Chandra Livia Candiani, “La domanda della sete”, poesia che fa delle ferite luce di parola.

«Ascoltare. Ascoltare e basta./ Ascoltare meglio». Ascoltare tutti, non ultimi gli alberi e gli animali che «abitano la meraviglia». Percorrere quieti lo spazio «zeppo di possibilità», fronteggiare le distanze, elevarsi, «molto povero/ è l’occhio/ finché non è il mondo». Ascoltare il «fuoco sotto la pelle del ricordo», fino a sentire la voce chiamarci «fuori/ dalla tana del corpo», fino all’amore che «battezza la deriva», «fino a una scossa di risveglio», fino a divenire «continuità d’essere». Ascoltare e credere, «al bianco che fa silenzio/ e consegna la prossima parola». Chandra Livia Candiani ci accoglie con l’integrità di parole («impronte digitali») come sementi disseminate nell’udito del tempo. Parliamo di “La domanda della sete”, poesie (2016-2020), recente libro pubblicato da Einaudi.

Perché “La domanda della sete”? Perché questo titolo?

Il titolo ‘La domanda della sete’ ha due facce, da un lato parla della sete che ci governa, che ci fa sentire sempre mancanti e insoddisfatti e che se ci fermassimo a sentirla anziché correre subito a soddisfarla, scopriremmo che ha dietro di sé una domanda e che è quella domanda ad aver bisogno d’acqua. Dall’altra, dice che non accorgersi più della propria sete uccide la domanda, rende sterili, indifferenti, spegne il desiderio dell’altro. Una poesia di Emily Dickinson dice: “L’acqua è insegnata dalla sete.”
Mi sembra che la (mia) poesia nasca da una sete e da una domanda, da un bisogno di dissetare la domanda e anche di assetare perché la domanda non si esaurisca mai.
Il libro è percorso da tanti temi, il corpo come battello, l’essere testimoni, l’amore come domanda della sete, l’essere chiamati prima o poi al volo, gli altri, i nascosti, e gli alberi e gli animali che abitano la meraviglia. Ma credo che lo sfondo sia proprio la domanda e la sete che la domanda crea.

Cosa può la poesia a favore di tutte le ferite che “vengono alla luce/ brillando”?

È proprio la poesia che fa delle ferite luce di parola. Almeno per me, non posso e non voglio assolutamente mai dire la poesia è questo o è quello, fa così o fa cosà. Parlo di quello che succede a me. Dare un nome alle cose, che siano esterne o interne poco importa, orienta e fa proprio. Quando una ferita parla, si è già un po’ salve. E la poesia parla senza spiegare, né narrare, fa brillare, come si fanno brillare le mine. Una ferita brillata, è una possibilità di vita in più, un accrescimento di consapevolezza.

In che modo la vita diventa linguaggio?

Si possono separare? Il linguaggio è la vita, senza sarebbe qualcos’altro. Quando cammino in un bosco cammino tra le sue parole. Poi c’è il tempo del silenzio, della fecondazione e della macina. Tempo prezioso e difficile. Infine le parole scendono e dicono quel che in loro è rimasto segnato. Quei segni sono la vita tatuata in me. La vita che mi parla senza suoni diretti, la sua voce segreta.

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?

Non so assolutamente quale dovrebbe essere la lingua ideale. Io la lingua la perdo, poi mi viene a cercare, la ritrovo ed è lingua salvata. Poi la perdo di nuovo. Penso che per la poesia ci voglia risveglio, apertura, attenzione, desiderio e lettura. La forma non è separata dal contenuto, arrivano insieme, certe volte va lavorata tanto, non è immediata perché c’è qualcosa che si è interrotto, un ascolto assordato, magari dal troppo rumore, magari dalla disattenzione, magari ancora dalla sfiducia. Allora è un lavoro di scalpellino e di minatore, ma anche di attraversatore di oscurità, di ricerca nel buio. Per me. Diciamo anche che rispondo per quello che le tue domande mi dicono in questo momento, ma non so niente, quello che dico è tutto a posteriori, quando aspetto e quando scrivo non so assolutamente niente.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione; qual è, per i giovani che si stanno avvicinando alla tua poesia, la tua opinione in merito?

Sì c’è una visione del mondo, dell’esistenza, di sé e dell’altro, di qui e di altrove, della morte e dell’amore, di tutto, ma deve restare uno sfondo, l’attingere smemorato all’acqua che passa, al flusso. Perché altrimenti la poesia diventa didascalica o ideologica o religiosa. Io pratico il liberare spazio nella coscienza, lo svuotamento dei pensieri, il bianco, la pausa, è questo che fa emergere la visione senza costruirla a priori. So scrivendo, scrivo intuendo, qualcosa bussa dentro, è urgente, è necessario ma non so cos’è. Come quando un attore entra in scena, in quel momento io vedo tutto di lui, la sua cultura, i suoi affetti, il suo modo di essere al mondo, le sue paure eppure non so niente di lui, ma vedo tutto. Così la poesia lascia trasparire, come fanno le stagioni.

Con la fiducia (questo è ciò che ci sembra di cogliere leggendoti) qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

La poesia stessa è il dono. Mi sento così onorata delle sue visite. La sua festa è festa del sangue. Che esista, che esista il bisogno di poesia e la necessità di poesia e che arrivi così leggera, così priva di pretesa. Mi piace il suo incedere, mi spavento del suo sparire, mi dà essere, mi nasce, mi mette al mondo.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a scegliere una tua poesia dal libro “La domanda della sete” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Dentro il fiume
non essere risoluti
balbettare e inciampare
lasciare l’adozione terrestre
senza alleanze navigare
faccia al cielo
il corpo battello.
Lasciarsi guardare
dalle luci celesti,
la franchezza della paura
è un nadir
che cura i polsi
e regola le direzioni.
Se ti senti frantumabile
hai un punto di forza
da cui sentire.

Ero in una banca, un incontro economico-legale con altre persone, spiacevole, sono uscita per riprendere fiato, per non sentire troppo orrore per certi comportamenti di prepotenza e per non rispondere nello stesso modo, con lo stesso tono. Ho chiuso gli occhi e ho sentito la mia fragilità ma anche la potenza del mio sentire e ho scritto in fretta su un taccuino gli ultimi tre versi: Se ti senti frantumabile/ hai un punto di forza/da cui sentire.
Ho sentito anche che il mio modo di vivere è di entrare nel fiume, di non restare sulla sponda ma è anche vacillante e balbettante. Sono tornata alla riunione. Ho fatto silenzio. Le cose si sono sciolte, ma me ne sono andata via in fretta, per non cadere nella compiacenza e nei convenevoli dopo la prepotenza. A casa, dopo qualche giorno, è arrivato il resto. La sensazione del mio galleggiare e del lasciarmi guidare dalle tenui luci celesti era come mi sono sentita, quasi ridicola, forse un po’ patetica nel mondo degli affari e delle furbizie. La poesia è venuta a dirmi che andava bene così. Mi pare di non aver nemmeno dovuto correggere molto, mi pare che le parole piovessero esatte dopo un’attesa. Non so di chi fosse la voce che mi parlava, forse del respiro che avevo accompagnato uscendo di scena per qualche minuto? Non lo so. So che qualcosa ha visto l’assenza di alleati e ha detto: galleggia, qualcosa ti sosterrà.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 18.04.2021, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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