Chandra Livia Candiani, “la poesia insegna a farsi dire dalle parole”

 

«Il sonno è nostro / ordinario stato / finché non arriva / un vento di parole una / poesia, / un pastore d’istanti / con arcaica sapienza della cattura». Versi di Chandra Livia Candiani, schiudono la raccolta “Fatti vivo”, edita da Einaudi, un inno luminescente al risveglio, alla trasparenza, all’amore. Di foglio in foglio, la “bambina pugile” si muove lottando, in «confidente intimità», contro se stessa, contro la «sveltezza del tempo», contro la complessità del mondo, donandoci (anche) l’incanto di «un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto». Facendosi memoria, ci ricorda che siamo «poco poco / e tutto tutto / insomma un secchio d’acqua / e il sale. E il mare». 

Ci racconti ‘come vivi’, di ‘che cosa vivi’ (quale lavoro svolgi) e se è vero che di rime non si vive?

Sto tanto in casa. Sono un po’ un tipo da interni o da foresta e poi per lavoro traduco. Soprattutto testi buddhisti ma anche di altre tradizioni spirituali, testi che mi superano, mi fanno sentire minuscola. La giornata di un traduttore si svolge per lo più in casa, comprende molti tè o tisane, orari molto flessibili, e una gigantesca solitudine. Interiormente, sei in comunicazione, qualche volta in comunione, con l’autore che traduci, ma fisicamente non vedi nessuno e stai sempre al tavolo da lavoro. Al mio, ho tagliato le gambe e quindi sto seduta a terra e mi fa meglio alla schiena e anche alla sensazione di avere radici. Ti puoi alzare tardi e tradurre di notte o al contrario tradurre prestissimo e avere tempo libero nel pomeriggio. Mangi e dormi quando vuoi. Quando ti avvicini alla consegna, non hai orari che tengano. Riconosco a prima vista un traduttore che sta per consegnare: ha quasi sempre gli occhi stanchi e insieme famelici e una certa elettricità fisica nei capelli e nella pelle, è anche un po’ scostante.
Qualche volta, soprattutto quando inizi un nuovo libro, c’è una lotta corpo a corpo con l’autore, perché non vuoi scomparire, farti da parte, per far spazio al linguaggio di un altro, alle sue idee ed esperienze. Altre volte, c’è subito un riconoscimento e non sono le traduzioni migliori, bisogna fare attenzione a non fondersi troppo, come pure a non tenere troppa distanza. È un po’ un lavoro da funamboli. Ma anche da medici e da radiologi, un po’ impudico e un po’ intimo. Vai a perlustrare cosa sta sotto un libro, le singole parole, le scelte di tonalità affettiva, i ritmi. E poi ti devi giostrare tra il suono e il significato, uno o l’altro prima o poi lo devi tradire. Nel caso dei Maestri, c’è anche da tener conto che parlano di esperienze che non sempre hai vissuto e vanno cercati i termini giusti, ci vuole una certa conoscenza della cultura, di solito orientale, da cui provengono, ma anche una qualche esperienza diretta di quello di cui parlano, averne almeno tastato il terreno, assaggiato il sapore.
Il mio secondo lavoro, invece, mi porta molto in giro, lunghi percorsi su vecchi tram traballanti e freddi in inverno, pieni di correnti in primavera, oppure cambi di metrò, autobus e pezzi a piedi, per raggiungere le scuole elementari di periferie diverse in cui al pomeriggio insegno poesia. È un lavoro quasi opposto al primo, molti percorsi fuori casa, molti incontri. Soprattutto con i bambini. Bambine e bambini mi chiedono una presenza onestissima e nuda e quindi più che altro mi preparo a questa risonanza magnetica costante a cui sono sottoposta. Non mi è difficile e le lunghe ore di selvatichezza necessarie a tradurre aiutano. Mi aiuta anche il mio non aver mai abbandonato del tutto l’infanzia, non come età ma come luogo e modo di conoscenza del mondo e di se stessi e come attrazione inevitabile per il gioco. Per esempio, quando nevica, e la neve è la mia madrina, e tutti imprecano, arrivo a scuola e trovo un intero popolo di bambini incantati perché, come ha scritto un bambino russo: “La neve è bella perché è bianca.” Stare con i bambini stanca molto ma nutre altrettanto. Ho la sensazione di tornare al mio paese, a una lingua di tocchi, occhiate, sorrisi, smorfie e abbracci che mi manca tantissimo con gli adulti. E poi, mentre con gli adulti il mio essere diretta mi crea molte esclusioni e offese, con i bambini è il minimo campo base, si parte sempre da lì e lì si ritorna.
Medito, cerco di farlo sia all’interno di una forma, con altri e da sola, seduta o camminando, ma anche senza forma, ascoltando chi parla, rispondendo a chiunque mi scriva, dicendo ‘no’ se ne ho bisogno, lavando i piatti, mangiando, appendendo il bucato, insomma dedicandomi alla sopravvivenza e coltivando la vita leggendo, ascoltando musica e facendo il clown, che è una mia passione un po’ segreta.
Ho l’insonnia da quando sono nata o quasi, certe volte sto sveglia per ore di notte, allora respiro sapendo di respirare oppure penso a tutte le persone che conosco, certe volte mi preoccupo per loro, altre volte le consegno al bene, penso: vita, pensaci tu che io non sono capace. Spesso sono alle prese con le mie voci demolitrici, una lotta estenuante.
Certo che non si vive di versi. Per me è un bene però, sono contenta che la poesia non sia una professione, sono contenta di dovermela cavare come tutti con la sopravvivenza, fa bene stare nel mondo mescolato di tutti quanti. Sto invecchiando e sto diminuendo gradualmente l’attività di lavoro e gli incontri, ho tanto bisogno di silenzio e di vuoto, ma cercherò di non passare mai tutto il mio tempo a leggere e scrivere. La vita è vasta.

Oggi a cosa serve la poesia?

Spero che la poesia non serva. Tanti anni fa, all’inizio di un mio libro di ninnananne per il mondo, “La nave di nebbia”, ho scritto: “Le ninnananne non sono necessarie al mondo, ma per qualcuno le cose inutili sono indispensabili.” Spero che non muoia mai il bisogno di poesia e che esistano poeti che, sentendolo in loro, rispondano scrivendo quello che vorrebbero leggere. Penso che la poesia sia necessaria, non utile. Molti dei bambini a cui insegno vengono da altri paesi, alcuni sono qui da un po’ di tempo, altri da pochissimo. Per loro, è essenziale scoprire che in un’altra lingua possono dire non solo le parole per sopravvivere ma anche quelle per salvare la realtà, possono dire il sentire, i sogni, le paure, le disperazioni, la gioia forsennata. Quando poi scoprono che le parole si possono unire, che puoi scrivere acqua, pane, casa e insieme nostalgia, tesoro, nonni, lontano, vicino, allora esultano. Possono lasciarsi dire dalle parole. Spesso, cambiando lingua, cambiamo tutti interi. Loro attraversano un grande buio, quando le loro parole non servono più e quelle nuove non risuonano dentro, sono fredde, secche. Si sbriciolano. Accompagnarli per mano in quel buio è un grande onore.
Per me la poesia attraversa sempre quel buio, sono parole dopo una catastrofe, anche linguistica.
La poesia forse aiuta a non morire, a parlare dopo le morti che viviamo in vita. A ululare e cinguettare, soffiare e ruggire, fare versi. Non voglio dire al posto di un altro, dico scavando in me, ma certe volte incontro l’altro in quella buca profondissima, gli sfioro una mano e allora dico e l’altro si riconosce, ma non l’ho fatto apposta. Ho solo raggiunto un punto dove io e tu sono distinzioni arbitrarie, l’altro è me in un’altra forma. La poesia insegna a ricevere le parole, a farsi dire dalle parole, quindi è una faccenda di umiltà, di attesa, di spiazzarsi per non dire opinioni ma memorie antenate o fulmini intuitivi, lampi di futuro. È un dono e come tutti i doni può andare perduta o spezzarsi e come tutti i doni ci vuole gratitudine e ricettività e anche sapere che non ci appartiene. Il processo stesso di nascita di una poesia è misterioso e misteriosa è la relazione tra la vita del poeta e la sua opera. Spero quindi che trasporti un po’ di mistero nel mondo dove tutti sanno tutto. Mi sembra che l’esistenza stessa della poesia dica che il male è attraversabile e trasformabile, che la fuga non è l’unica soluzione, che di ogni cosa si può fare una mappa vivendola, una mappa che si forma camminando passo passo e passo passo si disfa e se c’è una via d’entrata, ce n’è anche una d’uscita. La poesia insegna a sostare e a perdere l’illusione del controllo. Ogni vita ha la sua dignità e ogni millimetro di caduta anche.

Come e quando scrivi (c’è un momento ideale)?

Ho notato che scrivo più spesso di mattina. Ma non è sempre vero. Dipende dall’urgenza. Ci sono momenti traboccanti e altri minuziosi, alcuni di possessione e altri che hanno la misura di una scienza. Ci sono pause e letarghi. Ci sono notti in cui la poesia mi suggerisce versi e altre in cui distruggo tutto e mi sento una nullità. Quello che si ripete è il bisogno di vuoto e di solitudine, pari al bisogno di esperienza, di contatto e di gioco. Inspirare ed espirare, incontrare e ritirarsi. È importante per me accorgermi quando sono sotto il tiro di un giudice interno, un killer di grande precisione. Se me ne accorgo, vedo che i versi sono stati tutti mitragliati e con un po’ di tristezza ne raccolgo i frantumi. Però è anche importante per me non scrivere per lunghi periodi senza disperarmi o disperandomi pure, saper stare sottoterra, aspettare un nuovo spuntare, la crescita di una nuova pianta. Altre volte invece è tutto uno scavare, in miniera o comunque nel sottosuolo. Quando ho periodi d’oro, i versi arrivano anche mentre sono in giro e li annoto su agendine piccolissime, poi a casa li trascrivo. Lavoro anche tanto di revisione. Ci sono poesie che nascono perfette, forse travestono una musica, sono spartiti. Altre invece hanno bisogno di aiuto, di levatrice, di ascolto scrupoloso, accuratissimo. Chissà da dove vengono tutte quante. Spero di non scoprirlo mai.

Quali sono (per quali ragioni e in quali occasioni) gli autori da rileggere?

Ci sono poeti che per me sono come parenti e come fontane, danno identità e dissetano. Alle spalle del mio tavolo, su uno scaffale della libreria ho una fotografia di Pasternak, con la sua faccia da cavallo in pausa, si è appena fermato tutto spettinato, ma da un momento all’altro potrebbe galoppare via. Verso un’altra ispirazione. Certe volte lo sostituisco con un altro poeta russo. Certi poeti non è nemmeno che li rileggo, è che vivono con me. Sono Pasternak, Rilke, Marina Cevetaeva, Mandelstam, Anna Achmatova, Esenin. Loro sono famiglia. Mi insegnano che la poesia non è uno stile letterario ma un modo di vivere, un eccesso pulsante che cerca la sua misura per essere trasmesso. Poi da qualche anno rileggo Mahmud Darwish. Poeta in stato d’assedio, come fare di danni semi e annaffiarli ogni giorno e aspettare e vedere cosa cresce, allora comunichi che la gioia non ha opposti, che il male può fecondare e la poesia è un metodo a cui va bene qualsiasi materia, perché la poesia è incondizionata. E Dickinson che fa di un microcosmo la spaziosità della non dualità, un tutto vastissimo privo delle strettoie dell’opinione. Non smetto mai di andare a visitare le poesie di Paul Celan, Eliot, Robert Frost, Stevens Wallace, Yeats. Mi danno misura, essenzialità, capacità di disobbedire alla richiesta collettiva di un significato immediato. Ci sono libri di poesie che ti spingono a scrivere, ti innestano un contagio. Altri libri ti acquietano, ti fanno intendere che hai bisogno di riflettere, di aspettare nuove voci, nuovi indirizzi. Ci sono libri che ti schiacciano e altri che ti sollevano. Ho bisogno di tutti. Leggo nuovi e vecchi poeti, mi accorgo subito se un libro fa per me, lo sento da un febbricitare nelle vene, se non lo sento, lascio perdere. Ci sono anche romanzi che fanno venir voglia di scrivere, cioè di vivere.
Il magnifico della poesia è che rileggere è sempre leggere per la prima volta, un libro di versi è infinito.
Dice la volpe al Piccolo Principe: “Gli altri passi mi faranno rintanare sotto terra. Il tuo mi inviterà fuori dalla tana, come una musica.” Cerco poesie che mi facciano uscire dalla tana, all’aperto, a tremare e ascoltare voci. La poesia non è dar voce a chi non ce l’ha?

Chandra Livia Candiani è nata nel 1952 a Milano dove vive. Ha pubblicato: Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005),
La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Interlinea 2015), La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014, vincitore premio Camaiore 2014), Ma dove sono le parole? a cura di C.L. Candiani con A. Cirolla (Effigie edizioni 2015 – Le poesie scritte dai bambini delle periferie multietniche di Milano durante i seminari tenuti da C.L. Candiani), Fatti vivo (Einaudi 2017). Nel 2001 ha vinto il premio Montale per l’inedito. Nel 2014 il premio Camaiore. Nel 2016 il premio per la cultura civile Pier Mario Vello.
Traduce testi buddhisti, conduce seminari di poesia nelle scuole elementari delle periferie milanesi, nelle case alloggio per malati di aids e per i senza casa e gruppi di meditazione per adulti in ricerca.

versione fedele e integrale dell’intervista, a cura di Grazia Calanna, apparsa sulla rivista Elle (Ottobre 2017); ph Melina Mulas.

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