Cinque poesie da “Il comune salario” di Fabrizio Bernini (Lo Specchio Mondadori)

Un’opera di profonda umanità naturale, questa di Fabrizio Bernini, che parte da forme di potente realismo, di attenzione febbrile alla realtà contemporanea, per andare oltre, sorretta e spinta verticalmente da una tensione morale sempre attiva.
Il comune salario si articola in quattro nitidissime parti. Le prime tre impostate su altrettanti personaggi d’invenzione, ancorati a un presente ben riconoscibile. Tre giovani, di condizione sociale diversa, ma in fondo omologati dall’appartenenza a un unico ambiente umano e storico: il figlio del padrone, il disoccupato, l’ambiguo studente attivo nel sociale. La quarta parte è invece una riflessione lirica per frammenti, condotta sull’esterno rispetto ai tre personaggi, con punte di una intensità commossa, come in questi indimenticabili versi: «Anch’io che ti seguo negli anni e nel modo / anch’io ti racconto la strada. / Ci ha toccato il comune salario, / questa comune famiglia / di dolore e bellezza / nel conto semplice e quotidiano / della nostra dolcissima storia». Questi versi ancora di più ci avvicinano al cuore vivo del libro, dove incontriamo la normale quotidianità condotta fino all’orrore. Dove l’individuo anonimo va nel mondo, nella comune battaglia del mondo, magari provvisto di una giusta «pietà per ogni cosa», una umana pietà che pure «non trasforma niente».
Il valore della poesia di Bernini, che raggiunge qui un suo importante apice, è nella capacità di leggere il mondo con emozione e disinganno, con soprassalti di umore e generosa adesione critica, e di renderci l’insieme di queste sue varie e variabili sensazioni nell’esattezza di una lingua e di uno stile sempre in impeccabile equilibrio.

 

 

 

da L’INTERSEZIONE DEGLI INSIEMI
Parte I

Qui pulsa poca luce. L’ufficio colore del neon
fa un rumore opaco nel suo e nel mio vincolo.
Ho il telefono zitto e un assillo
che ci si arena sopra, si irrita, guaisce.
A quest’ora l’azienda lavora, manda i prezzi
e li riprende e io a un granello dalla mia presenza.
Rompendo l’attenzione ho sul giorno altre
cose da informare. Mi preparo. Ecco.
Guardo il computer. Ma sto bene così,
con il gesto inchiodato alla tastiera.

 

da L’INTERSEZIONE DEGLI INSIEMI
Parte II

Non è un verbo. Eppure ti resta incastrato
sul labbro. Ti ascolto ripescare un cuore estinto,
scantonato. Allora mi sfibbio oltre la ringhiera
della tua croce e penso che sono anni quelli
che rincagnano sul mio, di cuore.
Poi resto lì. Il tuo sorriso sull’hamburger.
Forse, sguscio in verticale. Forse anche il tempo
ha qualcosa di sghembo
infilato tra i denti e non vuole assaggiarlo.
In fondo, quello che mi scaccia
è la scaltrezza in un dolore. E non paura.

 

da L’INTERSEZIONE DEGLI INSIEMI
Parte II

Tutto appare nell’apparenza senza apparire mai.
Non solo i circuiti, connetto anche
il tempo, la sua indisponenza
attraverso le mie dita.
Affogo, sempre più composto e ordinato.
Ultimo e in silenzio.

 

da L’INTERSEZIONE DEGLI INSIEMI
Parte III

Di solito contraggo esattamente quello
che non posso rifiutare, faccio linea di travasi, sfoggi atoni,
puntini salati ed elevazioni irripetibili.
I consigli se li porta la differenza e un tutt’uno
con gli amici che incasello. Però lasciatemi
starnutire. Libero e sbarre. La firma è un marchio
che ci stupra al macello. L’ovazione dello schifo.

 

da IL COMUNE SALARIO

Vorrei finire qui
in questo limite poco estremo
delle nostre vite che per fantasia
o illusione conteggiamo in anni,
così umanamente al giudizio della rabbia
e del perdono, tra l’ultima realtà
della veglia e il primo sconosciuto avvenire;
ordinati e neutri quando anche l’unico
pensiero rimasto muta in un respiro
buio e silenzioso
nel dolce sonno innocente
del nostro nulla.

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