Annamaria Ferramosca, “Per segni accesi”, password per un cammino.

Nota di lettura di Anna Rita Merico

La scrittura di questa nota mi disloca nello spazio a margine del testo dell’Autrice consentendomi di sentire odore e corpo del verso. È un verso, quello dell’Autrice, che indica impronte e segni capaci di indicare una omogeneità scritturale che ha il timbro della ricerca del rigore linguistico, del legame con la terra d’origine, della ricerca esplorativa nel sé e nell’universo delle connessioni al cosmotutto.

Inizio a leggere la silloge cercando punto da cui collocarmi nella densità della scrittura e dei rimandi cui essa m’invita. Dunque…

cerco una parola

cerco una parola che sia una parola bucata.

una parola oppure un verso… si

anche un verso bucato può occorrermi.

Una parola o un verso bucato attraverso cui poter scorgere il millesimale punto da cui sgorga questa Visione, questa carezza sul Mondo, questa parola poetante di Annamaria Ferramosca.

Cerco il segno che apre, il segno acceso che sigilla, caleidoscopio d’intenti. Potenza del variopinto dell’essere nella sua dimensione ontologica, nella sua dimensione della rammemorazione attenta.

Voglio essere lupa

nel suo momento sacro quando immobile

fissa l’orizzonte-destino

                                e accondiscende

Mi fermo dinanzi a questi versi dell’Autrice. Essi mi dislocano in una prospettiva antica ma, anche, nella contemporaneità di una consapevolezza di sé che viene nominata nell’esatto momento in cui l’intimo della scelta si palesa.

Inizio ad articolare passo nelle pagine toccando i segni e li scopro guida. E li sento radicati nel sentiero della ricerca, della ricerca di sé nel mondo, nella ricerca dello sguardo che tocca e consente nascita allo sbocciare dall’interno del segreto dell’anima.

Trovo poesia che canta la metamorfosi della rinascita continua.

E’ poesia che canta il desiderio dell’unione continua all’origine come gesto di riconoscimento e come mai ultimato movimento dell’evoluzione.

Quella di Annamaria Ferramosca, in questa silloge, è poesia che rivendica a sé l’attraversamento dell’intero millenario andare dell’umanità.

E’ poesia che canta il dolore del ritmo della Vita, quel dolore che permette all’utero l’ultima spinta giusto un attimo prima che sia donato l’essere, l’urlo, il silenzio, l’alba gravida, le vibrazioni del cielo.

Leggo poesia da poeta, dunque dico di visione, di vibrazione, di sentire. Leggo poesia da poeta pertanto, ciò che voglio, è la scoperta delle grammatiche sonore, degli alfabeti che –trasversali- beffano ogni ortografia, ogni sintassi per trasmutarsi in segno altro: segni accesi dice Anna Maria.

Quello di Anna Maria Ferramosca è un universo-natura mobile e pulsante in cui carrubi, ulivi, gemme, erbe, pietre, rose, azalee, frutti, dicono di quale materia siamo fatti, qual è la materia che ci accomuna tutti alla pagina del viventi: la materia dei sogni.

Eppure, nella poesia di Anna Maria, nulla è trasognato. La materia dei sogni di cui la poeta dice ha a che fare con la capacità di sentire e vedere la bellezza e dirne mondo. Anna Maria sa che c’è una fine trascendenza all’interno di ogni spicchio di materia, all’interno di ogni bagliore. Di questa immanente trascendenza, Ferramosca fa verso e respiro. La sua consapevolezza è consapevolezza che abitare la terra, abitare la Vita da poeti significa vivere in quella strana stanza accanto in cui la sosta, il silenzio, la compassione, la memoria, l’arcano nutrono e tiranneggiano spingendo ai limiti d’ogni nominabile.

C’è un’arte che ci fa immuni… un’arte che ci fa immuni e guerrieri…

guerrieri senza bisogno d’armi

arte del camminare accanto

insieme seminare mietere

insieme spartire

pane e parole

Cosa può il poeta, oggi? Quale la sua funzione? Anna Maria Ferramosca risponde con un’immagine che ne ri-fonda il ruolo eterno:

… saremo sirene disperate

aggrappate ai fianchi delle navi

a soffiare note strozzate

sui naviganti legati al palo… schiuma d’onde, rumore di risacca

 

Eppure è la poesia che traghetta sempre verso l’universo pieno della speranza, è la poesia a dirci, nelle pagine di Per segni accesi, il paese mistero e l’occulto che genera le più profonde verità. Sono le forze che scompaginano, gli enigmi, i passi nascosti, gli abissi, la zolla e le cortecce che hanno cura di quel mistero che cuce le soglie di quanto, piccolo e acceso, serba il seme dell’eterna e millenaria rigenerazione. Anna Maria Ferramosca ci conduce nel luminoso Giardino in cui l’albero-Dea, l’humus brillante, lo spazio bianco ci indicano, silenti, la sospensione che precede la nascita. Nello slargo della nascita tutto è in allerta ed ogni fruscio lamenta il terrore della natura a lungo violata ma, anche, l’apertura alla Promessa che sarà.

Il tempo che pulsa nei versi di Anna Maria è tempo ciclico, è tempo della catastrofe e della genesi mai terminata, è il tempo della torsione dei punti di vista, è tempo di compenetrazione, è tempo di attraversamento di confini, è tempo di straniamento e di ritrovamento è poro che trasuda poesia. È poesia che batte.

Di tanto in tanto, lungo strane e accidentali curve, il pensiero si annulla e il buio ammanta. È la sosta nel vortice che annuncia il nuovo. È la discesa nell’ignoto. È lo spazio in cui avviene l’accoglienza della bambina tra nodi e lallazioni che chiedono senso. È la sospensione fuori da ogni storia possibile. È l’accesso allo spazio della Visione.

Quello spazio in cui tutto è possibile. Quello spazioluce in cui avvengono unioni tra universi di immagini che sfiorano le memorie ancestrali. Memorie-papille nelle quali poter avvertire la fratellanza, l’appartenenza all’intera umanità e le lontananze da un presente storico la cui violenza distruttiva allontana da ogni possibile armonia.

E’ lo spazio della Visione in cui il gelosomino d’Africa, le erbe della savana, le leggi arboree, le gemme, il luccichio delle nevi, le inarrivabili cime, l’ultima foresta incontrano il ritmo del cuore e si preparano ad una nascita, ancora, festeggiando il sacro quel sacro che, solo, può proteggerci dalla bestia che ci abita, la bestia pronta all’agguato, la bestia pronta alla distruzione. La bestia vinta e che, però, dona il ritorno al punto d’inizio, l’incontro germinale con il silenzio dell’altro, spartito di canto, arte gentile, dice Ferramosca in Per segni accesi.

Eppure è nel ghiaccio e dal ghiaccio che terre altre prendono forma, terre in cui restare in ascolto del segreto che si palesa in un canto sciamano che pettina il disordine e ringrazia ogni lingua che non s’arrende e che, perciò, dice poesia.

Silenti appaiono le immedesimazioni al dentro del vivente. Il gesto lento dello stare accovacciate nel mezzo della gattità, il poter albergare nel nudo degli alfabeti d’ogni essere vivente, sostare nel fiero dello sguardo animale, seguire tracce nelle viandanze di chi ha lasciato centro e ogni ben pensare per affidarsi alle scie, ai misteri, alle schegge di gusci, all’orsa che ritorna per ri-disegnare il carro, alle sabbie dei monoliti. Danza di minimi da cui tutto ci giunge, big crush verso cui andare o in cui già siamo?

Nella silloge Per segni accesi il vorticare delle immagini, le stasi, l’apparire e lo scomparire generano uno stare ed un essere che è tessitura di vivente, pulsare di sensi.

Tutto, in questi versi, gocciola lemme in uno spazio privo d’ogni topologia: è spazio sintetico in cui gocciolano password dismesse, informazioni da microchip inutilizzati, disorientamenti da jet-lag, perdite della parola percolate giù da arroganti babeli. È spazio sintetico non spazio cosmico. È una cosmologia altra in cui si ritrovano, in un unico respiro, la pietra e il corpuscolo radioattivo, l’infinito e la minuzia che reggono un’intera ri-nascita nel dentro di uno stupore fatto speranza, meraviglia di nuovo, poesia, ancora.

Poesia, dunque, dice l’Autrice nella silloge, come urto gentile del cuore.

Questo lavoro di Anna Maria Ferramosca è segnato da un profondo fermarsi all’interno della dimensione spirituale del proprio respiro. Il Suo è respiro inteso come resistente uncino che rostra l’anelito al vitale nonostante ogni sconfitta epocale, nonostante ogni buio regressivo, nonostante ogni demone travestito pronto a schiacciare albe d’intenti.

Il verso di Anna Maria non si fregia di audaci sperimentazioni. È un verso che si nutre, pacato e appagato, di una dimensione poetica oscillante tra la metafisica dei luoghi del quotidiano e la tensione all’attraversamento di zonelimite in grado di indicare avanzamenti del pensiero e diluvi dilavanti le inusitate giornate di un domani che fatica a mostrarsi sereno pur nella sua fonda vitalità.

L’oscillazione costruzione-distruzione, nell’Opera, diviene il pendolo possibile per dire l’avanzamento del passo oltre le macerie e dentro il nuovo respiro, quello possibile, quello desiderato, quello cercato. Il verso di Anna Maria Ferramosca è verso che anella caparbiamente alla Vita e al Dopo, è verso di donna che conosce sin nelle intime fibre, il potere della germinazione, la luce della trasmutazione, l’incipit che non s’arrende perché unisono a ritmiche leggi cosmiche.

Ferramosca batte le pelle del dentrofuori facendone misura di pensiero poetante. Del dentro ci indica i due attori principali: la bambina e l’animale. Lei sa sguantarli, entrambi, con grazia e perizia inusitate. L’autrice sa che, bambina e animale, sono pendoli di tempo interiore, fotogrammi di stati dell’essere pronti a rombare, a balzare, a pretendere. Li lascia germinare talvolta mostrandoceli nell’urlo, talaltra ponendoli nudi, oranti preghiera d’incontro e silenzio di veglia.

Anna Maria Ferramosca allarga, nella prima sezione della silloge, attenzione alla nascita, alla dimensione del buio che non è, in Lei, mai caos ma bocca di sorgenti, inizio di viaggio, vuoto di pensieri stanchi, innesco di spirali, tutto alle spalle della possibilità delle prime forme, tutto nel dentro di quel monocellulare che si annuncia genesi del nuovo. Il Suo è un bisturi di morbido cristallo che s’inerpica nel ventre della nascita d’ognuno rendendone poeticamente dicibile l’anelito.

La seconda sezione mostra alba e giardino, seme appena fogliato e diafana terra, dolore del giorno nato e gocciolio d’amore, ricerca di nome e desiderio di abitare, un abitare di radicamento ontologico che chiede nutrimento e agio di respiro. Eppure nulla si mostra come definitivo. È  diafano l’essere, è muta la compassione e, pronta, la domanda sul futuro, su chi deciderà, ancora, di tranciare passo e sorgive.

La navigazione nell’oggi è perigliosa e lupe gonfie allattano parole nuove e terre emergenti, l’alito dei sognatori e la tensione al ritorno. La memoria gioca a spennellare una campagna salentina intravista in fuggevoli immagini che compongono il tutto ma, solo, per dirne la fuggevolezza, l’evanescenza, il movimento di dissipazione. Ciò che è radicamento nella pietra è l’essere della nascita.

L’ultima sezione della silloge indica lo sfavillìo del segno. Il sacro che torna nello spazioalveolo in cui può generare trasformandosi in culla di spirito che avvolge il vivente. È qui che il segno diventa acceso, tutto cresce eppure tutto rischia, in ogni istante, nuova involuzione. Qui il battito vitale diviene serrato. Tutto è disposto e pronto prima di uscire, esplorare, lasciare tutto, allontanarsi. Nuove grammatiche pulsano, il dentro del ritmo si dispiega e ciò che è acceso, vibra vita. Nulla è perduto e, d’unisono con il cosmo, nel nuovo della nascita, il segno acceso è tutto raccolto nell’essere aperti. Apertura di respiro, apertura di ciglia vibratile, papilla gustativa che si meraviglia di mondo, prensione tattile che sfiora arcane pieghe del dentro.

Al termine della silloge tutto è in ordine, il mondo è dato. Mai definitivo eppure definito. La memoria è memoria fresca d’infanzia, e il sogno detta di nuovo legge, tesse trama e ordito, l’informe è paesaggio, i luoghi miscelano sensi e, forte, si annuncia nuova consapevolezza.

Nella silloge il verso segue l’andamento della vita-morte, del turbinio e della calma, del caos e dell’ordine. La trasparenza delle parole allude a significati ben precisi che toccano il senso, il luogo e le possibilità dell’uomo, oggi. È uomo che batte alla ricerca dell’armonia. È uomo che soffia all’utero della sua nascita per ricavarne nuove e possibili suoni. È uomo non-arreso pur dinanzi alla visione della dissipazione e della disarmonizzazione. È uomo che non ha perso il senso del dire e allude a conquiste nuove ma, stavolta, non sono più conquiste fagocitanti. Stavolta, quelle di Anna Maria Ferramosca, sono le conquiste legate a connessioni con sé e con il cosmo, con sé e con l’altro, con sé ed il divenire. Annamaria Ferramosca ci indica un afflato vitale in cui movimento e ritmo, respiro e stasi ci accompagnano con leggiadrìa ad indicarci ogni possibile schiusa, ogni attenta ricomposizione, ogni riso che sia resa al desiderio di potenza e ritorno a quei minimi che rappresentano l’ancestrale battito da cui ci siamo schiusi approcciandoci all’abitare.

Che nuovo e altro abitare sia, ci dice Annamaria Ferramosca. Che nuovo e altro abitare ci mostri possibilità così come ci indicano i versi di Per segni accesi, versi la cui freschezza e potenza d’impronta lasciano nutrimento per nuovo viatico. 

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