L’oscurità del cuore che batte e quella della falsa coscienza: Laura Di Corcia e Massimo Gezzi

In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due giovani poeti orbitanti in area svizzera.
Nelle vene della scrittura di Laura Di Corcia s’innerva il «sentimento del tempo, che passa e si blocca allo stesso tempo, trasformandosi anche in una dimensione spaziale, concreta. È trovare il punto di incontro in quell’asse cartesiano».
Anche per Massimo Gezzi non c’è «una persona, una musa, una presenza identificabile, ma il mondo in tutte le sue apparenze e i suoi fenomeni».
La loro ispirazione trae nutrimento, oltre che dalla poesia e dai poeti, da esperienze di lettura diverse: James Hillman per Di Corcia e molti romanzieri per Gezzi. A riprova del fatto che il campo poetico va seminato e irrigato in maniera sempre diversa e consonante con le sensibilità e i tempi interiori di ognuno.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

 

L’ultima opera in versi di Laura Di Corcia è In tutte le direzioni (Collana Gialla Pordenonelegge, LietoColle, 2018); quella di Massimo Gezzi è Uno di nessuno (Edizioni Casagrande 2016).

 

CINQUE DOMANDE AI POETI: LAURA DI CORCIA

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

È una domanda molto evocativa. In realtà scrivere per me è come varcare la soglia di un territorio, andare in una zona che fa parte della nostra vita, anche della tanto aborrita e negletta quotidianità, ma non percepiamo per il suo rimanere silenziosa, quasi opacizzata. Scrivere quindi significa prima di tutto passare con sensibilità, delicatezza e ascolto un panno di daino sulle parti opache, lucidarle, ma senza esagerare: devono rimanere anche un po’ ruvide, grezze, in modo da scongiurare la maniera. Forse quello che si innerva nella mia scrittura è un sentimento del tempo, che passa e si blocca allo stesso tempo, trasformandosi anche in una dimensione spaziale, concreta. È trovare il punto di incontro in quell’asse cartesiano.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Non c’è nulla di più oscuro del proprio cuore che batte, un meccanismo fondamentale per rimanere in vita ma impossibile da controllare. È l’alterità più grande che conosciamo: il vero straniero è dentro di noi (su questo concetto si basa il mio secondo libro, In tutte le direzioni). Tutto il resto è un riflesso, una specie di coazione a ripetere. Il tempo scorre e si blocca. Forse l’oscurità più grande me l’ha mostrata James Hillman. A fine lettura del suo Psicologia alchemica ho provato un senso di smarrimento profondo: è stato come cadere in un fossato, ritrovarsi in un bosco sconosciuto senza il soccorso di una mappa. Io, da sempre legata a Jung, a quell’idea di individuazione che si concreta in un percorso, uno spazio preciso che va da un punto a un altro, mi sono ritrovata molto destabilizzata davanti alla figura del cerchio o della spirale. Poi ho capito che non c’è, in realtà, nulla di più tranquillizzante di quell’eterno, fermissimo, e sempre in movimento. Questo anima, tra l’altro, la struttura del mio prossimo libro, che è una sorta di progressione inversa, una lunga sedimentazione a forma di ruota.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Ci sono poeti dove si sente un fondamento solido, opaco, appunto, che regge la scrittura, la quale pare partire per viaggi volti unicamente al ritorno. È come se la parola arrivasse solo a negarsi, esibendosi come palese menzogna. Quindi, al di là dei nomi, i poeti e le poete che mi appagano di più sono quelle che sanno esporre la menzogna, la truffa. Per rispetto profondo verso la verità, oltretutto, che è bloccata, quasi ossidata in quella bugia originaria.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Questa domanda mi mette un po’ in difficoltà e mi spinge a mostrare qualche criticità rispetto al modo in cui è stato compilato il canone dei poeti in lingua italiana: ho come l’impressione che chi scrive con grande energia verbale venga castigato, che ci sia un po’ di sospetto nei confronti della proliferazione del verbo, il suo darsi come nucleo generativo magmatico. Si preferisce una scrittura più posata, più sedimentata e con un assetto unitario. Bembo, senza nulla negare al suo imponente lavoro, ha posto le basi per un petrarchismo che scontiamo anche oggi, persino negli ambienti più sperimentali, che tendono a consacrare forme più incasellabili e a provare una sorta di timore nel sottoporsi a quel voltaggio di cui fate riferimento nella domanda. Io tendo ad essere politeista e ad accogliere diverse forme di scrittura, sapendo che la vita non si definisce mai nell’unicità ma nella pluralità delle esperienze e dei percorsi. E quindi se dovessi fare un nome, il primo che mi viene in mente, è quello della troppo dimenticata e accantonata Claudia Ruggeri. Poeta mostruosa, dotata di un dispositivo creativo irrefrenabile e saldamente connesso alle radici e contemporaneamente alle altezze. Affine alla sua ricerca ci sono quelle di Emilio Villa e, in alcuni casi, alcune scritture di Giancarlo Majorino. Un poeta a vasta gittata è anche Roberto Sanesi. Poi mi viene in mente un’autrice non italiana, grandissima, Joy Harjo, che quando ho sentito per la prima volta mi ha conficcato una punta acuminata nel palmo della mano.

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Il testo è questo, uno degli ultimi: si spiega da solo.

Trincea

La scena è questa: c’è una bambina che mi esce dal centro e mi tira via un torsolo di petto. Cammina per le strade grigie come per un corridoio lunghissimo ed essenziale. I vetri tremano, l’aria diventa vulnerabile. Tutto si assottiglia, la pelle e i torsoli penzolano da un punto imprecisato nel mezzo. Io la guardo camminare e non posso fermarla.
Mentre lei gira per il mondo ridendo, io sanguino. Perdo centimetri, e improvvisamente non sono più a casa, ma vago con lei, elemosino, tendo la mano ai passanti. Tutti la deridono, io continuo a sanguinare.
Non appoggiare la guancia sul vetro, no! Lascia che i piedi facciano pressione per alzarsi, supera questo momento ricordandoti delle tue giunture.
Hai superato la porta, bambina, ora striscia per sempre indietro, cerca di opporti alla corrente benefica. Raccogli quante più pietre possibili.
Usa gli occhi per orientarti.
Non avvicinarti alle bestie che vedi tremare, che tremano come te. Trema piuttosto contro un albero, polverizza i confini di te stessa da sola, in un fossato, nasconditi da tutti.
E non guardare fuori. Chiudi tutte le finestre. Allontanati dal globo, dalla palla di fuoco. È il momento della trincea, è il momento di benedire con le mani quello che hai sempre temuto.
C’è un cancello in fondo al viale, nel sottoscala gli occhi fanno male. Non credere che quei rumori potrai pestarli con il martello: tanto vale tendere le orecchie, infilarci la mano, lasciare che le unghie si assottiglino, come un presagio lontano…
Se lasci che la storia si dipani, se la dimentichi, vedrai che le pietre si allontaneranno dalla tua mano.
Proteggiti proteggiti proteggiti. Ma come, se non esiste un mantello lungo abbastanza, come, se la notte ha stabilito una necessità piallata, senza punti fermi, sgomberata, come.
Proteggiti dai tuoi occhi, ritirali, guarda altrove. Quando un torsolo ti si pone davanti, vero, sanguinante, sposta lo sguardo, cerca gli angoli.
Se il male fosse qualcosa cui si può mettere confine. Se esistesse in un punto, accerchiabile. Come. Io ci finisco dentro, lo vuoi capire? Ci sono dentro mani e piedi.
E come. In una terra che puzza di muschio, come e dove cercare riparo.
Gli alberi lungo il viale. Sentire che almeno imprimono un punto sull’asfalto molle, lo sezionano, creano partiture certe.
Come. E la domanda si alza sospesa, si sfarina, abbraccia la cimasa.
Stiamo camminando da ore, percorriamo solo strade lunghe, sentieri. La bambina non si ferma mai, e tu seguila, se ne hai il coraggio. Tallonala con il fiato lungo, adombra il suo passo, sii in quest’azione pura e primitiva. Non perdere nemmeno una pietra. Non perdere nemmeno una pietra.

Laura Di Corcia

CINQUE DOMANDE AI POETI: MASSIMO GEZZI (1976)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di “segno” che “s’innerva” e lo descrive con queste parole: “sangue tuo nelle mie vene”. Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Non una persona, una musa, una presenza identificabile, direi, ma il mondo in tutte le sue apparenze e i suoi fenomeni. Naturalmente alcuni di questi fenomeni mi sono vicini, prossimi (negli ultimi anni la paternità, per esempio), ma ogni evento e ogni presenza si inscrive, nella mia percezione, in un orizzonte ampio e condiviso, che è quello della nostra esistenza di umani. Nostra di chi, però? Qui le cose si complicano, perché ogni volta che pensiamo un noi proiettiamo inevitabilmente anche un loro, un insieme da cui ci distinguiamo, anche senza volerlo. Allora la sfida, per me, è quella di uscire il più possibile da me e da noi anche restando grammaticalmente e percettivamente un io o un noi: trattare l’io e il noi come un lui, una lei o un loro. Ecco perché, tra l’altro, i dibattiti sull’io e sulla lirica mi appassionano sempre meno.

2.
In una delle sue canzoni più celebri, the man in black, Johnny Cash, dice di aver visto un’oscurità (‘and that I see a darkness’). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

L’oscurità della falsa coscienza mi colpisce, quella che scambia un’assoluta casualità (il benessere, la ricchezza, la salute, la stabilità) per un diritto acquisito e inalienabile a scapito o nell’indifferenza degli altri. L’oscurità anche cognitiva che non ci permette di pensarci come un “noi” universale, basato su principi generali, ma – come dicevo anche prima – ci costringe ogni volta a pensarci come un noi piccolo e tribale. Credo di aver scritto più volte di questa percezione, nelle mie poesie, nella forma e con la tensione di cui ho parlato sopra. Naturalmente poi, come tutti, ho sperimentato anche l’oscurità della psiche, mia e degli altri: la poesia e l’arte si occupano anche di questa oscurità, partendo da lì e tentando di illuminarla. Non sempre ce la fanno, purtroppo.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente (“something about him seemed permanent”) e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi (“he transmitted something’… “and it gave me the chills”).
C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Ce ne sono molti. Giacomo Leopardi è forse il caso più evidente e indiscutibile, per me, perché ogni sua parola – a parte i versi un po’ altisonanti di alcune canzoni –, comprese quelle delle lettere ai familiari e quelle depositate nel suo splendido diario intellettuale (lo Zibaldone), mi sembrano davvero permanenti e capaci di far rabbrividire chi le legga, per la loro esattezza e per la loro energia emotiva e intellettuale. Eugenio Montale, nel Novecento italiano, è un altro poeta in cui la musicalità ritmico-prosodica, la bellezza delle immagini e l’urgenza espressiva mi provocano le stesse impressioni. Anche molti romanzieri, però, producono in me lo stesso effetto, talvolta anche attraverso il lavoro sulla forma del contenuto. Potrei citare Proust, Joyce, Virginia Woolf. Tra gli scrittori e le scrittrici più vicini a noi José Saramago, Mark Strand, Anne Carson, Antonella Anedda, per certi versi Agota Kristof. Molti altri.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione (“he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation’) non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale (“He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy.”). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Ne cito un paio: Edoardo Sanguineti e Luigi Di Ruscio (in misura minore anche Antonio Porta). In entrambi, che pure sono lontanissimi tra di loro per visione del mondo e per stile, mi interessa proprio l’energia verbale di cui parla Heaney. Leggere le poesie di questi due poeti significa per me percepire ciò che la poesia può sprigionare nel lettore, nel senso etimologico del termine: una sorta di liberazione intellettuale ed emotiva che passa in prima istanza proprio attraverso il lavoro materiale della parola che si fa suono, flusso ritmico o sintattico inarrestabile e imprevedibile, perché nessuno dei due concede quasi mai al lettore il conforto della prevedibilità. Si tratta di poeti e scrittori quasi incomparabili, lo ripeto, ma percepisco le Postkarten di Sanguineti o il Palmiro e molte poesie di Di Ruscio come “immateriale elettrico”, per così dire. E d’altra parte una delle azioni che possiamo e dobbiamo chiedere alla poesia è proprio quella di risvegliare la lingua attraverso questi «ardiri», come li chiamava Leopardi pensando a Orazio. Sanguineti e Di Ruscio ci riescono, secondo me.

5.
Scegli una tua poesia e spiegaci perché ti rappresenta.

Tuesday Wonderland

Settembre, si direbbe. O forse una mattina
di metà maggio: il treno, il paesaggio
assopito dell’Oberland, contro il fumo
rallentato delle fabbriche, sullo sfondo –
era il solito percorso
da casa alla stazione, cinque minuti
(poco meno), prima di prendere la rampa
di scale mobili che ascende
al cielo grigioazzurro di Länggasse.
Una musica ripetitiva scardinava
la catena degli eventi: la signora
diretta al suo lavoro, come sempre,
il folle barbuto che aguzzava gli occhietti
sbirciando il contenuto delle tasche:
un giorno come tanti, probabilmente martedì.
Il treno rallentò, le porte si aprirono,
le scale mobili ripresero a salire
al primo tocco di piede.
Le cose restarono tutte quel che erano
l’attimo precedente: la luce fu luce,
gli autobus autobus,
gli aceri gli stessi, con qualche foglia in più.
Eppure sembrava lo sapessero tutti,
mentre tranquilli aspettavano al semaforo
o carichi di spesa, a piedi o in bicicletta,
svoltavano un angolo, e non c’erano mai stati.

È una poesia tratta da L’attimo dopo (Luca Sossella Editore, 2009). Credo che in questo testo io sia riuscito a coniugare narrazione, perspicuità delle immagini, musicalità e interrogazione sul senso delle scene quotidiane che ci circondano (in questa poesia siamo nella Länggassstrasse di Berna, ma poco importa, in fondo). È un testo cui sono molto affezionato perché non lo capisco fino in fondo, perché conserva anche per me un nucleo di feconda oscurità che chiede di essere interrogata (per esempio verso la conclusione, piuttosto misteriosa). E poi anche perché porta il titolo di uno degli album più belli che mi sia capitato di ascoltare nella vita e a cui L’attimo dopo forse deve qualcosa, cioè Tuesday Wonderland di Esbjörn Svensson Trio. A prescindere dai miei versi, lo consiglio vivamente.

Massimo Gezzi

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