cop circo stanze claudia distefano su l'estroverso

Un quaderno di versi, quasi personali, è l’“esordio”, così almeno si usa dire, di questa giovane appena laureata, che subito avverte tutti coloro “che amano la poesia tutta”, di voler puntare verso una precisa direzione: la libertà.
Niente orpelli di mestiere, poetiche costruite a tavolino, niente sostrati pseudo-filosofici avvitati in improbabili contorsionismi dei significati, niente forme più o meno elaborate, ma “semplicemente versi / sciolti”.
E concretezza, vita, solidità delle cose e dei corpi.
Il corpo e il mondo concreto sono infatti il tema di queste velocissime liriche (velocissime non tanto perché contenute in pochi versi, che peraltro si possono leggere in modo continuo, senza interruzioni, come fosse un unico poema, ma perché il pensiero si muove veloce, ab-solutus da qualsiasi impedimento, concentrato sul dire/dichiarare e non sul di-mostrare).
Ad iniziare dai capelli, qualcosa di assolutamente solito e concreto, che vengono usati per costruire prima metafora di libertà (e noi che passammo gli anni migliori ormai quarant’anni or sono, qualcosa ne sappiamo del fascino e del richiamo di questi “lunghi capelli”, che allora erano una specie di messaggio ideale di amore e libertà, come l’eskimo o il Kefiah).
E poi via via, sempre con un linguaggio discorsivo e diretto, che mai si lascia dominare dai trasporti lirici, ma che mira al profondo dei sentimenti, per esprimere un lirismo concreto, quello che non tanto si abbandona al sogno ma piuttosto lotta tenacemente per ottenere la materializzazione di un ideale (la libertà, l’amore, il rispetto, la bellezza, l’empatia, l’umanità…).
Come a dire che la bellezza non sta nella forma, nell’ideale, nelle “belle parole” e nei “buoni senti-menti” ma piuttosto nella concretezza dell’azione, nel coordinare l’ideale di bellezza col “fare bellezza”.
Forse questo “fare” bellezza è meno visibile, forse meno coinvolgente (perché implica la neces-sità dell’impegno e della responsabilità), ma è l’unico atteggiamento e comportamento che davvero può realizzare il sogno della poesia e dell’arte: il regno della bellezza e della cooperazione, che si sublima e si completa poi nella spiritualità, come si evince dall’ultima parte della raccolta.
Io non so se la poetica di Claudia Distefano si evolverà in seguito (e immagino che ci sarà un “seguito” a questa raccolta) nella direzione che mi sembra di intravvedere ad una lettura pur veloce di questi versi, ma se è così “teniamola d’occhio”, come si suol dire, perché sicuramente avremo piacevoli sorprese dalla sua poesia, in futuro.
Qui siamo solo agli esordi e in questa fase chi si cimenta con la poesia ha molti nodi e molti dubbi da risolvere, prima di tutto è quel “sentirsi poeta” che viene in parte dal “feed-back” del lettore o del critico, ma in gran parte deve venire da dentro, come assunzione di un preciso ruolo anche sociale, perché la poesia e la parola sono i fondamenti dell’identità di un popolo.
Io mi auguro che Claudia Distefano continui quello che qui già possiamo chiaramente intuire e che per il futuro la sua poetica diventi sempre più robusta e sicura.

(Gianmario Lucini)

La poesia abita qui

In questa raccolta di poesia si presenta una voce nuova, necessaria.
Non sono parole che nascono da altre parole, carta da altra carta…
Si sente che soffia la vita dentro la stanza…

***

… si sentono i contrasti e le assonanze:
piccolo-grande
dolce-caparbio
un’energia femminile che entra e esce dal corpo, nel mondo.
Si può conoscere con il cuore. La poesia serve anche a questo.

***

Una voce parla ad alta voce, nomina le cose, costruisce il mondo.

***

Bisogna amare i libri, leggere tanto, interrogare i libri.
Ma poi dimenticarli e ritrovare le parole come per caso,
in strada, nel cielo.

***

L’ossessione di contare e ricontare.
Il gioco.
Ho avuto paura.

Ci sono numeri periodici
In certi periodi
In cui i capelli non bastano
A fare da barriera

***

Se questa è una danza il ritmo è libero.
Si salta, si fanno le piroette, ci si struscia teneramente.
Ma non si perde il filo dello sguardo, l’equilibrio,
la tensione.

***

Se ho bisogno di altre parole vuole dire che la poesia abita qui, in queste stanze…
Dietro l’angolo della Piazza dei Miracoli, vicino agli usignoli.

(Biagio Guerrera)

Il mio modo di “abitare la poesia”…?
Che bel verbo; sa di comodità, di morbidezza in cui ci si sente appunto a casa. Mi viene da pensare che ciascuno di noi – se possibile – sceglie di solito lo stile e l’arredamento dei posti in cui vive. Il fatto che riflettano la nostra identità è ovvio, d’accordo ma chissà perché succede… Ci spalmiamo un po’ sul colore dei muri, vogliamo vedere la nostra stessa forma negli oggetti che scegliamo. Chiedo scusa per la divagazione ma ironia della sorte, sto traslocando proprio in questi giorni e scrivo per esperienza recente.
Si può allo stesso modo abitare la poesia?
Rifletto, sulla scia della metafora: quando una stanza è troppo buia o dipinta di rosso, con parole violente che sfogano insoddisfazioni personali… io ci entro per dovere di conoscenza ma non ci passo più di un paio d’ore.
Se una stanza è in stile neoclassico, con affreschi al soffitto e mobili/frasi con rivestimenti d’oro e retorica… osservo, magari anche a bocca aperta ma di solito in stanzoni del genere fa anche uno sterile freddo.
Ecco forse – almeno per il momento – scelgo per le mie letture l’arredamento che preferisco, che in qualche modo mi fa sprofondare in una morbidezza fiduciosa. Atteggiamento probabilmente comodista ma come scrivevo, non escludo le visite ad appartamenti più o meno lontani.
C’è un rischio però, mi viene da dedurre…
Che a passare troppo tempo nelle stanze (nella propria, soprattutto) si finisca per non abitare la strada.
Mi piace immaginare la mia stanza/scrittura come un raccoglitore di souvenir e cartoline alle pareti, foto di bei ragazzi, alcune magari strappate a metà, un pacco di biscotti al cioccolato lasciato aperto…
Insomma una stanza in cui si cerca di fare ordine senza nasconderlo dentro l’armadio. Una sosta d’intermezzo alle partenze, un posto pieno di cose vive o comunque vissute in una qualche stagione abbastanza recente.
Poesia come raccoglitore di vita.
Detto questo, avrei potuto spiegare perché ho scelto di dividere la raccolta dei miei testi in sezioni chiamate appunto “Stanze”. Avrei potuto divagare sul perché ho scelto il sottotitolo “Stanze da circo” ma ho preferito tralasciare la metafora del circo mantenendomi sulla concretezza degli arredamenti. Grazie per l’invito alla riflessione; torno agli scatoloni del trasloco.

(Claudia Distefano)

foto

Sette poesie da Circo/stanze (Stanze da Circo), CFR, 2015.

 

da La mia stanza
ovvero stanza del tentato equilibrismo

*
Vino rosso
come succo di mirtillo.
Sei giovinezza,
tu e i tuoi occhiali perfettamente rotondi.

Un parquet finto;
perché non c’è bisogno
dell’età adulta adesso.
Nessuno ce l’ha chiesto
e tantomeno sapremmo
come trattarne la superficie…
(del parquet)

 

 

da La mia stanza quando è disordinata
dunque stanza dell’equilibrismo mancato

*
(Cominciando a pensare
che la corsa
sia lo stato delle cose)

Poesie in una borsetta frigo
perché la valigia esplode
e ci è concesso
soltanto un bagaglio a mano

– lontano
ci si può anche spostare –

E se mi vedi
nuvole nere
attorno alla testa
mentre sono in ritardo
di tre ore oppure più,

sappi che è in corso
un mio personale
temporale
di tipo tempo-rale.

*
Le potenzialità del lunedì:
cominciare
un nuovo libro,
una dieta,
una routine
(come routine
è cominciare qualcosa il lunedì).

Cibi dolci
non dopo le 4.
Sguardi dolci
non più di 3;
potrebbero nuocere al mio girovita.

Al giro…
della vita.

 

 

da Stanza dell’innamoramento
polemicamente detta stanza del clown melodrammatico

*
Ancora qualche ora
all’inizio della
“dieta di te”.

Mi piace chiamarla così
e non con quei nomi
così adulti
e importanti:

fine.
dimenticanza.
o addirittura
“oblio”…
tutti nomi per appesantire le cose.

Mi piace chiamarla
“dieta di te”
perché
è un confine non chiaro,
perché è un regime gentile…

Mi permetterò,
una volta a settimana
– forse –
un attimo,
un secondo di deviazione.
Sarà una foto o un pensiero
o una canzone…
poi di nuovo dieta:

qualsiasi cosa

tranne te.

 

 

da Stanza degli animali strani.
Stanza delle gabbie spalancate

*
Bevi rose sbriciolate, tu
te le ho viste in mezzo al the.
I fiori, quelli veri
li regali a quell’altra.
E a me nemmeno importa
perché a Veszprém, in questa città
ai fiori ci pensa il comune:
piantati ovunque,
in ogni angoletto,
all’incrocio principale
e proprio sotto il segnale stradale.

A me basta, credo,
me li faccio bastare:

7 dozzine di fiori gratuiti,
tutti i giorni d’ammirare.
Sono specie sconosciute,
ungheresi, sono come te:
tutti i giorni gratuito d’ammirare.

 

 

da Stanza dei ringraziamenti
ovvero stanza dei giochi di magia

*
A volte inginocchiarsi
non è sufficiente.
E mi sembra di capire
il perché
dei tappeti musulmani,
del prostrarsi,
pro-strarsi
(così difficile anche solo a pronunciarsi)

*
Riguardo le Tue case,
riflessione sotto le volte di una chiesa gotica:

La sento,
la paura di un uomo medievale tipo:
si sente incapace,
piccolo,
cerca invano riparo
sotto gli archi del tetto
lontanissimo,
sotto tutta quest’altezza
smisurata…
smisurata (però per difetto)
anche se confrontata a Te
(per cui in realtà
quest’ambizione di grandezza
lascia il tempo che trova).

Non c’è elettricità
ed è difficile immaginare candele
tremanti
a valorizzare
l’inquietudine dei pilastri a fascio.

Mi sembra,
tutto, in fondo,
in realtà un po’ un’esagerazione…

Scusaci,
per il bisogno di avere la materia.
Per il bisogno di assegnarTi un domicilio,
con indirizzo e numero civico.

È perché, lo sai,
non riusciamo
nemmeno a concepirTi.

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