La memoria del dialetto: Claudio Pasi e Edoardo Zuccato

In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due poeti che si sono provati nel dialetto e che conoscono l’affondo delle radici nella terra natia. Claudio Pasi ha in mente «una casa, con un preciso indirizzo, esatte e immutabili coordinate geografiche, un luogo che anni fa avevo chiamato “la casa che brucia”», «culla e mondo dell’infanzia». Le sue poesie in dialetto, afferma, «è come se appartenessero a un altro, a qualcuno che io ormai non sono più, o che non sono mai stato».
Per Edoardo Zuccato «far chiarezza sulle cose “chiare” è spesso più difficile che su quelle oscure», e candidamente ammette che «se uno cerca primariamente emozioni viscerali le può trovare con meno fatica fuori dalla letteratura». Ci regala inoltre la prima poesia in dialetto che ha scritto, dove paesaggio e figura coincidono.
Per loro memoria è anche dialetto.
Buona lettura!

Rossella Pretto e Marco Sonzogni

 

L’ultima opera poetica edita di Claudio Pasi è Ad ogni umano sguardo (Nino Aragno Editore 2019); quella di Edoardo Zuccato è Gli incubi di Menippo (Elliot Edizioni 2016).

ph Enrico Pasi

CINQUE DOMANDE AI POETI: CLAUDIO PASI (1958)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Credo che non sia una persona, ma un luogo e un tempo. Il luogo è il luogo dell’origine, o meglio, il luogo circoscritto della nascita, dell’inopinato ingresso nel mondo, e cioè una casa, con un preciso indirizzo, esatte e immutabili coordinate geografiche, un luogo che anni fa avevo chiamato “la casa che brucia”. Il tempo è quello dell’infanzia, della prima e vera conoscenza del mondo e delle cose, dei dati immediati della coscienza. E quando il senso di questo tempo e di questo luogo scorrono nelle vene, è come il roteare di una vertigine, un tuffo nel vasto gorgo di un abisso.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Per me la noche oscura è stata una notte reale: quella successiva a un improvviso e non semplice intervento chirurgico subito alcuni anni fa. Là, nella fioca luce al neon della terapia intensiva, dolorante per i drenaggi, immobile, inerme, tra i postumi ipnotici dell’anestesia mi apparvero i miei demoni: forme fluttuanti, volti indefiniti, voci ignote e minacciose. Allora, forse in un tentativo di resistenza o semplicemente per sentirmi ancora vivo, pensai alle parole di una poesia, anzi di più poesie che avrebbero parlato alternativamente, quasi come un dialogo, di ciò che stavo in quel momento attraversando e di mio padre, morto da appena pochi mesi. Ne scrissi qualche tempo dopo, durante il periodo di convalescenza, ma in due serie poetiche separate, separatamente comparse in rivista e poi in volume.

3.
Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

Chiedo venia per la risposta forse un po’ crociana, ma non c’è nessun poeta che, nel complesso della sua opera, susciti in me una simile reazione. Ci sono, invece, alcune poesie e anche molti versi singoli in grado di produrre un tale effetto. Cito i primi che mi vengono alla mente. Partendo da lontano, il noto verso del quinto dell’Inferno in cui Francesca ricorda, con struggente malinconia, il suo luogo d’origine: «Siede la terra dove nata fui». O ancora, per rimanere a Dante, lo sprofondamento nell’ineffabile abisso alla fine del Paradiso. O il perfetto paesaggio notturno nei primi versi della Sera del dì di festa. O l’inizio delle Ricordanze. Tutti versi celeberrimi, persino ovvi, ma ogni anno, quando mi capita di leggerli ai miei studenti, la commozione, a stento trattenuta, si rinnova immutata. E infine, succede con la voce autentica di alcuni poeti: Dylan Thomas che legge I see the boys of summer non può che essere da brividi.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Anche questa risposta apparirà di sicuro piuttosto rétro. Il fatto è che negli ultimi decenni non mi sembra sia emersa, almeno in Italia, una personalità poetica davvero ad “alto voltaggio”. Molti poeti e alcuni molto bravi, ma forse nessuno in grado di far mutare direzione al linguaggio poetico e di porsi come capofila di una generazione, coniugando innovazione stilistica e indispensabile necessità comunicativa. Neo-neoavanguardie, neo-simbolismi, neo-orfismi hanno offerto risultati spesso interessanti e anche seducenti, ma si tratta pur sempre di prodotti di maniera, che non sono comunque da disprezzare, se pensiamo che così poi funzionava gran parte della poesia antica. A me pare che l’ultima svolta davvero significativa sia avvenuta oltre un secolo fa e sia da ascrivere a Pascoli, che coglie le suggestioni dei poeti nuovi (i francesi) e allunga la sua ombra su quelli futuri (gli italiani). La sua “rivoluzione inconsapevole”, come è stata autorevolmente definita, ha fissato le modalità della lingua poetica che ancora oggi inconsapevolmente usiamo, in termini di assunzione del lessico, di costruzione sintattica, oltre che, ovviamente, di ritmo.

5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Scelgo una poesia ancora inedita, nel dialetto del mio paese natale, nella pianura bolognese (e Pascoli non è poi molto distante). Da qualche tempo infatti provo a scrivere anche poesie in dialetto, pur non avendolo mai parlato nella mia famiglia d’origine, e neppure tra amici. Probabilmente non lo avrei mai fatto, se non vivessi ormai da tempo lontano da quei luoghi. Il dialetto è dunque per me la memoria di una lingua che mi circondava ma che ascoltavo solamente, una lingua anteriore, quasi una lingua morta. Così le mie poesie in dialetto nascono forse da una sorta di regressione psicologica oltre che linguistica, inevitabile frutto dell’età e della distanza, ed è come se appartenessero a un altro, a qualcuno che io ormai non sono più, o che non sono mai stato.
La poesia che segue allude, con pacata ironia, alla dolce illusione dell’eternità. È stata scritta dopo l’ultimo colloquio con un mio amico di adolescenza di recente scomparso, al quale ho voluto dedicarla. Quel giorno – lui era già molto malato – mi parlò di mio padre e di come io avessi, cosa che molto spesso accade, già cominciato ad assomigliargli, nei tratti e nei gesti quotidiani.

La vétta etêrna

a M. F.

Anca mé adès am lîv ala matîna
dimόnndi prèst pr adacuèr al żardén
cum al fêva mî pèdar, d nòt am dżdèżżd
όnna o dòu vôlt s’am scâpa da pisèr
e quand la canbia la staṡòn l um vîn
un mèl a un pè ch’al pèr ch’a dâga ali ònnd,
a sòn dvintè un bruntlòn – l é quèll ch’i dîṡan
mî mujêr e mî fiôl – e dòpp magnè
a fâg al chíllo e a tâc a surnacèr,
cunpâgn a lό pò ai ò méss sό la panza
e ai ò anca mé un côr ch’al scarabâtla.
Ch’la séppa quassta qué la vétta etêrna?

La vita eterna – Anch’io adesso mi alzo alla mattina / molto presto per annaffiare il giardino / come faceva mio padre, di notte mi sveglio / una o due volte se mi scappa da pisciare / e quando cambia la stagione mi viene / un male a un piede che sembra che stia ondeggiando, / sono diventato un brontolone – è quello che dicono / mia moglie e mio figlio – e dopopranzo / faccio un pisolino e incomincio a russare, / come lui poi ho messo su pancia / e ho anch’io un cuore che traballa. / Che sia questa qui la vita eterna?

ph Annalisa Manstretta

CINQUE DOMANDE AI POETI: EDOARDO ZUCCATO (1963)

1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?

Una qualche inquietudine che genera un movimento interiore e si fa ritmo, suono, parola. Non c’è solo l’emozione amorosa evocata così bene da Montale, ma molti altri sentimenti, a volte meno gradevoli, che prendono il sopravvento secondo le vicissitudini dell’esistenza, come la rabbia, la delusione, la tristezza, il lutto, la nostalgia, ecc. Ognuno di questi, se abbastanza intenso, può farsi parola, anche se il processo non sempre si innesca. Per me può innervarsi in italiano o in dialetto secondo il tipo di emozione. Non capisco come mai molti poeti abbiano una sola tonalità emotiva.

2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?

Una poesia riuscita porta sempre alla luce qualcosa di oscuro, o per lo meno mette a fuoco meglio il proprio oggetto. Il titolo del mio primo libro di poesia, Tropicu da Vissévar (Tropico di Castelseprio), indica che anche le cose in apparenza familiari e chiare non lo sono, basta scavare o spostare la prospettiva e rivelano aspetti opachi o invisibili. Far chiarezza sulle cose “chiare” è spesso più difficile che su quelle oscure.

3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?

I classici, ed è uno dei motivi per cui lo sono. La poesia, come ogni arte, non è un fatto meramente intellettuale ma anche corporeo, quindi parlare di risposta fisica è appropriato. Ma occorre non buttarla tutta sul versante istintuale. Un rapinatore che ti puntasse il coltello alla gola ti procurerebbe più brividi di tutti i libri che puoi leggere in vita tua. Se uno cerca primariamente emozioni viscerali le può trovare con meno fatica fuori dalla letteratura.

4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?

Due poeti che trasmettono questo senso di energia verbale e vitale sono Franco Loi e Giorgio Caproni. Penso che ciò sia dovuto alla spinta ritmica effervescente del loro dire. Un poeta che genera lo stesso senso di energia è Franco Scataglini. Nel suo caso, però, la forza espressiva è prodotta non solo dal ritmo, ma soprattutto da immagini e metafore sempre esatte e sorprendenti, lontanissime dalla gratuità di tanti barocchismi novecenteschi. Al confronto, altri poeti mi sono sembrati nel migliore dei casi composti, ma più spesso astrusi o flaccidi. Sul discorso della sovversività avrei molte riserve, tuttavia.

5. Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?

Nessun singolo testo può riassumere in modo completo la visione di un poeta, ma dovendo scegliere:

Balzarinn

Hinn un pügn da cassinn
in sü ’n fiancu daa Lumbardia
cut i cà setâ gió in gir ai curti
temé di vecc in gir a ’n taul
a cüntà d’una ölta.

’Na quaj vüna
püssê smaralâ, la sa pogia
a ’n baston
’tan che tocch a tocch
turn indrê
in daa tera.

Balzarine – Sono un pugno di cascine / su un fianco della Lombardia / con le case sedute intorno ai cortili / come vecchie intorno a un tavolo, / a raccontare di una volta. // Qualcheduna / più malferma, si appoggia / a un bastone / intanto che pezzo a pezzo / ritorna / alla terra.

È la prima poesia in dialetto che ho scritto, dentro ci sono alcune cose in cui mi riconosco: il tema delle figure nel paesaggio, naturale e storico (per precisione, qui figure e paesaggio sono fusi insieme); la memoria, personale e collettiva; la brevità del testo e l’asciuttezza stilistica, come pure il fatto di essere costruito attorno a un’immagine portante; uno spessore simbolico non esibito (queste vecchie cascine decadenti sono quasi delle muse evocate a inizio libro). Questa poesia illustra la mia vena lirico-elegiaca; ci sono altri aspetti della mia scrittura, soprattutto quelli comico-satirici, che qui non appaiono. 

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