Cinzia Demi. Incontri e Incantamenti

copertina Cinzia Demi - Copia

come passerà in fretta / questo tempo / come sarò poca cosa / quando mi volterò / a guardare // eppure quanto / intensamente lo vivo / e lo sento / come un frinire di cicale / ininterrotto vociare // di nenie / che cullano / e dicono la vita”. Versi di Cinzia Demi che, con palpabile delicatezza, schiudono “Incontri e Incantamenti”, Raffaelli Editore. Un libro, suddiviso in tre sezioni (“Tempi e incontri”, “Voci e incontri”, “Figure e incontri”), animato da una ininterrotta riflessione, “magari bastasse / quest’alba che non si scopre / a svelarmi / il sussurro del mondo / mentre scorre la china / sul foglio”, volta a placare i penetranti quesiti dell’esistenza, “piccolissima / invisibile parte di me / potesse restare / vorrei che portasse / il colore del cielo”. Una raccolta popolata da pensieri prosciolti, da peculiari presenze muliebri. Stella, “con un sorriso pieno / e vuoto di pensieri // la mano / in quella della mamma / gli occhi spalancati”,  Mariannina, “furtiva  per le strade / vorrebbe l’amore / a pareggiare”, e, non ultima, Fedra, “regina della via / maestra di cerimonie / tutto o niente vedeva / dal fitto nebuloso / della solita scena / e le amiche di prima”. “L’incontro e il reportage poetico di queste storie svela, in filigrana, un tema caro alla poetessa, ricorrente nella sua interrogazione, quello del tempo – sottolinea Gianfranco Lauretano nella prefazione”. L’affanno per l’inafferrabilità delle stagioni si placa nell’attesa di un “eterno riscontro”, nell’evidenza che “gridare su una tela / il frastuono del mondo / si può // uccidere il dolore / usando un colore / si può”. “Un lirismo pacato, che ha radici nell’elegia, accompagna quasi tutte le pagine e se pare che Caproni sia il nume ispiratore, in realtà vi si può leggere anche altro, chiamiamolo uno sguardo al Settecento melico, un’adesione al migliore Metastasio”, si legge nella postfazione di Dante Maffia.

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“Scrivere in versi è un atto di responsabilità verso se stessi e verso gli altri”

Come iniziare a parlare di questo libro? Direi soprattutto partendo dallo spiegare come si crea interiormente un percorso (che alla fine diventa artistico-culturale) ma che parte sicuramente da riflessioni, da lunghe assimilazioni, interiorizzazioni che portano al compimento di un’opera poetica. Perché di questo si tratta. Leggendo le biografie, ascoltando le confessioni dei grandi autori, poeti con cui conviene confrontarsi – penso a Giorgio Caproni, Ungaretti, Emily Dickinson, Sibilla Aleramo, citati nel mio libro, ma anche un certo Montale, un certo Saba… e ai poeti del primo 900 come Pascoli, D’Annunzio, Palazzeschi, per non scordare il padre di tutti, il nostro Dante – sempre ritorna un concetto che voglio citare con le parole del grande Caproni: “la poesia è una ricerca di se stessi per arrivare a capire cosa sono gli altri, il poeta è come un minatore che dalla superficie, ossia dalla autobiografia, scava, scava finché trova in fondo un proprio io che è comune a tutti gli uomini, insomma scopre gli altri in se stesso”. E la riflessione, per tornare alla ricostruzione del percorso, che un autore fa, è certo lunga e laboriosa, può durare anche dei mesi prima di venire buttata sulla carta perché, se il primo verso di un componimento può anche essere dato, il resto è frutto di lavoro, disciplina, esperienza, ricerca, anche se certe volte sembra fluire in modo spontaneo. Poesia insomma come alleanza tra qualità, ispirazione, disciplina e lingua… La poesia dunque non è mai spontanea soprattutto nella ricerca della lingua.Per me la lingua come diceva Saba, ma come poi ha confermato anche lo stesso Caproni, deve essere necessariamente quella della comunicazione, semplice e colloquiale… oddio, può darsi che con il passare degli anni – com’è successo a molti scrittori – si presenti la necessità di affrontare temi più alti, magari con impostazioni filosofiche e allora può darsi, dico, che anche la lingua tenda a diventare più difficile, meno comprensibile, magari anche per un moto involontario (com’è successo anche a Luzi, per esempio) ma in linea di massima direi che la lingua colloquiale, che non vuol dire lingua non raffinata, ma solo lingua comprensibile se pur trasfigurata, trasformata in qualcosa d’altro – questa è la poesia – è la più auspicabile, specie per voler che arrivi a tutti. Questo traguardo avviene anche attraverso l’uso degli strumenti della metrica, della musica, dello stile… ecco la musicalità trovo anche che sia importante all’interno del verso, che sia qualcosa che permette al verso stesso e alla poesia tutta di tenersi su, (Dante diceva: la poesia è legame musaico di parole) come per un filo conduttore che la regge e la rende anche, oltretutto, più ricordabile… I maestri come è giusto ricordare ci sono, quelli da cui apprendere, con cui confrontarsi e li abbiamo detti, in particolare si è detto di Caproni. Di Ungaretti, tra i citati nel libro, – oltre alla forma stilistica che mi convince molto come l’uso frequente di spazi bianchi, pause, silenzi, che inducono il lettore a tentare di integrare e ricostruire una trama visibile solo in parte, – mi piace molto la raccolta “Il porto sepolto”  dove a parte l’allusione a una leggenda diffusa in Egitto sull’esistenza di un antico porto sommerso nei pressi di Alessandria, c’è, dietro il rimando leggendario, un riferimento alla forma misteriosa e nascosta («sepolto») che assumono il significato e il valore delle cose (il«porto»). Vi è insomma già un indizio della poetica simbolistica di Ungaretti: è infatti la parola stessa, la parola poetica, ad essere sepolta nel silenzio della vita, e al poeta spetta di estrarla e recuperarne il mistero… quindi ancora lo scavare, il cercare quella parola che serve al poeta per capirsi e per capire gli altri (come abbiamo detto per Caproni). Naturalmente sto solo dando dei flash, degli input perché su questi autori ci sarebbe da parlare molto più a lungo… Un’altra autrice che ho citato è Emily Dickinson. La sua voce, ormai senza tempo ma con l’eternità cucita addosso, ci narra dell’amore, della morte, della natura, dell’immortalità. I suoi versi sono perfetti e non dimostrano né la fatica occorsa né l’età, ed è stato come se l’autrice, sicura del proprio destino, certa che il suo nome sarebbe rimasto inciso per sempre nell’universo dei “grandi”, si sia trascinata dietro, impigliati nello spesso velo lucente della sua fama, parenti, amici, semplici vicini di casa, resi luminosi solo da un riflesso, marchiati a fuoco dalla sua penna, nomi diventati immortali proprio perché… lei partì sempre dal quotidiano per dimostrare l’infinito. Ecco questo mi piace di lei, in fondo questo cammino che è diventato corale, epico per i suoi personaggi. È lo stesso anche per i miei. Sento molto la necessità di narrare degli incontri (e nel titolo c’è questa parola Incontri, poi parleremo anche degli Incantamenti) incontri con la gente: vorrei che la poesia a un certo punto diventasse un coro a tante voci e cerco di farlo, con gallerie di personaggi, veri o inventati che siano – ma più veri – in particolar modo personaggi femminili, che sono quelli che mi colpiscono di più, che secondo me, hanno più da dirmi, poi  naturalmente il rapporto col tempo che per ogni scrittore, in particolare per ogni poeta, è fondamentale… Come si vive il rapporto col tempo in poesia? È un rapporto inquieto, perché da una parte c’è la consapevolezza dell’intensità con cui si vivono certe esperienze – parlo anche di quella poetica – e dall’altra c’è la valutazione dell’effimero e quindi c’è una sorta di angoscia interiore che si riversa nella ricerca, nella speranza, nella maturazione di un’idea di eterno. E quest’idea compare in molte di queste poesie del libro, a volte cogliendone la contraddizione – come nella citazione presa proprio dalla Dickinson, “Vi sono cose che restano / il dolore e i monti e l’eterno / nemmeno queste a me si addicono”, qui è come se ci si rendesse conto dell’impossibilità dell’eternità per l’uomo, eppure sempre cercata dall’autrice… Il problema del tempo io lo risolvo anche con una sorta di rovesciamento delle parti, sempre ispirandomi a Caproni. Nella poesia dedicata a mio figlio, per esempio, dove inizio con un exergo del poeta che – anche lui in una sorta di rovesciamento dice al figlio di farsi suo padre – concludo dicendo a mio figlio di non rimproverarmi, perché so che deve andare e, nonostante il moto spontaneo, il desiderio di trattenerlo, cercherò di non farlo… e ancora nel testo che apre la raccolta c’è tutto il moto dell’anima, la consapevolezza dello scorrere del tempo, dell’affanno per lasciare una traccia di sé e di come tutto questo è niente in confronto all’eterno… ma di come comunque, in questo momento, sento di vivere intensamente, come se tutto non dovesse mai finire. Diciamo che cerco di vivere molto nel presente. Mi sento in questo vicina al pensiero di Sant’Agostino sul tempo, egli dice che: passato e futuro  non esistono in sé, ma solo e sempre come presente, nell’animo umano. Nella memoria è il presente del passato, nell’attesa il presente del futuro…ma è soprattutto nell’attenzione che si concentra il presente del presente, così la riflessione sul tempo diventa un momento essenziale dell’autocomprensione dell’io che rende l’uomo consapevole dei suoi limiti e della sua condizione di creatura, libera e intelligente. Perché è proprio nel presente, nel qui e ora, che egli riflette, un po’ come fa il poeta, abbiamo detto. Un’altra cosa che vorrei dire, poi, riguarda il rapporto con i luoghi. È chiaro che il poeta si rapporta anche con questi perché lo influenzano in qualche modo, non c’è dubbio. I luoghi sono presenti in questa raccolta – ma lo sono anche nelle altre -. Il luogo di nascita, le radici profonde che mi legano alla mia città, in particolare per gli affetti e i ricordi della giovinezza, è chiaro che sono molto presenti… Piombino, il Golfo di Baratti, luoghi dell’affetto, dei colori, del mare, sapori che non si dimenticano. Ma anche Bologna, questa volta compare, con la rotondità dei suoi portici quasi a conferire un senso geometrico alla poesia (Caproni diceva che se Livorno era la città della madre, Genova era la verticalità… verticalità che per lui rappresentava la poesia stessa). Per me Bologna ha, pensando ai suoi portici, ai suoi palazzi, alle sue piazze, più un senso di rotondità, come un abbraccio che accoglie in qualche modo chi ci vive ed è come un abbraccio che io penso alla poesia, nei confronti di chi la legge, la ascolta. Infine un discorso sulla necessità di pubblicare un libro e sull’importanza del gesto della pubblicazione. Un libro in versi è un atto temerario… perché? Primo perché non ho mai creduto ad una poesia individualistica, ci mancherebbe, e a cosa servirebbe, poi? A placare l’ansia narcisistica di esprimersi in ogni modo? L’io, che entra ed esce dai testi, è solo un io che non si ferma ad una visione naturalistica delle cose ma le osserva, vi riflette e cerca di avere una visione su esse, Il poeta, senza una visione sul mondo non dà nessun contributo all’arte, alla storia, al pensiero… Secondo perché poesia significa libertà, ma anche disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona; di fronte a ogni forma di irregimentazione o, peggio, di massificazione. La poesia è un traffico con l’inconscio e non solo esposizione, un traffico che partecipa direttamente all’esperienza del vivere, comunica la parola  e non quella dell’esasperazione della tecnica, o solo del suo significante, ma soprattutto del suo significato. Quindi pubblicare è un atto ancor più temerario perché vuol dire assumersi la responsabilità di rendere pubblico il proprio lavoro, darsi in pasto ai lettori con la consapevolezza di aver indicato una propria visione del mondo, delle cose, che non sappiamo se sarà condivisa, che potrebbe anche essere contestata.  Scrivere in versi e pubblicarli è un atto di responsabilità che l’autore si assume verso se stesso e verso gli altri. Ecco io vivo il mio tempo, in poesia, in questo modo cercando di lavorare un po’ ogni giorno sulla poesia, orientandomi in quel traffico con l’inconscio, lottando per quella libertà con la disobbedienza che nasce e conduce all’esperienza del vivere. Il mio prossimo lavoro va in questa direzione. Ho sviscerato una figura femminile (che non cito per non svelare troppo) tra il sacro e il reale, calandola nella realtà della violenza contemporanea e di sempre sulle donne, scavando nel mio sentire poetico, ribellandomi a questa condizione per rendere libera la figura stessa dai cardini classici della sua collocazione, mostrarla viva, vera, attuale, capace di comunicare questa dimensione. Spero di esserci riuscita.

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