COP CARRARO anteprima

Uno stralcio dalla prefazione, Cinque congedi d’addio, di Federico Federici

Congedarsi è l’atto, forse un po’ formale, di chi si allontana senza ipotecare il futuro con il peso di un addio. Eppure le parole di Carraro affondano nel ripetuto fallimento di prendere una volta per tutte le distanze da qualcosa o qualcuno, voltare le spalle, magari con una scusa, e andarsene. Il loro scopo è subito chiaro: porre fine a un’incertezza, essere definitive, provocare un addio, senza falsificarlo con vuote formule di cortesia, rimuovendo ogni puntello biografico, seppellendo memoria su memoria. Tra le macerie urlano ancora le mille morti che un uomo si dà vivendo ed è lì che resta intrappolato il dolore, in attesa di essere giustiziato dal tempo e mutilato dal corpo. Le due sezioni d’apertura (Ode al padre e Ode agli amici) costituiscono un unico incipit esteso, che assume spesso il tono di un invito a comparire, rivolto a imputati che sono anzitutto custodi e testimoni della coscienza di chi si appresta a liquidarli, giudicando se stesso. La sentenza è già scritta e non prevede assoluzione, ma solo discussione del caso, elencazione di colpe e discolpe, lettura finale delle ragioni e congedo. La prima ode sfiora alcuni temi della celebre lettera kafkiana, nella quale la figura paterna tende a stagliarsi su tutte le altre, aspra e intransigente col figlio. Qui non sono però contrapposti ammirazione e disprezzo verso un’autorità comunque riconosciuta, ma difficile da scalfire con le sole ragioni dell’adolescenza. Il padre, l’antagonista per natura, si trova costretto in una condizione di subalternità nel presente (rispetto al figlio) e nel passato (rispetto al proprio padre). È come se lo spazio di una generazione fosse saltato e questa mancanza dovesse venir riscattata. La falsificazione della firma sul libretto scolastico appare all’inizio poco più di un aneddoto, uno spunto qualsiasi per il racconto, ma introduce in realtà il tema di una sostituzione simbolica ben più profonda, utile alla rimozione della figura paterna, sulla quale si incentra l’intero componimento. Impossessarsi di un segno ha il valore di una iniziazione: si acquista il potere dei padri delle origini, se ne riconosce e impara la lingua per imitazione. Con questa premessa, la diade originale-derivato si modella a esprimere la progressiva corruzione di paternità-discendenza.

 

Ode al padre

Sì dev’essere cominciato tutto quando
Hai iniziato a scrivere e riscrivere il suo nome
Nel diario della scuola e sulla carta
Rifacevi la firma per il libretto di giustificazioni
E lo ripetevi di continuo quel gioco
Mezzo furbo mezzo proibito
Che svolgevi già pregustando la sega
Che avresti fatto a scuola
Godevi a diventare sempre più bravo
A rifarla la firma del tuo vecchio alla perfezione
Perché ti dava una strana forza
Prendere per un lampo il suo posto
Incarnarlo lui com’era nel mondo
Imponente e grande ai tuoi occhi di marmocchio
Lui che firma una cosa di suo pugno
Come all’alba dei tempi un generale
Greco o romano davanti a una delegazione
Tuo padre l’uomo dei tuoi sogni il mito
Quella copia calligrafica io dico
Come prima forma di emulazione
Ma come si sia arrivati da questa
Alla sfrenata e impudica competizione
Non sapresti dire se non saltando
Passaggi e passaggi di tempo
Di cui non hai memoria e ragione
Ma tu non ci vuoi più mettere
Il naso là dentro non puoi
Rivedere da vicino quel deserto vuoto
Quell’occhio spalancato
Sulla fodera del guanciale
E udire quella frase
Pronunciata in un soffio dal capezzale
Anche questa è materia di romanzo!
Che hai sentito o solo immaginato
Davanti al secretaire
Assediato dai medicinali
E allo stelo della flebo
Traslucido contro il vetro della libreria
Ottocento che adesso veste il tuo studio
Forse non ne hai neppure più il diritto
Lascialo quieto nel suo letto d’agonia
Dopo 16 anni finalmente mollalo in pace
Quanto ancora vuoi fartela fruttare questa storia
Che incolpando lui in qualche modo t’assolve!?
 
 
E  tu non sapevi che dirgli quando lui parlava del suo romanzo
Che aveva spedito avventurosamente alla Feltrinelli
E ad altri editori importanti
Senza che tu l’avessi incoraggiato né scoraggiato
Avevi lasciato che si muovesse lui
Senza intervenire come avresti potuto
Dicendo che ti mancavano i contatti
Mentre proprio la Feltrinelli
Stava diventando il tuo editore
Ma come potevi promuovere tuo padre
Anche se aveva i mesi contati
Tu che a stento promuovevi te stesso?
Quel romanzo senile muffoso poi
Storia di un vecchio professore in pensione
Già professore capite professore!
Non si rassegnava mica alla sua condizione
Di non laureato con quel diploma di maestro
Preso durante la guerra chissà come
Fra un bombardamento e una smobilitazione
Quel vecchio che sentenzia e pontifica
Su un pullman di turisti durante
Un viaggio organizzato in Turchia o in India
Sulle statue i musei i templi su tutto
Motteggiando e forse offendendo le guide
Quelle del luogo e quelle dell’agenzia
Con lamentele o chiose
E dovrebbe sedurre nelle intenzioni
Quei tardoni sempliciotti e i chimerici lettori
Con le battute e i colpi di teatro
E qualche parolaccia salace sulle donne
Di quelle che scorano tanto sulla bocca dei vecchi
E sapevi tu l’inferno che nella realtà
Quei viaggi in gruppo erano stati per la mamma
Fra gli scaracchi e le sparate da erudito
Dio cos’era quella roba ti veniva male a leggerla
Era fin troppo facile smontarla
Finiva con un omicidio si tingeva di giallo
Il polpettone ma a quel punto non ci sei mai arrivato
Tutti quelli del viaggio organizzato
Con quel geniaccio del professore compreso
Schiaffati nella hall di un grande albergo internazionale
E interrogati a turno come in una storia di Agatha Christie
A quel punto eri faticosamente arrivato
Dicendo basta mi fa troppo incazzare
Quella roba insomma ch’era vecchia e sciupata
Ancora prima di venire scritta
E lui ancora immaginava pubblicata
I libri tuoi l’avevano ringalluzzito
Ritirava fuori vecchie poesie ingiallite
E racconti e tutti i brogliacci che aveva accantonato
Negli anni in cartelline polverose del ministero
Ognuna titolata a dovere negli spazi assegnati
Sulla filigrana dello stemma governativo
E poi riesumava le sue canzoni
Che aveva interpretato ai Café chantant
Pure a quelli importanti di Galleria Colonna
Dove i suoi capi d’ufficio l’avevano beccato
In vetuste incisioni che ti chiedeva di far ascoltare
Ai giornalisti musicali che conoscevi
Benché questo accadesse anni prima
Ma è stato Il branco al Festival di Venezia
Che gli ha mandato in tilt il sistema
Che gli ha azzerato i contatori
Vederti lì sotto ai riflettori
In primissimo piano in tenuta di gala
In Sala Grande col regista e il produttore
In quel Lido favoloso dove
Da giovane era stato a sognare
Mentre faceva il soldato sugli amori suoi
Di sempre donne cinema e letteratura
Insomma quei fasti tuoi
Gli avevano rinnovato l’estro
Se c’è riuscito lui perché non devo riuscirci io?
Che io valgo meno di lui come scrittore?
Insomma aveva ripreso in mano la penna dopo anni di silenzio
Non parlo mica dei bei racconti di gioventù
Che gli valsero il Pozzale e la pubblicazione
Ma quello che scriveva oggi straziava l’intelligenza
E il cuore e allora non capivi
Tua madre che diceva perché non leggi il romanzo di papà?
E magari lo usi tu chissà che intendeva povera mamma
In generale volevi celebrare te stesso ormai di lui te ne fregavi
Non riuscivi neppure a leggere le sue cose
Ti davano ansia come più tardi a leggere le tue
Ti scottavano in mano non volevi manco prenderle
Le spostavi da un mobile all’altro sempre più lontano
Dalla vista dal tuo raggio d’azione
Ma Cristo d’un Dio ti facevi
Quell’uomo lì che t’ha rovinato la vita
E ormai lo sa con certezza dai tuoi libri
Pretende oggi di farsi leggere da te?
Ci vuole fegato e una gran faccia di legno
Ma lui si permetteva eccome senza ritegno
Te li faceva battere tutti  i suoi ultimi parti
Vergati a penna con mano tremolante
Alla macchina da scrivere e poi al computer
Le sue cose stantie e piene di errori
Che delegavi a qualcun altro per la compilazione
Il suo libro di racconti che gli avevano stampato
Cinquanta anni prima era perfetto lo giuro
Manco una virgola fuori posto
Sette uomini meno due si chiamava quella silloge
Influenzata da Americana di Pavese anzi Vittorini
Spalmata di neorealismo e pure simbolismo qui e là
In certi vasi di fiori in certi interni
Senza decoro quasi stilizzati
Roba decente magari bella chissà
Consegnata in copia al Caterini
Perché ne faccia buon uso
Roba ch’io all’inizio avevo pure emulato
Eh no questo però lo hai copiato
Da me da quel racconto dimmi la verità
Già rivelando così l’animo suo bruttato
L’atmosfera è la stessa figlio mio e la storia pure
Non puoi negarlo e oddio chi lo negava!
Erano gli ultimi due minuti di vita di un uomo
E non conta saper chi sia ma solo
Che viene ucciso in un tempio
Fra una colonna di granito
E un fonte battesimale
Mentre il tempo viene scandito all’incontrario
Insieme ai passi che battono il pavimento cosmatesco
In modo sempre più drammatico
E’ vero papà è vero ho scopiazzato
Mi piaceva ho cercato di riscriverlo meglio
Perché non si può? Che c’è di male?
 
 
I suoi racconti di mezzo secolo prima
Erano pure piaciuti alla Aleramo
Ma poi la vita l’aveva preso e la famiglia
Che lui non voleva ma sì lo sapevamo
Tutti lo sapevamo che lui era scrittore
E attore accidenti e chansonnier
Che il suo destino era un altro
Fatto è che adesso tutto ciò che scriveva
Era diventato uno strazio ortografico
Non azzeccava più un accento
Gli scappava via la consecutio
Faceva periodi lunghissimi senza virgole
Forse imitava pateticamente Joyce
Di cui tanto aveva strologato nella vita
O forse erano solo degradate le sue facoltà
E tu ogni volta gli dicevi ecco papà mi pare buono
Ti ho corretto giusto qualche sciocchezza
E non una parola in più incapace di dire altro
Perché il libro intero manco l’avevi letto
E quel poco che avevi letto ti era parso inutile
E sciagurato per come al solito assolveva se stesso
E invero così urtante quando fingeva di ridere
Di quel sé pontificante e colto e intellettuale
Mentre era solo un vecchio brontolone
Colmo di sé e di catarro bronchiale
Ma lo amavi appassionatamente come si può amare
Un padre che senti che ne sta andando per sempre
E che di suo non resterà niente
Se non un ricordo pieno di vergogna
Come se tu l’avessi ucciso
Come se davvero il cancro gliel’avessi procurato tu
Col tuo esordio impietoso che l’aveva svergognato al mondo
E soprattutto alle sorelle di Foligno
Che fingevano d’idolatrarlo
E forse lo idolatravano davvero
Perché non provi a lavorare sul padre?
T’aveva chiesto lui meschino
Sfidando il patetismo
A riscattarlo un poco nel finale
Far vedere che in fondo è un buon diavolo non ti pare?
E tu manco gli avevi risposto
Come l’avessi schiacciato e martoriato davvero
Quel tuo povero padre che nel sogno
Finiva come Pasolini all’idroscalo
Precisamente anche col piede storto
Spezzato sotto la calza e il mocassino
Ricordi e tu l’avevi sprangato a sangue
E quel sogno terribile non finiva mai
E tornava senza pietà ogni notte
E tu nel sonno piangevi e ti disperavi
Ma intanto non potevi fare a meno di picchiarlo e di insultarlo
E lo finivi battendolo in faccia con una sbarra di ferro
Che ricordi bene appoggiata allo stipite
Della portafinestra sulla terrazza
Che un tempo era stata teatro
Dei tuoi giochi forsennati e innocenti
E di una ingenua vanità sociale
Che vi faceva chiamare attico
Una lunga terrazza condominiale
Tuo padre che era venuto
A prenderti a scuola alla terza ora
Ricordi e piangeva sotto gli occhialoni
Guidando verso quel posto
Dove era stata portata lei Simona
Con la sua malattia infettiva
Che perdio era passata al cuore
E lui guidava fumando e piangendo
In mezzo al traffico di Piazza Fiume e di via Nizza
Verso quella clinica elegante del quartiere nostro
In cima a un poggio di pini immani
E flessi che puntavano sulla cima
Dove la tua sorellina
Lottava fra la vita e la morte
Ripetendo che non credeva ai miracoli
Lui e non ci aveva mai creduto
E poi anche se ateo in clinica
Si ritirava nella cappella a piangere e pregare
Ma era successa davvero quella cosa oppure
L’avevi raccontata tu così per riscattarlo
Un po’ da tutto quel fango che gli avevi buttato addosso
Per quella colpa impossibile da sostenere
Quella sul figlio maschio la peggiore
Che lui stesso mill’anni fa aveva scontato
Dal padre suo come marchio d’infamità
Di inettitudine al mondo di disonore?
 
 
E uno degli ultimi giorni suoi
Gli arrivò il rifiuto dell’editore milanese
Poche parole burocratiche e cortesi
In una missiva con il logo editoriale
Nel rettangolo a vista del mittente
Che lui aveva lasciata in bella mostra
Affinché chiunque entrando la vedesse
Sulla cartella di pelle del  fratino
E tu la vedesti eccome
Sotto il cono dell’applique sporco e giallino
E davvero non avevi bisogno d’aprirla
Per decrittarne il contenuto
Ma avevi ben altri pensieri per la testa
Che ragionare sulla mancata pubblicazione
Del suo libro davvero non ti sembrava il momento
Col tumore spietato che avanzava
E la lasciasti lì intonsa
Ma fu lui a entrare in argomento
Pochi minuti dopo in un soffio
Hanno risposto dalla Feltrinelli hai visto?
Hanno rifiutato il romanzo
Ah no non ho visto che peccato!
Mentre parlavi col giovane medico volontario
Della Asl che da qualche giorno con grazia
Lieve e rispettosa lo accompagnava alla fine
Standogli accanto anche senza parlare
Sciroppandosi l’ultimo libro tuo
Che gli aveva passato lui assicurandogli
Che avresti vinto lo Strega
Ed era la prima e unica volta
Che di te s’era mostrato fiero
Tuo padre insomma colui che hai imitato e adorato
E aspettato sotto le coperte
E abbracciato nel mare fra il salmastro e l’acqua di colonia
Che gioia quando veniva a fare il bagno con te
E mangiavate in costume ancora gocciolanti
Le cozze crude spruzzate di limone che vendevano
I banchetti sul lungomare della Riviera di Ponente
E che brividi mentre tornavate di notte a Montefalco
Al buio in mezzo agli orti e agli alberi da frutto
Senza neanche una torcia o un accendino
E quando già nel lettone profumato vi diceva
A te e alla tua sorellina che ti dormiva accanto
Sogni d’oro d’argento di piombo e di formaggio
E certe sere ci aggiungeva anche di prosciutto
E voi ridevate non la smettevate più
Di ridere e aspettavate il bacetto
E così poco durava il tutto
Appena un’annusata di quel fiato buono
Che sapeva di tabacco
Ma non divagare tuo padre preso a legnate
E il sangue invadeva tutta la terrazza
Che da bianca di sole diventava rossa
Di sangue che colava nel tombino
Dio che pena che rimorso che vergogna
Perché ho dovuto farti questo padre mio?
Tu che giaci in cenere nell’urna
Tu che viaggi chissà dove nello spirito dei tempi
Tu che hai scontato già con la morte i tuoi peccati
Tu che venivi certo senza volerlo senza
Mai averlo scelto da quel padre infame
Sì infame e infame lo dico all’infinito
E che risuoni nei secoli la voce mia quel porco
Indegno di definirsi padre e uomo perfino
Che ti aveva insultato e scacciato per sempre
Con quel biblico gesto che aveva messo alla gogna
Tre generazioni in un lontano mattino nei primi anni Trenta
A  Montefalco nel cuore mistico dell’Umbria
Ti  avevano bocciato due volte padre mio
Questo non ce l’avevi mai detto
E  il vecchio ti aveva beccato chissà come
A  fare gare di seghe coi compagni tuoi adolescenti
Davanti alla quercia di Madonna Della Stella
Dietro la tenuta dei Pescanti oltre il frantoio
E ti diceva ch’eri già in lacrime sulla soglia
Coi tuoi fagotti da portare via
Sei un ciucco e un sudicione!
Vattene da questa casa! non farti più vedere!
Hai disonorato questa famiglia, tua madre e le tue sorelle!
Ma lui odiava anche i raduni i gagliardetti
Che portavi addosso padre mio
Quella precoce adesione al fascio
Che per troppo tempo hai omesso
Come fosse un dettaglio da niente
Odiava la tua tenuta da balilla i tuoi modi arroganti
Lui fiero antifascista uomo di cultura uomo di fede
Direttore di banda uno che la sera
Si metteva a suonare Chopin o Verdi al pianoforte
Mentre c’era chi si dava dattorno per la cena
E intanto ti ingravidava la sposa ricca sette volte
Quattro femmine e un maschio
Con gli altri due che perirono nascendo
O pochi mesi dopo chi ricorda
Certamente ottenuti tutti nel più casto dei modi
Col segno della croce prima e dopo
Magari pure vestiti come volete voi
Con quelle camicie da notte fino al polpaccio che usavano allora
Prestigio sociale decoro cattolicesimo ancestrale
Di inizio secolo nel centro verde e sacro dell’Italia
Ecco da dove venivi padre mio
Da quest’uomo irreprensibile e bigotto
Più cattivo di un diavolo incarnato
Che aveva instaurato una dittatura a casa sua
Matriarcale nel senso che tutto facevano
Le cinque donne di casa più le serve
E lui decretava su ognuno
Facendo rispettare alla lettera ordine e disciplina
E con te strepitava in scontri belluini
Persino peggio dei nostri
E se ne andava in giro con un bastone di ebano
E una scura finanziera e l’orologio al taschino che controllava spesso
Per scandire le lunghe passeggiate serotine
Era uso raggiungere il cimitero a piedi
In tutte le stagioni anche se c’era neve
Fra straducole di campagna e pezzi di comunale
Camminando svelto mentre faceva notte
Col suo bastone da passeggio
Che ogni tanto vibrava sulle terga a qualcuno
Quasi sempre per celia o per saluto
Ma con veemenza e perverso
Godimento su quelle del figliolo suo
Che di cinghiate e bastonate aveva tanto bisogno
Perché non studiava e faceva lo spavaldo
E’ stata la zia Pina a informarmi di tutto
Della doppia bocciatura e delle scene madri
E di quel gesto dissennato soprattutto
Che tu meschino avevi trasformato
In romantica fuga
E come potevi fare altrimenti padre mio?
E ancora rabbrividiva al ricordo la vecchia zia
Foderata nel suo salotto napoletano
Fra ninnoli e poggiapiedi di velluto
In vero un po’ svanita nella memoria
Facendomi segno di silenzio
Gesù che ho detto, non farmi parlare!
Quasi temeva una divina punizione
Per avermi svelato quell’arcano di niente
Ch’era rimasto sepolto tutto quel tempo
Quel vecchio calvo e misantropo insomma
E’ di lui che parliamo
Con cui rivaleggiavi scrivendo canzoni
Un’altra battaglia perduta padre mio
Perché nell’albo di famiglia
Lui figura musicista e tu impiegato
Ed eri l’unico accidenti dopo una sfilza
Di altri musici e scrittori
Ecco perché quel vanitoso studio araldico
A casa nostra non era mai arrivato
Quel vecchio che non reggeva i marmocchi me compreso
E si lavava i denti con la salvia
E ti parlava accostato senza curarsi di mandare
Quel mucido odore di crostata andata a male
E ci dava il benvenuto sulle scale
Chiedendoci quando ve ne andate?
Proprio così non son licenze o fole
Quell’uomo là aveva prestigio sociale
L’ho detto e quando passava i paesani
Si levavano il cappello lo ossequiavano
Borghesi e bottegai e contadini
Maestro, come andiamo sor Mae’?
E la signora Carlotta e li fijioli
E la piccoletta Pupa vie’ su bene?
Ma di suo aveva ben poco il Maestro Altiero
Questo il nome sinora taciuto
Le ricchezze venivano tutte dalla famiglia della moglie
Carlotta donna dimessa
Umile e devota e quasi santificata in famiglia
Che davanti alla finestra lavorava a maglia
Come in un dagherrotipo di quei tempi remoti
Tant’era invece altera sua sorella
Gran figura di donna italiana libera emancipata
Protofemminista e forse lesbica
Che insieme alla Montessori era impegnata
Nel rivoluzionario metodo educativo dell’infanzia
E qui si aprirebbe un altro sipario famigliare
Ma mi fermo
Perché non è di quella genia
Che ho voluto parlare
Ma del padre mio ch’è morto
Da sedici anni
E ancora non posso congedare

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