Il buio: radice inestirpabile dell’essere o sole invincibile? Fabrizio Ferreri e Alberto Fraccacreta

In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due poeti per i quali la concezione del buio sembra essere agli antipodi.
Fabrizio Ferreri lo colloca esattamente al centro della sua poetica, che custodisce «un’interrogazione attorno a questa alterità sfuggente per principio»: «Esistiamo perché l’altro si sottrae» e l’ombra ne custodisce il passaggio, insistendo sulla relazione che crea tra noi e quella mancanza.
Alberto Fraccacreta vede invece una «luce soverchiante» che lo porta direttamente alle «sorgenti del logos». È un canto che sgorga dallo spazio, costruito dalla luce che disegna fughe prospettiche e proporzioni sonore, musicali: una poesia che ingloba «tutti i generi, grazie proprio alle sue virtù verbali».
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

 

L’ultima opera edita di Albero Fraccacreta è Basso Impero (Raffaelli 2016), quella di Fabrizio Ferreri Corpo a corpo (Ladolfi Editore, 2019). Alberto sta lavorando a nuovo libro di versi, Sine macula. Poesie 2007-2019; Fabrizio continua sta riscrivendo il suo corpo a corpo poetico.

 

FABRIZIO FERRERI (1979)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Al centro della mia scrittura sta un centro mancato. L’Altro.
Il nostro essere, non dandosi l’essere da sé, è originariamente e costitutivamente in rapporto ad Altro, ne dipende.
Dio è il nome per eccellenza dell’Alterità assoluta, di cui è incarnazione ogni essere vivente altro rispetto a me.
Il nostro essere è bucato: esistiamo perché l’Altro si sottrae.
Senza questa sottrazione di Altro saremmo nella sfera di Parmenide, non esisteremmo, saremmo pura coincidenza con l’essere.
La mia scrittura è tutta un’interrogazione attorno a questa alterità sfuggente per principio.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

L’ombra custodisce la sottrazione dell’Altro. Dal momento che “vediamo” sempre e soltanto sullo sfondo di questa fondamentale oscurità, è su di essa che si appunta la mia poesia.
L’ombra è il segno dell’impossibilità di contenere l’altro, di fissarlo, di portarlo a sé.
L’ombra è la stessa mobilità della relazione, è il luogo della dualità, dell’altro preservato nel suo vitale mistero: se l’Altro è, è solo nell’ombra e per l’ombra.
Vi è dunque poesia solo se impregnata d’ombra, se sprofonda interamente dentro a questa oscurità.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Più di uno: Luzi, Caproni e Zanzotto.
Luzi, soprattutto l’ultima produzione (da Per il battesimo dei nostri frammenti in poi), come esempio di parola non narcisistica, di parola non chiusa in sé stessa, che è invece appello e invocazione consegnati all’altro.
Caproni, anche in questo caso soprattutto la seconda parte dell’opera (dal Muro della Terra in poi), per l’insistenza con cui pone la domanda sul fondamento facendo emergere come unico fondamento possibile la stessa domanda (il domandare come modalità aperta che non risolve il buio in luce ma lo preserva e lo coltiva come radice inestirpabile dell’essere).
Zanzotto, infine, per il suo linguaggio, per la sua ulteriorità linguistica che ammonisce, con una forza che non ritrovo in nessuna corrente (neo)-sperimentale, che la realtà non basta, non è tutto. Ulteriorità che non rinvia né a un Altrove salvifico (linguisticamente espresso da un’artificiosa sofisticazione del linguaggio) né a un sovvertimento liberatorio da realizzare nella storia (corrispondente il più delle volte a un grado zero della scrittura), ma che esprime puramente la struttura in sé, senza approdo, del rinvio, del reale che non può riposare in sé stesso.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Per me “energia verbale” indica una parola che espelle e non assorbe, una parola che perimetra buchi. Perimetrato, il buco emerge, ed emerge per ciò che è: un vuoto.
Parecchia poesia odierna, tutte le volte che non chiarisce sufficientemente il proprio posizionamento rispetto ai valori e agli orizzonti ideologici dominanti, cade vittima di un limite fondamentale: pone il rapporto ad Altro sotto il segno del dominio.
Si tratta allora di una poesia “debole”: riempie, cerca il pieno, laddove invece dovrebbe mantenere e difendere i vuoti.
Non vi è un linguaggio che per le sue caratteristiche specifiche possa di per sé liberare questo rapporto – non il dialetto di per sé può farlo né i tanti sperimentalismi che hanno pensato di riuscirci facendo girare a vuoto il linguaggio o sabotandolo (penso, nel contemporaneo, a tutte le forme di scrittura asemantica).
Una via promettente l’ho rintracciata ancora una volta in Luzi, Caproni e Zanzotto ed è qui che trovo energia verbale, in una lingua sintatticamente protesa al suo trascendimento, denucleata, coalescente, che non sia velario per le cose né le subisca come un sudario, ma si distorca per un clinamen che la percorre e la ritarda tenendola viva.

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Foce e sorgente o appena
debole sporgenza
               dell’essere
                      (del pensiero)?
            Poi fari, poi spari
sfarinati
un po’ sfasati: io
mal nati.
Avutomi per consuetudine
al ruolo, l’esser mio
non è ciò
che dice “io…” “io…”.
Sfondo, disdegno, disegno
rupestre. Vuoto riempimento
del vuoto. Rotto
orologio gnoseologico.

Ho scelto questa poesia perché esprime un tono, una postura, ricorrenti nella mia poesia: innanzitutto la domanda, come sospensione che lascia essere e come divaricazione che non sopprime le alternative; poi, un certo andamento di rincorsa che finisce come in un vuoto, nella perdita di precedenti certezze senza che se ne propongano di nuove; infine un certo decentramento semantico raggiunto per via musicale attraverso rime, assonanze e consonanze, a indicare uno slittamento del linguaggio, a irridere ogni pretesa totalitaria del senso.

Fabrizio Ferreri

ALBERTO FRACCACRETA (1989)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

La mia poesia è percorsa dalla presenza di Delia (nella tradizione, donna amata di Tibullo e di Maurice Scève), che indica l’evenienza femminile nel suo essere sganciato dai sensi, l’idea. Mi capita di cogliere alcuni “passaggi” di Delia quando le linee del paesaggio montefeltresco sono slavate da una luce granulosa, o quando si sente il petricore e la geosmina, l’odore della pioggia, sprigionati dalle poche gocce che toccano le rocce, l’argilla o il terreno. Delia è rapidissima, come il falco pellegrino: sparisce subito. È nel cristallo, ingemmata nel quarzo, nel bottone che sfila via dall’asola. Per citare Handke, premiato con il Nobel 2019, è la durata: il momento di «eterna compresenza» (Luzi), l’occasione. Delia è anche la città alla quale ho dedicato gran parte delle cose che ho scritto (dalla prospettiva di un pugliese trapiantato, che non dimentica le sue origini meridiane): Urbino. Delia è nella foresta che attornia la città ducale. Ma anche nell’improvvisa aridità della costa garganica. Nel transito tra Delia, la leopardiana «donna che non si trova», e la donna empirica, appare Cordelia – suo ipocoristico – che pone problemi filosofici di non poco conto, tra i quali non il fidarsi troppo di me. Cordelia è la donna sedotta ma anche la pietosa figlia di Lear: un misto di complessità, garbuglio psicologico e slancio. Difficile, intricata e in fuga come Selvaggia Vergiolesi. Ciò che cerco nella donna della poesia – nella selva intertestuale di cui è cosparsa, lei silvide, fanciulla odegitria –, se così si può dire, è l’imago mariana della purezza e della salvaguardia che potrebbe essere vista anche come tensione della lingua verso la sua massima espressione (la «pura lingua» di Benjamin), una condizione esistenziale immacolata, appunto, di perfetta integrità soggettuale, transumana. Lo stato edenico. Tutte queste donne sono, però, come lo specchio interiore e frastagliato, e appartengono sempre alla «vera presenza» (Bonnefoy) della donna che amo davvero.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Mi è capito di leggere una luce, più che un’oscurità. La prima volta con Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi, poi con E tuttavia di Philippe Jaccottet. Mi sembrava di vedere una luce soverchiante, sovrana, una sorta d’inondazione di chiarità, tanto da rimanerne annegato. Una luce comparabile soltanto al biancore del volto della Vergine delle Rocce (copia privata) o alla Madonna Colonna di Raffaello o al fascio di chiarore che colpisce il personaggio alle spalle del Semeur di Millet. Erano, per citare Werfel, delle «continue onde d’amore fino al limite della possibilità». In entrambi i casi – penso di non essere il solo – ho provato cosa significa raggiungere le sorgenti del logos: ero come schiacciato da un’ulteriorità, una specie di linguaggio angelico (l’angelismo afatico di Guinizzelli) che è paragonabile soltanto al Dante paradisiaco. Jaccottet parla proprio di «paroles à la limite de l’ouïe», parole al limite dell’udito (per altro è meravigliosa la sua lettura di Morandi, altro pittore della luce). Ciò è accaduto persino con Sweeney astray di Heaney e con Das Marienleben di Rilke. Come disse Camus, dietro ogni oscurità c’è sempre un «sole invincibile». Mi aggrappo, dunque, con Borges (si parva licet) ai libri che ho letto, più che alle cose che scrivo.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Qualcosa di permanente l’ho avvertito con Montale. Alcune sue chiuse fulminee, alcuni sintagmi con iunctura acris, alcune formule espressive mi rimbombano nella testa da tanto tempo. Questo non riguarda soltanto la sua poesia, ma persino i bellissimi articoli di Fuori di casa, gemme assolute del giornalismo culturale. L’ho anche sognato, Montale, una volta; mi aveva lasciato il suo numero di cellulare e l’ho salvato nel telefono. La mattina dopo sono andato a controllare in rubrica. Scherzi a parte, oltre a Eusebio gli impulsi reiterati sono giunti senz’altro con Adam Zagajewski, Paul Muldoon, Vittorio Sereni, Robert Frost, il gesuita Gerard Manely Hopkins, Derek Walcott, Yves Bonnefoy, i metafisici inglesi, Petrarca e molti altri. Ma è una cosa che ha riguardato anche la pittura: come già detto, Leonardo con l’affondo spaziale e Raffaello con la proporzione, e Piero della Francesca, il Ghirlandaio, Giotto, Simone Martini, Monet. Il duomo di Lucca. La musica: ho ascoltato per lungo tempo continuamente Series of Dreams e Born in Time di Bob Dylan: c’era qualcosa nel fraseggio e nella sonorità metallica… E poi sono ossessionato dai poeti medievali, dai loro nomi in particolare: Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Guittone d’Arezzo, Lapo Gianni, Folcacchiero de’ Folcacchieri, Folgore da San Gimigniano, Bonvesin de la Riva. Se vogliamo, è così pure con Dante: sapere che forse si chiamava Durante Alagieri o Aldigherri, ha tutto un altro sapore. La potenza creativa del volgare è stata un’esperienza straordinaria della nostra letteratura. Il potere del nome è un aspetto della poesia e del linguaggio – o meglio, della poesia intrinseca al linguaggio – che ha avuto sempre una forza decisiva su di me.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

L’energia retorica di Seamus Heaney è stata una direttrice impossibile da dimenticare. L’esercizio nominale di alcune sue sequenze liriche ha aperto, credo, nuove possibilità di soluzione poetica per una diversa strategia compositiva. Questo vale naturalmente anche per le poesie in continuum di Caproni e, ancora, per l’ambivalenza poesia/saggio/meditazione di Jaccottet. Senza dimenticare che, con La ginestra (una poesia/saggio, appunto), Leopardi è stato in straordinario anticipo sui tempi. Ecco, l’idea di una poesia che comprenda e inglobi tutti i generi, grazie proprio alle sue virtù verbali, è qualcosa di estremamente moderno.

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Questa poesia è la cronaca di uno di quegli incontri essenziali che si possono avere nella vita. Lo spunto lirico è tratto probabilmente da Twice Shy di Heaney. Qui senza dubbio c’è stato un “passaggio” di Delia: ma questa volta Delia è rimasta.

Incontro

Siamo soli, la città o la foresta è deserta
dopo molto siamo qui a misurarci.
Cerchiamo di essere schivi e umbratili, più saggi
di quando il non esserlo fu castigo
e i rancori di amori implosi risorgono
rapaci nella selva, si vendicano di averci trovato.

Di nuovo soli, o solo cauti a distogliere sinora
cosa abbia riservato il passato.
La sera è quieta, l’odore d’erba si alza vincente
al ruminare del vento che ha signorilmente
premura di non guastarti i capelli raccolti
in un fogliame innervato di faggi.

Crediamo di essere soli, e lo sento, viene
incontro mia nonna morta da due anni
nel suo volo di lucciola, mio nonno
dopo tredici anni ronza e fischietta curioso,
un coleottero con la coppola che ti gira intorno
nella speranza di cogliere bene i lineamenti.

Non siamo più soli, anche l’altra nonna,
adagio, è un maggiolino compiaciuto
perché sei davvero bella, come lei si aspettava
e l’ultimo nonno, quello mai conosciuto,
coccinella vivace ti formicola il ramo della mano.
Sa essere così invasiva la famiglia d’insetti meridionali.

Ma c’è qualcuno più schivo di noi
che rimane distante come un afide bianco
e ti fa soffrire la pianta, impallidisce la verdezza
della linfa. Non credo di conoscerlo, è discreto
lo guardi con timore, sorride fumando,
lui che aspettava da tanto questo momento.

Alberto Fraccacreta, ph Asia Vitullo.

Potrebbero interessarti