Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria

Antonia Pozzi idea grafica di Nino Federico
Antonia Pozzi, grafica di Nino Federico

Si tratta di un saggio considerato e apprezzato a lungo, anche molti anni dopo la sua uscita, da studiosi di prim’ordine dell’opera flaubertiana. Primo tra questi è Jean Bruneau, che lo inserì in bibliografia nel suo lavoro sui debutti letterari di Flaubert (Les Débuts littéraires de Gustave Flaubert, Armand Colin, Paris 1962) e ne citò interi brani, approvando le analisi dell’autrice. Ma prima ancora Luciano Alboreto, con Il rapporto vita-poesia in Flaubert (1957-1958); e successivamente Sergio Cigada, nel suo Il pensiero estetico di Gustave Flaubert (1964). Da decenni relegato nelle bibliografie, e sposato nel volgere del tempo al magro destino della marginalizzazione (in questo senso si esprime Chiara Pasetti che cura, del volume, una bibliografia ragionata, analizzando le fonti della tesi e i suoi rapporti di valore nell’ambito degli studi flaubertiani), Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, tesi di laurea di Antonia Pozzi, ha ritrovato alla fine degli anni Novanta un degno posto nel dibattito critico, sull’onda di quella che può dirsi una Pozzi renaissance, ossia la riscoperta e la fortuna, doppiamente postuma, della sua poesia. “Degno”, ma «sempre entro un’ottica specifica, alla luce cioè “delle problematiche filosofiche ed estetiche che pone, sullo sfondo del movimento di idee che genericamente possiamo chiamare banfiano”» (così di nuovo Pasetti, citando Gabriele Scaramuzza, attento studioso della Pozzi e di tutta l’orbita “banfiana”). Il Flaubert si è ritagliato un posto nel dibattito, ma un posto anche nelle librerie, dopo i decenni di latitanza sopra accennati. La prima edizione è remota: risale al 1940, quando, basandosi sul solo dattiloscritto della tesi contenente segni grafici di lettura ed emendazioni dell’autrice e di suo padre Roberto Pozzi, effettivo curatore, fu pubblicata da Garzanti con premessa del relatore (Antonio Banfi). Sono dovuti passare ben settantadue anni prima di vederne la ristampa: uscita alla fine del 2012, la si deve a Scheiwiller (introduzione e commento di Alessandra Cenni). L’edizione che qui si presenta segue quella di pochi mesi, ma suona come un lavoro senza precedenti, risultato di una notevole e necessaria fatica, della raffinata perizia filologica del suo curatore (che ha collazionato manoscritto e dattiloscritto analizzando ed evidenziando relazioni e varianti; riscontrando citazioni, bibliografia e riferimenti in nota), cui si deve anche l’informatissima introduzione e una nota biografica.                                                                                  

Il fatto d’essere un’edizione critica la colloca banalmente sotto la lente degli studiosi, ma non ve la relega, e nemmeno le toglie godibilità, anzi la arricchisce con garbo, nell’evidenza d’essere – mutuando il giudizio di Banfi sulla tesi della sua allieva – un’opera di «comprensione intelligente e viva», ma soprattutto «di amore». È l’amore esplicito che nutre Matteo Mario Vecchio quand’è alle prese col suo oggetto di studio e dei suoi studi in genere, indirizzati spesso verso il pensiero (e il pensiero poetante) di un Novecento italiano e femminile (oltre alla Pozzi si possono citare almeno Daria Menicanti, un’altra “banfiana”, e Cristina Campo).

Giancarlo Vigorelli tra i primi notava, su TuttoLibri-La Stampa del 18 febbraio del 1989, quanto fosse opportuno riproporre al pubblico il lavoro critico di Antonia Pozzi e pure quello, per molti versi analogo, di Guido Morselli su Proust, uscito tre anni più tardi. Anche Morselli era presentato da Antonio Banfi, e anche lui era del resto passato per il magistero del professore vimercatese.

Rimanendo sul solo Flaubert si noterà l’occasione, che esso rappresenta, di entrare ancora una volta in quello spaccato così suggestivo e ormai consegnato alla storia, in quella officina creativa («etica», scrive Vecchio) e feconda su piani tanto diversi quanto relazionali, quella «scuola di Milano», come recita la fortunata formula di Fulvio Papi, che tenne a battesimo tutta una generazione trovatasi poi a vario titolo (nelle accademie, nell’editoria, nel dibattito letterario) protagonista della stagione culturale del Dopoguerra. Si parla di Enzo Paci, Remo Cantoni, Vittorio Sereni, Alberto Mondadori, e appunto Antonia Pozzi (suicida nel ’42), per stare solo alla bella foto di gruppo, scattata a Pasturo nella tarda primavera del ’35 e riprodotta nel volume meritoriamente edito da Ananke.

cop art cirolla pozzi okIn linea con le tendenze della scuola banfiana è la piega interpretativa che Antonia Pozzi adotta leggendo, con iniziativa senz’altro pionieristica, le prime prove letterarie di Flaubert. La poetessa punta dritta al dualismo GeistLeben: quella, classica, del manniano (suo amato) Tonio Kröger, su cui non mancava di scherzare, firmandosi spesso “Tonia” Kröger, come se l’omonimia confermasse un’intima affinità elettiva. In una pagina del suo diario si legge: «Il contrasto fra geist e leben non va inteso nel senso che l’artista è colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita. Infatti, come potrebbe comprendere, veder chiaro, riflettere su ciò che non ha vissuto? Io vorrei dire questo, in ogni modo: che la luminosa vita di Hans e di Inge può essere materia all’arte di T. K. solo in quanto egli vive dolorosamente il distacco da essa e la vede attraverso il suo rimpianto». E ancora, in una lettera scritta nello stesso periodo della foto di Pasturo: «Mi sento più che mai Tonia Kröger, come mi chiamava il povero Manzi (suicida prima di lei, NdA), come ci siamo sentiti – insieme – quella sera da Alberto».

Anche nel lavoro su Flaubert, ed è quanto concerne l’interesse più puramente filosofico, ovvero tralasciate le pur importanti questioni di critica letteraria, è centrato il problema della vita dentro, prima e oltre il problema dell’opera. Sono gli anni del nascente esistenzialismo positivo, figlio diretto, anche nel conflitto, del razionalismo critico banfiano. Scrive Antonia Pozzi: «la stesura di una pagina non implica soltanto la soluzione di un problema letterario, ma rappresenta la risoluzione vivente di un problema di vita». Ma le righe conclusive della tesi di laurea sono le più perspicue: «Nessuno di noi vorrebbe, potrebbe, credo, ripetere la frase che era per lui [Flaubert] la risoluzione suprema dell’esistenza: “L’Arte è abbastanza vasta per occupare tutto un uomo”. L’uomo, oggi, anche l’uomo artista, vuole, deve vivere tutta la vita, se vuole che la sua arte sbocchi finalmente su di una via concreta e feconda, né muoia nelle angustie dell’impotenza individuale».

 *Una versione sintetica di questo pezzo è uscita sulla Rivista di Storia della Filosofia

 

 

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