fatto della loro personalità, fisicità e poetica, un modo unico di lavorare (con il loro accento raccontano vicende dentro un film d’autore, scritto, diretto ed interpretato da loro stessi); viceversa Salvo Randone, Gianmaria Volonté (per fare altri esempi) sono due attori che cambiano fisicamente, si trasformano nella gestualità, nell’emissione vocale e anche nel trucco, tanto che a volte, in principio, si stenta a riconoscerli. Ecco, io tendo ad appartenere a quest’ultimo esempio di attori (senza una minima ombra di paragone), ma è quello che mi appartiene maggiormente come modalità di lavoro, m’interessa di più ciò che mi è distante caratterialmente. Noto (ancora un esempio) è distantissima da me, è una cultura molto diversa, per questa ragione mi attrae. Un grande filosofo diceva che la vita è fatta solo da quei segmenti che ricordi. La vista di Noto dal Palazzo Nicolaci la ricorderò, fa già parte della mia vita”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni con Grazia Calanna. Foto di Pier Raffaele Platania.

Nel 2004 interpreti Heathcliff, il protagonista maschile della fortunata miniserie televisiva (Rai) Cime Tempestose. Pensando a questo plot che poco o nulla si discosta da storie di reale quotidianità ti chiedo: la Bellezza in che modo e fino a che punto può scuoterci dalle nostre incoerenze? In che modo ci si prepara per vestire i panni di un personaggio avvinto dall’impossibilità di amare la ‘sua’ Catherine, devastato da sentimenti di gelosia e vendetta?

“Leggi un po’ di cose, ti fai indirizzare, vai a vedere i luoghi, ti immergi nel gotico. Al confine tra la Germania e la Polonia, dove abbiamo girato, il clima è talmente rigido che si iniziava alle sei del mattino e si finiva alle quattro che era buio. Ti fai penetrare, compenetrare da quella natura. Ti ci butti dentro e poi come va va’. La tua ossessività e la tua ossessione amorosa ce l’hai dentro: non la sputi, non la tiri fuori la lasci là. Il tuo essere l’assassino: non lo tiri fuori lo lasci là. E così via per ognuno di noi. Ovvio che il mio lavoro consiste del fare affiorare certi ‘aspetti’ simulandoli. Devi completamente dimenticarti dell’etica, della cultura, devi entrare nella testa – come in questo caso – di un ossessivo folle: dritto come un volo di freccia verso la perdizione del suo amore. Un suicidio totale. Allora la vita era dura, il sentimento amoroso se ti colpiva a pieno non era solo un fatto di ormoni ma di rarissime affinità elettive. L’amore era un lusso, perderlo ti manda – com’è accaduto al mio personaggio -, fuori di testa. Perché? Perché l’amore è la cosa più sublime, meravigliosa, voli, vedi tutti i colori, senti tutte le musiche, annusi tutti gli odori che prima non assaporavi… e quando ne vieni privato credo sia uno dei dolori più impressionanti e disumani”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni con Grazia Calanna. Foto di Pier Raffaele Platania.

Nel 2005 esce il film Quando sei nato non puoi più nasconderti con il quale hai vinto il Globo d’Oro come miglior attore rivelazione. Il tema è quello scottante dei migranti, del cinismo degli scafisti, dello sfruttamento minorile, del malfunzionamento dei centri d’accoglienza.

Che bel titolo Quando sei nato non puoi più nasconderti. Un grandissimo film che ha anticipato tantissimo i tempi ed è stato compreso poco. I film sono strani. Ci sono dei bellissimi film che – La meglio gioventù se uscisse adesso non avrebbe il successo che ebbe quando uscì nel 2003 – risentono del momento. Quando sei nato non puoi più nasconderti è un film che parla degli immigrati attraverso gli occhi di un bambino che cadendo in mare di notte, senza essere visto da alcuno, viene soccorso da un barcone di migranti. Un film molto molto forte sulla consapevolezza e sul cambiamento che può generare”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni con Grazia Calanna. Foto di Pier Raffaele Platania.

Il cineasta svedese Ingmar Bergman credeva non ci fosse nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza. Possiamo ancora considerare fondato questo pensiero?

“Si lo credo, anche il teatro ma anche la televisione dipende tutto da come la fai. Piace ricordare che La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, una storia in quattro puntate prodotta dalla Rai ha vinto Cannes. Dipende tutto da come si fa. Se noi ricominciassimo a fare le cose con valore, con dedizione, con passione… che cos’è la passione? È la concentrazione al desiderio. Questo mestiere senza non si fa. Ti prende la vita. Con tutto il rispetto, recitando non timbri delle lettere alla posta; quello può farlo chiunque. Recitare ti prende la vita proprio perché devi portare in scena vite vissute. È importante perché lasci dei messaggi. Fai delle scelte. Ci sono film, come anche spettacoli teatrali, che hanno cambiato la vita di certe persone (in meglio). E non è poco perché se migliori l’uomo migliori il mondo. Il mondo non lo migliori con più denaro, lo migliori con più coscienza, con più conoscenza, con più sapere… ma non perché si diventi tutti dei sapientoni. Mi riferisco all’intelligenza del cuore: la cosa importante è sapere come comportarsi. Bisogna anteporre la vita alla sopravvivenza. È vero che l’uomo tanto fa che alla fine muore ma l’uomo (o la donna) è quello che fa. Berlinguer, al di la del fatto politico, era una bella persona, era credibile, era onesto, era sincero e faceva ciò che poteva fare per l’Italia, per il nostro stato civile. Viveva in un appartamento di 120 mq in affitto con i figli a Roma, stop. La sua dedizione, la sua concentrazione al desiderio era far si che il popolo italiano stesse meglio. Era una persona che pensava al noi e non all’io, ecco perché se ne conserva intatto un bellissimo ricordo”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni. Foto di Pier Raffaele Platania.

Tra tutti i personaggi interpretati, oltre a quelli già citati – senza dimenticare La bestia nel cuore, diretto da Cristina Comencini, candidato all’Oscar come miglior film straniero, Arrivederci amore, ciao – tratto dallo spietato noir di Massimo Carlotto -, valsoti, nel 2006, il Globo d’Oro come miglior attore; il principe Andrej Bolkonskij in Guerra e Pace serie tv tratta dall’omonimo romanzo di Tolstoj (Rai1, 2007), Caravaggio (Rai1, 2008); Walter Chiari, fino all’ultima risata (Rai1, 2012); Ulisse nella versione televisiva dell’Odissea di Omero in coproduzione internazionale; e ancora, più di recente, l’ingegnere Giorgio Venuti, dirigente della Fiat Mirafiori, nella fiction Gli anni spezzati (Rai1, 2014) – qual è quello dal quale sei stato ‘toccato’ al punto da poterti dire cambiato?

“Sono tre i personaggi che mi hanno forgiato, che mi hanno lasciato un segno forte e mi hanno fatto fare un cambio spaventoso. Uno è Matteo Carati de La meglio gioventù che ti cambia la vita perché da lì non vai più a fare i provini ma ti chiamano e ti chiedono cosa vorresti fare, quale ruolo interpretare. Cartavaggio con il quale ho delle similitudini (era della provincia di Bergamo come me, si recò a Roma che era mio coetaneo, aveva due fratelli di cui, come me, uno sacerdote…). E l’altro, per me difficilissimo, Walter Chiari. Una prova tosta indossare i suoi panni. Ogni volta, quando tornavo a casa da lavoro mi domandavo perché mai avevo detto di si. Mi scivolava come un’anguilla, ovunque, ogni giorno. Una volta era up, una volta era down, una volta aveva problema di cocaina, una volta era il numero uno, una volta era un latin lover e frequentava Ava Gardner, una volta faceva pubblicità delle saponette nelle tv private, un’altra volta era il più massacrato con cento giorni di galera perché è stato preso con un grammo di cocaina. Era il 1996, l’anno della strage di Piazza Fontana e il Prefetto di allora disse che non ci sarebbero stati sconti per nessuno; pochi mesi dopo Chiari, che non era simpatizzante di sinistra, divenne il capro espiatorio, sbattuto in galera e sui giornali per un numero infinito di giorni; era sempre in prima pagina, una sorta di specchietto per le allodole, intanto che sotto passavano tutte le cose delle quali non si parlava. Era un caleidoscopio di personalità. Un uomo straordinario: ironico, intelligente, colto, raffinato, generosissimo, il più generoso del jet set dello spettacolo. Vi posso garantire che potrei tenere una lezione all’Università su Walter Chiari perché ho visto tutto, conosco tutto di lui. Non ha mai fatto ridere una volta con una volgarità, per me questo è un assoluto. Pensiamo al suo Sarchiapone, celebre animale immaginario citato in un noto sketch televisivo dello stesso Chiari, in un programma Rai del 1958, nato in spiaggia, a Fregene. Pensate: da una barzelletta di due minuti è riuscito a scrivere un atto unico di 45 minuti. Questa è la grandezza di uno come Walter Chiari. Per me è stata la prova più difficile (a prescindere se sia stato il film più o meno riuscito) perché ho avuto a che fare con uno che è ancora dietro l’angolo e che tutti conoscono, che tutti sanno come ride, qual è l’espressione della sua voce, come cammina… Rievocarlo è stato molto difficile, la cosa più bestiale è che, improvvisamente, ti accade qualcosa dentro. Non puoi imitarlo, devi beccare una corda che ti è congeniale, appunto, a rievocarlo. Devi cercare di avvicinarti profondamente a quello che è stato. La cosa più bella è stata – finita la fiction – la telefonata di Simone, il figlio di Chiari, che testualmente mi ha detto: ‘ma va fan culu va, ho pianto due volte in vita: quando è morto mio padre e adesso ma va fan culu, ciao’ e ha messo giù. Io sono rimasto impietrito. Simone è così schietto. Questo è stato il più bel complimento perché se lo dice il figlio vuol dire che qualcosa c’è stato”.

In un’epoca segnata dall’egemonia delle immagini e dalla quasi totale assenza di ascolto, un attore, spenti i riflettori, come affronta quest’aspetto fondamentale della dimensione relazionale? Qual è e come vivi la tua dimensione dell’ascolto? Sai ascoltare? Ti senti ascoltato?

“L’ascolto è fondamentale al di la che uno faccia l’attore e dato che faccio l’attore e devo portare tanta vita e molto vissuto in scena, dato che non parlo di scarpe, non costruisco sedie, non parlo di quantistica, non parlo di lampadari, di illuminotecnica, di tante altre professioni meravigliose, ma parlo di sentimenti umani, scandaglio sentimenti umani di personaggi differenti, per me l’ascolto è fondamentale. Ascoltare gli altri è una cosa che ti sedimenta, ti allarga, ti predispone a rilasciare ciò che devi dare, ad avere il coraggio e la capacità di elargire la completa nudità di sentimenti umani, e, insisto, ci vuole un gran coraggio. Lo fai con l’ascolto. Orazio Costa Giovangigli è stato il mio maestro all’Accademia di Arte Drammatica, eravamo in venti lui ci metteva in coro e dirigeva. Prima ci faceva fare insieme il testo che avevamo studiato a casa, poi toglieva tutti e, di volta in volta, ne lasciava uno. Quell’uno era più forte, più potente di tutte le personalità insieme. Abbiamo degli esempi registrati. Dopo il coro, da solo ero venti volte più potente. Più potente di credibilità, di struggimento, di introspezione, di magnetismo, di presenza scenica. Perché? Perché avevo preso dagli altri ascoltando. Questo è in piccolo quello che faccio in grande, ecco perché per me l’ascolto è fondamentale. Se non c’è ascolto non c’è dialogo, se non c’è dialogo non c’è teatro, non c’è cinema. Nella vita, lontano dai riflettori, mi sento abbastanza ascoltato”.

“Nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata. E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata. È scritta, come la parola di Omero, ma insieme è pronunciata come le parole che si scambiano tra loro due uomini al lavoro, o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio, o le donne al mercato – come le povere parole insomma che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita”. Una riflessione di Pasolini per chiederti: pensando alla tue esperienze teatrali tra tante parole, tanti ‘passi’, potresti riportane uno nel quale sei solito rifugiarti”?

“Se varchiamo la soglia dei cellulari, dei video, dell’iPad, dello schermo che ti allontana dal contatto umano, se continuiamo a dialogare, se continuiamo a scambiarci lo sguardo, come diceva Prospero nella Tempesta, se continuiamo a scambiarci idee, sentimenti, forze, questa terra ridiventa potente. Non dobbiamo sempre dare tutto per scontato perché tra poco avremo google car e smetteremo persino di guidare. Dovremmo prenderci un anno sabatico per riflettere su quello che facciamo, se ci piace, se vogliamo continuare a farlo o se vogliamo cambiare. Lo schermo ci scherma. Fermiamoci a pensare: siamo noi la forza”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni. Foto di Pier Raffaele Platania.

Passando all’esperienza della poesia in teatro (“nella nudità scenica”) – ricordiamo gli omaggi a Pavese, Pasolini, Pascoli, alla Merini con il «Canto degli esclusi» – ti chiedo: in che modo è possibile per un attore mettersi al servizio della poesia, carpirne il respiro, il mistero, la naturalezza della quale parla John Keats quando dice che sela poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure”?

“Porto la poesia in teatro assieme al mio amico Marcello Prayer che é un bravissimo attore – in scena con me anche con I Duellanti -. Abbiamo fatto diversi concertati a due, insieme jeaziamo le parole. Abbiamo letto Pascoli, Pavese, poi Piero Ciampi, per chi non lo conoscesse è un grande cantautore di Livorno morto nell’81, un po’ bistrattato. È che ci piacciono quelli un po’ bistrattati come Alda Merini. Più bistrattata di lei con dodici anni in manicomio, camicie di forza, 46 elettroshock, e tanto altro… Eppure studiandone la storia, imparando a conoscerla, ci accorgiamo che se un governo può minimamente pensare che Alda Merini è pazza per me c’è qualcosa che non va in quel governo. Ed è successo. Vi esorto a leggerla se non la conoscete, è introspettiva, è una grandissima donna, ironica, uscita senza livore, senza rancore, è diventata quello che sappiamo. Ha vissuto uno stillicidio al quale in pochi avrebbero potuto o saputo resistere. La parola è stata il suo appiglio fondamentale. La scrittura, l’amore di tutti gli amori.

Leggo due poesie (tratte dal libro Clinica dell’abbandono, a cura di Giovanna Rosadini, introduzione di Ambrogio Borsani, Einaudi, 2003):

Fuga di volpe

A chi mi chiede

quanti amori ho avuto

io rispondo di guardare nei boschi

per vedere

in quante tagliole è rimasto il mio pelo.

*

Io ero fatta di prati verdi

di lucciole della notte.

Ma qualche adulto bambino

ha preso in mano il grillo

la lucciola e la cicala che erano in me.

Alcuni falsi poeti

chiudono i grandi nel pugno

della curiosità

e non sanno che anche nel grillo

vive presente un’anima.

Oggi non c’è tempo per questa cosa, la poesia, che cos’è la poesia? Non si mangia con la poesia. Vi esorto anche a leggere Padre Maria Turoldo. Ha scritto delle poesie straordinarie. In una bellissima intervista (rilasciata a Enzo Biagi) disse: «Ho insegnato teologia per 50 anni e ho sempre chiesto ai miei alunni: che cosa volete diventare da grandi? Mi rispondevano chi l’architetto, chi la giornalista, chi l’attore. Nessuno mi ha mai risposto: “Io voglio diventare un uomo”». Siamo tutti proiettati sulla professione, provate a pensarci. Oggi si dimentica l’uomo. Stiamo attenti perché la vita è un lampo, si perde, e non ritorna. Le giornate sembrano immense…”.

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Nei Luoghi della Bellezza, Noto 18 aprile, Alessio Boni con Grazia Calanna. Foto di Pier Raffaele Platania.

Rainer Maria Rilke – cui fanno eco in tantissimi -, (nella prima “Elegia duinese”) definisce il bello come nient’altro che l’inizio del terribile. Leggo i suoi versi: “Chi se io gridassi mi udirebbe mai / dalle schiere degli angeli ed anche / se uno di loro al cuore / mi prendesse, io verrei meno per la sua più forte / presenza. Perché il bello è solo / l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena, / e il bello lo ammiriamo così perché incurante / disdegna di distruggerci”. Questa premessa per chiederti: in che rapporti vivi con la tua Bellezza (non solo esteriore)?

“Io tento di salvaguardare il mio cristallo. Cerco di non farmelo opacizzare dall’esterno, sono fortunato. Posso permettermi il lusso di eclissarmi…”.

Puoi parlarci dei tuoi impegni professionali in corso e/o futuri? Il tuo pubblico – tra teatro, tv e cinema – dove e, orientativamente, quando – potrà vederti/ascoltarti?

“In Settembre uscirà su Rai Uno La Catturandi, per la regia di Fabrizio Costa, una storia ambientata a Palermo, che parla di mafia e di questo gruppo speciale (Catturandi della squadra mobile di Palermo), specializzato in tecniche di spionaggio e pedinamenti, per poter arrestare i boss mafiosi latitanti. Con me nel cast ci sono Leo Gullotta, Anita Caprioli, Massimo Ghini, Vincenzo Amato e tanti altri. Sempre d’inverno uscirà “Respiri”, un thriller psicologico opera prima per il Cinema diretta da Alfredo Fiorillo, con me protagonista c’è Lidiya Liberman; Lino Capolicchio e tanti altri. Il 18 Giugno, a Genova, leggerò Alda Merini, il 9 Luglio al Vittoriale, sul Lago di Garda, leggerò D’Annunzio e il 20 Agosto, a Roccelletta di Borgia (CZ), assieme ad Edoardo Siravo e Mariano Rigillo, faremo una lettura tra ‘Cristianesimo e Islam’. L’inverno prossimo riprenderò a Teatro la seconda stagione de “I Duellanti” accanto a Marcello Prayer, Francesco Meoni e la violoncellista Federica Vecchio”.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 10.05.2016, pag. 17, Spettacoli).

 

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