“Camera sul vuoto” di Bruno Galluccio. La “forza della poesia nella capacità di individuare direzioni nuove”.

Attraversare «le pianure del tempo», magari «cogliere» le tracce «dell’universo bambino», attenuare il «trauma cosmico» dell’inconosciuto, «incoraggiare questa continua ansia di scoprire». Valicare l’idea della fissità, «l’universo non è immutabile». Andare verso «infiniti futuri», verso l’inesplorato e, ininterrottamente, prestare attenzione, «l’ascolto della scienza richiede tutto l’impossibile». Andare verso la «ricerca di una teoria unificante», attenuare il senso dell’abisso nell’urgenza di affidare «ad altri i propri frammenti di memoria/ affinché non vadano perduti nella candela/ che continua a consumarsi». Leggiamo “Camera sul vuoto” di Bruno Galluccio (nella foto in copertina di Dino Ignani), pubblicato da Einaudi (Collezione di Poesia 497). Un volume denso, un viaggio «in bilico tra il qui e l’assenza/ tra la presa in cura e le rivoluzioni cosmiche».  

Qual è stata la scintilla – forse meglio la “stella” – che ha portato il tuo “Camera sul vuoto”?

Questo libro si è andato costruendo intorno a due nuclei tematici.  Da un lato gli studi riguardanti lo stato attuale delle ricerche cosmologiche, dall’altro la rappresentazione di situazioni di vita quotidiana che orbitavano intorno al tema della caduta, dell’equilibrio precario tra un vuoto e un pieno. Si andò poi delineando un percorso molto articolato che inizia che con la creazione e le prime evoluzioni dell’universo, prosegue con la sintesi degli elementi chimici, la comparsa della specie umana, le sue prime consapevolezze su quell’universo da cui proviene. Si continua con episodi che riflettono simbolicamente il contrasto tra vuoto e pieno, tra presenza e perdita e verso il finale ci si orienta verso il futuro toccando ipotesi sul destino dell’universo stesso. Una specie di parabola capovolta che parte da molto lontano, si avvicina progressivamente all’oggi e riprende ad allontanarsi verso un futuro ignoto.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Come premessa generale vorrei sottolineare che mi affascina molto il confronto tra il linguaggio naturale e quello matematico. Sono due mezzi espressivi che si pongono agli antipodi: quello naturale muta in funzione dallo spazio geografico e dal periodo storico, quello matematico è immutabile (pur se ammette espansioni), ed è comprensibile in ogni luogo e in ogni tempo. Per di più il linguaggio naturale “accetta” refusi o mutamenti nell’ordine delle parole che generalmente introducono delle piccole ambiguità, mentre in una formula matematica ogni cambiamento di un solo simbolo può cambiare radicalmente il significato della formula stessa. L’incontro-scontro tra questi due ambiti (la formula che ha bisogno di una formulazione a parole e il fenomeno osservato che ha bisogno di una formulazione matematica per essere generalizzato) mi affascina al punto tale che ho cercato di farli confrontare i tutti i miei lavori. Tornando all’essenza della domanda direi che i miei testi nascono dagli stimoli più diversi: ci sono quelli che si focalizzano su un tema scientifico, quelli che nascono da uno stimolo esterno estemporaneo come può essere una immagine (naturale o prodotto artistico), quelli che originano da una frase colta a volo. Ma a volte è la parola stessa a fare da apripista ad altre parole: mi si presenta in mente un verso che fa da base di un puzzle cui si vanno aggregando altre frasi come calamita di ulteriori ramificazioni.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La poesia cerca di utilizzare il linguaggio al massimo delle sue capacità espressive, sia a livello sintattico che a livello di giustapposizioni di concetti. L’autore ha in mente qualcosa che fa fatica ad emergere, spesso non trova le parole giuste e nemmeno uno svolgimento adeguato, ha di fronte il muro invalicabile felicemente citato nella tua domanda, e allora cerca i mezzi per valicare quel muro, cerca di porsi in prospettiva nuova, cerca di trovare gli strumenti linguistici e/o sonori adatti allo scopo. Come nell’ambito della ricerca scientifica dove, una volta superato un problema, se ne presenta un altro all’orizzonte che indice a tentare cambiamenti di paradigma, così anche in poesia ci si confronta in maniera sempre innovativa con il mondo e con il linguaggio.

Con i tuoi versi, “la fuga delle galassie inorridite/ l’azzardo di creare spazio e tempo”, chiedo: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

La poesia può rendere consapevoli della profonda solitudine dell’essere umano di fronte ai perenni interrogativi sulla sua origine e sul suo destino, ma non può offrire risposte consolatorie. Essa è tuttavia un mezzo che ci consente di stabilire dei ponti verso gli altri: lettori contemporanei o del futuro, scrittori del passato. Su queste basi può incoraggiare l’uomo a tentare anch’egli il suo azzardo, affrontando la vita nella sua pienezza, può spingerlo ad opporsi alle storture sociali e a tentare l’azzardo supremo del rendersi disponibili agli altri: osare la vicinanza, osare condividere il senso di solitudine.

La poesia può risolvere – ancora i tuoi versi – “una impossibilità assoluta di comunicazione”?

Il riferimento fisico che ho inserito in quel verso è un reale fenomeno che mi ha molto stimolato per la raffinatezza della intuizione scientifica e per la valenza metaforica. Si tratta di questo: due galassie espulse contemporaneamente e in direzione opposte alla formazione del cosmo e che abbiano velocità superiore a quella della luce, non potranno mai venire a conoscenza l’una dell’altra, una impossibilità insita nel fenomeno fisico stesso e non dipendente dalla  finitezza umana e non aggirabile con qualsiasi tecnologia futuribile. Mi sembra che sia concettualmente simile ai teoremi di Goedel della matematica nei quali si afferma che in alcuni sistemi formali esistono enunciati per i quali non si piò affermare né che sono veri né che sono falsi. La poesia ha davanti a sé difficoltà in linea di principio non insuperabili per una connessione data, ma che rientrano in quelle sfide continue di cui parlavo nella risposta precedente. Insomma quella impossibilità fisica anche se non applicabile direttamente in contesti umani, ci dà una bella lezione.

Scrivi: “l’ascolto della scienza richiede tutto l’impossibile”, quello della poesia cosa richiede?

Credo che la forza della poesia stia proprio in quel continuo confronto con ciò che appare invalicabile o inesprimibile, stia quindi nella capacità di individuare direzioni nuove, proseguire nel lavoro di scavo, raffinare le capacità espressive. Penso anche che sia la poesia che la ricerca teorica (e mi riferisco qui alle scienze più astratte come la fisica teorica o la matematica) abbiano a che fare con una specie di illuminazione, devono sapersi porre nei confronti del sapere corrente  con sguardo nuovo e creativo, non porre limiti alla propria capacità visionaria , devono avere il coraggio e l’inventiva di  mettersi al di fuori dalle certezze consolidate e osservare  il modo in maniera eretica. È proprio questo impossibile, che potrebbe per pigrizia mentale o per timore reverenziale indurre a rimanere immobili, che va invece infranto, sapendone poi esaminare con occhio critico gli esiti, perché, sia ben chiaro, non tutti i tentativi vanno a buon fine

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?

La forma e il suono devono amalgamarsi con la parola poetica come in una stretta di mano o un abbraccio; per me la forma non è un feticcio, uno schema cui adeguarmi a priori ad ogni costo, seguo un ritmo non regolare ma quando leggo ad alta voce ciò che ho scritto devo avvertire che effettivamente emerga questo ritmo, che può includere i metri classici della poesia italiana, ma a volte si concede dissonanze se ciò può essere funzionale al progetto espressivo. Insomma il testo deve “suonare bene” ed essere in accordo con le mie intenzioni compositive.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

Ricevere attraverso i social media o nelle presentazioni (soprattutto nelle scuole) commenti da persone che non conoscevo assolutamente le quali si sono rispecchiate nei miei versi o che hanno intuito chiaramente concetti che non erano espressi esplicitamente.  Anzi aggiungerei che i commenti altrui mi hanno fatto a volte riflettere meglio su sfaccettature insite in un testo ma non presenti in me a livello consapevole.

 

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “Camera sul vuoto” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere. 

Non conservo traccia delle versioni intermedie dei miei testi e del resto la mia scrittura procede attraverso molti rifacimenti, sostituzioni di vocaboli e tagli implacabili. Riporterò invece un esempio “a contrario” di un testo che nacque in versione quasi identica a quella finale, perché aveva alla base una intuizione forte: volevo operare interscambi tra le dimensioni spaziali, temporali e perfino sintattiche . Un obiettivo complesso che però mi portò ud una rapida stesura dei versi che lo potevano rispecchiare.

Il testo è tratto da “Camera sul vuoto” edizione Einaudi.

lascio il mio giardino verso l’origine del mio giardino

niente fiori ma solo il nome dei fiori

nessuna passeggiata ma solo l’intenzione

il muro di cinta una creatura di immagine

tutto in una pre-forza che sovrasta il progetto

ciò che ci siamo detti non è mai stato detto

e le tempeste erano solo un annuncio di tempesta

mai uccelli in volo

e le zolle di terra ignare dell’evoluzione geologica

Concludo con un sentito ringraziamento per questa stimolante intervista.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 12.02.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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