Antonella Anedda, “la poesia è proprio quella ‘cosa’ chiamata poesia”.

ph Dino Ignani

«Davanti alla dismisura delle cose cerco di provvedere,/ scendo nel loro baratro. Ogni volta riemergo/ con il metro, il compasso, la mente piena di cifre./ Mi struggo per la geometria, mi ostino inutilmente/ a calcolare l’area del cubo, del parallelepipedo,/ del prisma, nomi di un’aria di cristallo priva di veleno./ È un sogno infantile di teorema,/ un innesto di mondo su un segmento di radice./ Se la osservi rimanda a un’equazione, al suo quadrato,/ con l’ala dei numeri che svetta su ciò che è smisurato.». S’intitola “Geometrie” la poesia scelta per introdurvi alla lettura di “Historiae”, eclettica raccolta di Antonella Anedda, pubblicata da Einaudi. L’autrice, come nel suo “stile”, cerca di «afferrare i nessi tra le cose», s’incammina verso la chiarezza, verso il «futuro», pur nella distanza che «si incrosta di dolore», pur nell’ora «più grigia senza un suono». S’infila «nell’onda di una memoria della specie». S’interroga «sulla natura della compassione», pensa «a quanto/ siamo alti e miopi e assordati», a quelle vite «ancora, nonostante gli anni, non compiute», all’intelligenza «di cui facciamo vanto» che, di continuo, «risputa il passato nel presente» e alla storia che «moltiplica i suoi spettri». Restituisce una poesia costellata da intuizioni che, a partire dal visibile, affondano le proprie radici nell’invisibile, «e lì aspettare che ritorni l’amore per i vivi».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla sua prima poesia?
Ero in un cortile di una casa in un paesino della Sardegna lontano dal mare. Nessuna Arcadia, e niente turismo. Avevo sentito e poi letto la poesia di un poeta russo: Aleksander Blok. Parlava di vento e di spazio. Ero una ragazzina tarda, ma quella poesia aveva scavato un cunicolo nella mia mente mettendo in moto qualcosa. Era la scoperta di poter dislocare le ricomporre le parole secondo un ritmo che metteva in relazione pensieri, tempo, memoria e spazio circostante.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Nessuno andrebbe dimenticato, ma dipende dai momenti. Oggi, Dante che riflette sulla terra: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”.

Qual è la sua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Come rispondere? Non ho una definizione e nessuna spiega-zione, forse solo la neuroscienza ci riuscirebbe. Da lettrice, credo di sapere quando la poesia, indipendentemente da tutto, c’è. Quando non è una semplice effusione sentimentale (non che ci sia nulla di riprovevole in questo) ma, come diceva Giovanni Giudici, è proprio quella “cosa” chiamata poesia.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Forse quando regge esattamente come una costruzione, un’architettura. Quando riesce a unire luce obliqua, sorpresa e rigore. Quando sembra asciugata ogni retorica, ma cosa può dirsi davvero compiuto? Fino a che viviamo siamo in divenire. La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata? Direi che va letta in profondità e poi semmai ascoltata.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Nessun incarico. Almeno questo!

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Non so la parola poetica debba preservare “l’efficacia comunicativa” ma non credo possa prescindere dal linguaggio del tempo in cui nasce. Possiamo ‘odiare’ il tempo in cui viviamo, ma è quello che viviamo e con cui dobbiamo fare i conti anche combattendolo. È una questione molto complessa. Penso alla traduzione, si deve restituire un poeta usando la lingua di allora? Restaurarlo, insistendo sulla distanza? Oppure fargli spazio ora con il rimo e il linguaggio che usiamo ora? Io propendo per quest’ultima possibilità.

E, ancora, con i suoi versi domando, “Davanti alla dismisura delle cose” cosa può la poesia? Può condurci “verso un luogo dove s’irradia luce”?
Sono versi tratti da due momenti diversi in due poesie diverse. Temo che intrecciandoli ci possa essere un fraintendimento. “Davanti alla dismisura delle cose” è un verso ironico al quale il testo risponde scendendo nel loro baratro e scegliendo l’esattezza. Nel secondo testo si parla di una morte e il luogo dove si irradia luce è quello delle galassie dove non esistono più i pronomi, né io, né tu, dove la morte privata, con il suo ego non ha più senso. Credo che la poesia non ci illumini, non ci porti, forse ci accompagna soltanto, qui, sulla terra.

Infine, per salutare i nostri lettori, le chiedo di scegliere tre poesie dal suo “Historiae”.

Sciami, fotoni
Gas che collidono, tempeste, scontro di comete,
in questo cielo curvo che ci appare in pace
nessuna eco, nessun solco d’aratro,
nessun tragitto di linfa
dalla radice del platano al suo nero,
solo uno stormire di foglie
fino alla stella irraggiungibile
dove il tuo respiro rallentava.
Alla fine dell’inverno, senza neve
– . solo un altro lutto – mi dicevo – inosservato
nel mondo che s’intreccia al gelo.
All’improvviso invece in un angolo del letto
È apparso il sole, scavava silenzioso una sua strada
verso un luogo dove s’irradia luce
e non esistono pronomi.

Geometrie
Davanti alla dismisura delle cose cerco di provvedere,
scendo nel loro baratro. Ogni volta riemergo
con il metro, il compasso, la mente piena di cifre.
Mi struggo per la geometria, mi ostino inutilmente
a calcolare l’area del cubo, del parallelepipedo,
del prisma, nomi di un’aria di cristallo priva di veleno.
E’ un sogno infantile di teorema,
un innesto di mondo su un segmento di radice.
Se la osservi rimanda a un’equazione, al suo quadrato,
con l’ala dei numeri che svetta su ciò che è smisurato.

Confini
L’ennesima notizia della strage arriva questa sera
nell’ora in cui messi gli ultimi panni in lavatrice
si scoperchiano i letti per dormire.
Sullo schermo del televisore unica luce nella stanza buia
scorrono visi morti e morti vivi, lampi di armi,
corpi nudi e dentro ai calcinacci un cane.
La storia moltiplica i suoi spettri, li affolla
ai confini degli imperi nell’era di ferro che ci irradia.
Ha inizio un assedio senza nome.
Acque reflue, alluvioni, rocce spaccate
in cerca di petrolio. Resistono gli schiavi
intenti a costruire le nostre piramidi di beni.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 30 Dicembre 2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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