Pur ricorrendo tanto spesso nel linguaggio ordinario alle metafore visive: (punto di vista, angolo visuale, a prima vista ecc.), raramente o mai ci si accorge che proprio la visione in sé e per sé è la più potente metafora conoscitiva che ci si offra per capire i nostri procedimenti mentali scriveva Giorgio Raimonda Cardona nella Foresta di piume. Il nostro campo visivo è popolato da oggetti che sentiamo a distanze differenti, che cataloghiamo, ai quali offriamo luce e dai quali ne prendiamo. Noi vediamo, come scrisse Sant’Agostino, anche con tutti gli altri sensi. Il pensiero dell’occhio mi fa rabbrividire in tutto il corpo (C. Darwin in L’origine della specie): l’evoluzione sta in questo passaggio decisivo, nella nascita di una struttura così complessa com’è l’occhio. Con l’occhio la Natura si distanzia da se stessa e impara ad osservarsi e successivamente l’uomo a stupirsi. Qui ha inizio l’era moderna, superando un sistema di primo allarme e di strumento per la sopravvivenza l’occhio apre il campo alla percezione e al contatto fra mondo interiore e mondo esterno separato da una cascata lacrimale. A diciotto anni mi dissero che nell’occhio sinistro si notava la presenza di un punto cieco. Xavier Cercas ha basato tutta una sua idea e teoria della letteratura sul punto cieco. È quel luogo dove nasce e si sviluppa la vera Arte dove né il lettore né lo stesso scrittore riescono ad arrivare ma che paradossalmente produce linfa fantasmatica per entrambi. Una poesia, un romanzo, un racconto possiedono un luogo in cui nessuno sa come arrivare o come uscire.
Scrive Cercas: scrivere un romanzo (ma io dico anche una poesia) consiste nell’immergersi in un enigma per farlo diventare irresolubile, non per decifrarlo. L’enigma è il punto cieco, e il meglio che un romanzo ha da dire lo dice attraverso di esso: attraverso quel silenzio pletorico di senso, quella cecità visionaria, quell’oscurità luminosa, quell’ambiguità senza soluzione. Quel punto cieco è ciò che siamo. (Cercas, Il punto cieco). E la stessa cosa la scrive Durs Grünbein in I bar di Atlantide: … Così dico a me stesso, confessando che tutto il discorso sul mistero della poesia ruota sempre e solo attorno a un punto cieco. Questo punto cieco può però essere qualsiasi cosa. Forse è lo spirito stesso della lingua madre che si sottrae al poeta nel momento stesso in cui appare. Forse è la certezza di una bellezza e di una armonia naturale che ufficialmente viene rinnegata di continuo […]. Forse è quell’empatia con un interlocutore postumo che si trova in maniera così spontanea solo nei versi, l’empatia con un tu evocato dal futuro.
L’auto-commento così è un giro di giostra attorno a un punto vitale che ti fa vedere più o meno le stesse cose senza mai arrivare in profondità. Il punto cieco è il gioco che fa girare alla perfezione l’intera macchina senza alcuna difficoltà apparente. Vediamo le facce, gli alberi, i sorrisi roteare confondendo la nostra idea di scrittura e di lettura. Nella mia poesia il punto cieco può essere rappresentato dalla presenza-assenza di un fantasma: in presenza o impresenza di un fantasma potrebbe intitolarsi gran parte del mio lavoro sulla figura del padre, sull’elaborazione del lutto, sul rapporto ricucito fra figlio e padre. Nel 2004 in Solo buone notizie scrivevo questi versi appartenenti alla mia prima vera poesia scritta il giorno della morte di mio padre (A mio padre, appunto):

Mi rivolgo a te da questo angolo
senza numero o gioco

come a sottolineare nella parola angolo l’incontro di due muri, di due realtà contingenti ma nello stesso tempo così lontane e non identificate con nessun tipo di numero civico e nemmeno di divertimento, come può essere il gioco del nascondino. In questi due versi possiamo e posso trovare tutta la mia idea di poesia: l’unione di un io con un tu che diventa noi; la geografia benché limitata di un angolo che improvvisamente si apre a geografia emotiva universale; l’assenza; la parola gioco che riporta alla dimensione mitica dell’infanzia (ciò che da ragazzo vedevo come cosa normale divenne incanto quando iniziai a scivere, Seamus Heaney in Attenzioni) in cui un luogo illetterato e inconscio può trasformarsi in un luogo appreso e letterario, una sorta di matrimonio sensibile, equilibrato, consenziente tra il paese geografico e il paese della mente (ibid.).
È qui che la storia personale si innesta nella Storia collettiva come quando si cerca di innestare in natura una pianta. Ogni innesto si aggiunge a un altro innesto fino a creare un bosco che a sua volta diventa geografia e la geografia come ci insegna Andrea Zanzotto si trasforma in storia, in segni, segnali e fantasmi di persone e cose.
E tutto il mio sentire è in questa poesia. Resti, scheletri, ossa, tempo dell’infanzia e tempo del mondo, luce e buio, ogni contrapposizione e salto temporale e di significato sono concentrati in questi versi; scienza e letteratura, uomo e animale.

(Lucy in Dall’interno della specie):

Questo scheletro incompleto divenne Lucy nel ’74
e luce per alcuni antropologi americani,
ma è un materiale troppo scarso per poterci offrire
un quadro delle prime fasi dell’evoluzione umana.
Una coincidenza l’anno in cui a maggio
nacqui un mese prima del dovuto,
tre milioni di anni contro un trentasette sulla Terra
testimoniano ragnatele d’infinito
tra un fossile e una scimmia che mi segue
negli angoli più bui di una storia già confusa.

 

 

nota bio-bibliografica:

Andrea De Alberti è nato nel 1974 a Pavia. Suoi testi sono presenti nell’Ottavo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea, a cura di Franco Buffoni. Del 2007 è la raccolta Solo buone notizie per Interlinea; del 2010 Basta che io non ci sia per Manni; nel 2011 Litalìa per La Grande Illusion; nel 2017 Dall’interno della specie per Einaudi. A settembre per Interlinea uscirà il suo nuovo libro La cospirazione dei tarli. L’universo di Don Chisciotte.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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