Con Mariangela Gualtieri, oltre «la supremazia del visibile».

«E non c’è un solo pezzo d’universo/ che non porti impressa quella spinta di lancio/ quella concordanza d’esserci con tutto il resto.». Versi di Mariangela Gualtieri, scelti dalla raccolta “Le giovani parole”, Giulio Einaudi Editore. L’autrice, «dentro le misure del silenzio», intraprende un cammino luminosissimo, conduce il lettore «verso una sponda/ di eccelse volute», inneggia leggera alla magnificenza del creato, «quasi rammentando una sgomentante felicità». Dona un poema prezioso, ispirato e ispiratore, fiorito oltre «la supremazia del visibile».

Qual è il ricordo legato alla sua prima poesia?
C’è precisamente una prima poesia, ed è Davanti a S.Guido, di Carducci: la imparai a memoria prima di saper leggere e scrivere. Forse fu una mia zia, o forse mia sorella più grande di me. Ricordo il piacere di avere quelle parole con me, sempre, come un tesoro che nessuno poteva portarmi via.
E poi c’è anche una prima poesia che ho scritto: parlava della nonna Rosa, una vecchissima aiutante che rimase in casa mia fino a che aveva più di 90 anni.
Quando morì io avevo 12 anni, e benché le volessi molto bene, piansi la sua morte solo molti anni dopo e scrissi quella poesia. Una figura magica della mia infanzia e molto cara.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la sua formazione?
Dapprima c’è Ungaretti, adorato negli anni di liceo, e anche Dante. Poi ho trascurato la poesia e la ho ritrovata quasi violentemente, potentemente, dopo i trent’anni, leggendo Milo de Angelis, Amelia Rosselli, Franco Loi, Paul Celan. Dante è rimasto sempre, come maestro sommo, poi Dino Campana, Arthur Rimbaud, Giovanni Pascoli, Nelly Sachs e tanti altri che continuano a formarmi, a nutrirmi.

Qual è – nell’arco della giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Direi che ogni momento è buono, se sono sola, quieta, silenziosa, un po’ laterale rispetto al frastuono del mondo.

La poesia può “fermare / l’emorragico mondo che preme / e dilaga e invade pervade / si impila si sgretola e viene / dentro la camera / e fa un peso un peso di secoli”?
Io credo di sì, ma occorre creare le condizioni affinché la poesia possa agire in tutta la sua forza dirompente e queste condizioni riguardano spesso qualche forma di astinenza. Non parlare. Non fare. Tenere spento il cellulare. Mollare la rete.

Qual è la sua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Aderisco del tutto alla definizione data da Paul Celan, il quale diceva che la poesia è un dono, un dono fatto agli attenti, un dono che implica destino. Trovo perfetta questa definizione, perché contiene le parole chiave del mistero della precipitazione poetica: dono, attenzione e destino.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Quando il silenzio dopo l’ultimo verso è perfetto, e nessuna parola è meglio di quel magnifico, appagante silenzio.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
La poesia fa un grande lavoro con la parola. Io credo che la rigeneri, la tolga dall’ordinario e la riavvicini al suo calco originario, a quell’energia d’origine di cui sempre sentiamo la mancanza nella lingua corrente. La poesia pacifica quella mancanza, quella impotenza di non riuscire a dire per davvero ciò che sentiamo, ciò che ci sta a cuore.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Io credo sia proprio in questo parlare un linguaggio d’anima, cioè la sua capacità intrinseca di far sì che subito avvenga una comunicazione ad alta profondità, fra persone che non sanno nulla una dell’altra, addirittura fra appartenenti a secoli differenti. E dunque c’è anche una forza di preveggenza nella poesia, in quella sua capacità di comunicare, di parlare anche dopo secoli e centrare un cuore. La poesia è una magnifica sonda per inabissarsi nelle nostre poco frequentate profondità.

Riporterebbe una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ama rifugiarsi?
Dovrei trascrivere tutto il XXXIII del Paradiso di Dante. È uno dei canti che so a memoria e che spesso recito fra me e me, silenziosamente, ma lo canto anche a squarciagola andando in motorino per la campagna. Oppure varie poesie di Pascoli, per esempio il bellissimo attacco di Maria: Ti splende sull’umile testa/ la sera d’autunno, Maria!/ Ti vedo sorridere mesta,/ tra i tocchi d’un’Avemaria… Con quell’enigmatico mesto sorriso e quella sera che splende su una testa… immagini che non mi stanco di configurarmi e che restano sempre aperte.

Per concludere, la invito a scegliere (riportandola) una sua poesia da “Le giovani parole” per salutare i nostri lettori.
Scelgo una poesia breve, lieta. Credo che ciò che caratterizza il mio canto sia proprio la forza innica.

Meraviglia dello stare bene
quando le formiche mentali
non partoriscono altre formiche
e si sta leggeri come capre sulla rupe
della gioia.

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Mariangela Gualtieri è nata a Cesena nel 1951. Nel 1983 ha fondato, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca. Ha pubblicato alcune raccolte di versi, fra le quali Antenata (Crocetti 1992), Fuoco centrale (Einaudi 2003), Senza polvere senza peso (Einaudi, 2006), Bestia di gioia (Einaudi 2010), Le giovani parole (Einaudi 2015) e il testo teatrale Caino. Le foto sono di Melina Mulas.

 

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(una versione ridotta di questa intervista, a cura di Grazia Calanna,
è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 23.09.2016)

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