Carlo Gozzi, Turandot (Marsilio, 2020)

Carlo Gozzi, Turandot (Marsilio, 2020)
a cura di Nadia Palazzo, introduzione di Paolo Bosisio.

La scelta del soggetto da parte di Gozzi si inquadra, certamente, nella straordinaria fioritura della letteratura esotica nel teatro veneziano. Eppure, non vi è dubbio intorno al fatto che la stesura dell’opera sia scaturita, primariamente, dalla necessità di Gozzi di difendersi dagli attacchi che i suoi avversari avevano rivolto alle prime produzioni fiabesche, nell’intento di dimostrare i propri meriti come autentico drammaturgo, affrancato dal ruolo quasi ancillare consapevolmente svolto nei confronti della Commedia dell’Arte. Mosso, dunque, da motivazioni polemiche e dall’intenzione di sperimentare strade nuove per la sua ancor giovane drammaturgia, Gozzi imprime con Turandot, quarta fra le sue fiabe, una svolta al corso della propria esperienza di scrittore per il teatro.

Carlo Gozzi

Nel 2006, in occasione delle celebrazioni del secondo centenario della morte di Carlo Gozzi (1720-1806), la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia ha messo a disposizione degli studiosi il Fondo Gozzi, l’archivio familiare rinvenuto nella villa patrizia di Pasiano di Pordenone e da poco acquisito. Ricco di novemilacinquecento carte manoscritte – per buona parte stese di suo pugno dal minore dei fratelli Gozzi –, esso conserva di Carlo numerosi testi preparatori, finora del tutto ignoti, di opere edite e numerosi testi inediti: commedie, atti unici, programmi coreografici, componimenti poetici, traduzioni, interventi polemici, saggi, scritture amministrative. La ricchezza, la qualità e la novità dei materiali è tale da costringere a riaprire il cantiere degli studi gozziani. È quanto si propone questa edizione nazionale, che intende offrire i testi noti e ignoti di Carlo Gozzi in edizioni criticamente accertate, corredate dalle redazioni preparatorie e debitamente commentate.

Scelto per voi

ATTO

SECONDO SCENA V

TURANDOT
Principe, desistete
dall’impresa fatale. Al Cielo è noto,
che quelle voci, che crudel mi fanno,
son menzognere. Abborrimento estremo
ch’ho al sesso vostro, fa, ch’io mi difenda,
com’io so, com’io posso, a viver lunge
da un sesso, che abborrisco. Perché mai
di quella libertà, di che disporre
dovria poter ognun, dispor non posso?
Chi vi couduce a far, ch’io sia crudele
contro mia volontà? Se vaglion prieghi,
io m’umilio a pregarvi. Desistete,
principe, dal cimento. Non tentate
il mio talento mai. Suberba sono
di questo solo. Il Ciel mi diè in favore
acutezza, e talento. Io cadrei morta,
se nel Divan con pubblica vergogna
fossi vinta d’acume. Ite, scioglietemi
dal proporvi gli enigmi; ancora è tempo;
o piangerete invan la morte vostra.

CALAF
Sì bella voce, e sì bella presenza,
sì raro spirto, e insuperabil mente
in una donna! Ah qual’error è mai
nell’uom, che mette la sua vita a rischio
per possederla? E di sì raro acume
Turandotte si vanta? E non iscopre,
che quanto i meni suoi sono maggiori,
che quant’avversa è più d’esser d’uomo moglie,
arder l’uomo più deve? Mille vite,
Turandotte crudele, in questa salma
fossero pur, io core avrei d’esporle
mille volte a un patibolo per voi.

ZELIMA (bassa a Turandot)
Ah facili gli enigmi per pietade.
Egli è degno di voi.

ADELMA (a parte)
Quanta dolcezza!
Oh potess’esser mio! Perché non seppi,
ch’era prence costui, prima che schiava
mi volesse fortuna,’ e in basso stato!
Oh quanto amor m’accende or che m’è noto,
ch’egli è d’alto lignaggio! Ah che non manca
mai coraggio ad amor. (basso a Turandot) La gloria vostra
vi stia a cor, Turandot.

ATTO QUARTO

SCENA I

TURANDOT
Tempo è ancor di salvarvi. Io rinnovello
i prieghi miei. Quel monte d’oro è vostro.
Ma se del padre, e dell’ignoto il nome
v’ostinate a occultarmi, flagellati
dalle robuste braccia de’ miei servi
senza compassion cadrete morti.
Olà ministri, pronti a’ cenni miei.
(Gli eunuchi, fatto un profondo inchino, s’armano di bastoni)

BARACH
Paga sarai Schirina. Or t’è palese
l’effetto del tuo errore. (con forza)
Turandot, saziatevi pure. Io non intendo
di sospender tormenti. Risoluto
anzi son di morir. Crudi ministri,
percuotetemi, via. Del prence ignoto
conosco il padre, d’ambedue so i nomi;
ma strazio, angoscia vo’ soffrire, e morte;
e non mai palesarli. Quei tesori
meno del fango apprezzo. Tu, consorte,
non t’affligger per me. Quelle tue lagrime,
se in un barbaro cor’ penetrar ponno,
per quell’afflitto vecchio’ impiega solo.
Resti ‘l misero salvo. (piangendo) Egli ha sul colpa
d’esser amico mio.

SCHIRINA (supplichevole)
Deh per pietade…

TIMUR
Nessun s’affligga, alcun non prenda cura
d’un, che a uscir di miseria ha esperienza
che sol morte può trarlo. Amico, io voglio
te salvare, io morir. Sappi, tiranna…

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