Nella discarica delle parole

1. Pisani, Chiaiano, Terzigno. Tre punti sulla mappa che tracciano un semicerchio intorno alla città di Napoli. Nomi di luoghi, memorie, discariche. La mia coscienza politica si costituisce tra due date simboliche: il 2001 del Global Forum di Napoli, del G8 di Genova, delle Torri Gemelle; il 2008 della “crisi” rifiuti e di quella economica globale. Tra i quattordici e i ventidue anni osservavo i modi della storia che avrebbero aperto il nuovo millennio. A guardarli ora, sintomi di una transizione, figure di un quotidiano a venire. Nella seconda di queste due date cominciavo a scrivere i primi testi che avrebbero formato Gli oggetti trapassati (2014).
Per ragioni igieniche, di solito le civiltà umane relegano i resti al di fuori delle mura cittadine: cimiteri e discariche. Da ciò, probabilmente, l’immagine e la paura che questi resti possano un giorno ritornare, come una minaccia per la vita associata. È una prospettiva, non la mia. Quando le strade di una delle città più popolate d’Italia cominciarono a colmarsi di rifiuti, qualcosa divenne evidente: quei resti stavano lì, erano stati poche ore prima il nostro quotidiano e, nonostante avessero perso il loro valore d’uso, non andavano via. Guardandoli, cresceva nella mente un’idea: l’uomo è l’essere che produce rifiuti (e che deve provvedere al loro smaltimento).
In Ricordare (Il Mulino, 2002), Aleida Assmann riconosce al rifiuto lo statuto di mediatore della memoria culturale: nell’epoca dei mass-media, in cui l’enorme potenzialità dei supporti per la memorizzazione – paradossalmente – collabora a un perpetuo processo di oblio, «la memoria sparisce da sola, sopraffatta da un ciclo forsennato di produzione e consumo» (p. 238); il rifiuto, allora, diventa sempre più correlativo della nostra memoria culturale, perché quest’ultima tende ad eliminare la distinzione tra ricordo e oblio. Come l’inconscio.

Rifiuto dei rifiuti, oggetto trapassato tu stesso:
l’ombra che mi ritorna dallo specchio
sfugge al perimetro del suo luogo
e s’impossessa dei miei spazi, estorce
ad uno ad uno gli angoli di casa
di stanza in stanza colmando di sé
pavimenti, pareti e soffitte.

Passeggia indifferente tra le camere
e la notte mi veglia muto a letto
l’individuo che non torna al vetro.
Gli innumerevoli frammenti sparsi
a terra formano le incomponibili
schiere di me stesso, inerti saranno
cumulo. Custodisce minacciosa
la sua vita l’ombra che non vuol vedersi.

Con Gli oggetti trapassati provavo a stare nel mondo senza smaltimento. Vedevo le potenzialità di associare la poesia al rifiuto stesso: nella discarica delle parole. Un paragone azzardato, certo. Eppure, ciò non significava “imitare” la discarica (avrei solo perpetrato l’inganno mimetico: «tra tappeti \ di oggetti trapassati, l’elenco impossibile»), ma scrivere assumendo pienamente ciò che accomuna poesia e rifiuto: il loro sottrarsi al valore d’uso. Ciò comportava assumere anche il senso di minaccia proveniente da questo gesto: se i luoghi della memoria erano in realtà discariche ribollenti, sarebbe stato consolatorio dipingere l’inservibilità come una redenzione. Mnemosyne non doveva erigere monumenti di bronzo, ma capire il tempo in cui la scrittura si fa resto: secondo la celebre omofonia joyciana, letter e litter. Città, esperienza, ricordo, “io” divenivano oggetto di poesia non perché dovessero mostrarmi l’epifania di un senso, ma perché stavano lì come resti: come si guardano cose per anni custodite e poi gettate via.
Nell’ultima poesia del libro, un dialogo immaginario con una figura trapassata si trasformava in una non conversazione, come il graduale degradarsi del ricordo. Poco prima, una fiaba trasformava le sue funzioni narrative in resti intrasmissibili:

Provo a modularti una fiaba,
scarto fogli e storie lette, udite,
ma nel fondo non trovo il repertorio
adatto, s’è bruciato al fuoco dell’infanzia.
Ne restano le teste mozze degli eroi
i corpi sparsi e ammonticchiati
gli oggetti magici anneriti.

È terribile l’incapacità di darti un mondo
tutto ingurgita lo spazio che raccoglie
i nostri morti, le cose inutilizzabili.
Anche la nostra memoria per diritto,
dove ogni gesto è un passo alato,
si unisce alle carcasse spente.
Posso solo coprirti gli occhi, evitarti
la paura.

Non c’erano soluzioni da proporre. Mi interessava mostrare ciò che credevo stesse accadendo: l’ultimo tempo di una fiumana di produzione di oggetti d’uso e loro scarto, le sue conseguenze sull’immaginazione. Con il Fortini lettore di Leopardi, la poesia può essere un “passaggio della gioia” anche quando enuncia le verità più scomode. Gli oggetti trapassati mi lasciavano l’imminenza della catastrofe e la reazione a quest’ultima: una dislocazione dello sguardo. Tra una poesia tesa all’identificazione del lettore e una che costringe allo spostamento, trovavo il mio luogo in quest’ultima: che non significa assenza di pathos, dimidiato portato esistenziale; significa rinuncia all’esemplarità (anche quella ridotta o crepuscolare).

2. Il dibattito sulla poesia in Italia vive forse una sclerosi: esaurita la dialettica tra tradizione e avanguardia, fondata sul paradigma del nuovo, l’attenzione si è spostata su soggettivismo e oggettivismo, con una dialettica speculare alla precedente. Mi sembra un modo per reiterare opposizioni stanche. Svelato che anche la forma di realismo più neutra è una tecnica illusionistica, il grado di soggettività/oggettività di un testo poetico non è un parametro che ne garantisce valore ed efficacia. Si può dare maggiore oggettività (che porta il lettore fuori dal testo) in una poesia scritta in soggettiva o, viceversa, una maggiore idiosincrasia soggettiva in un testo che utilizza tecniche spersonalizzanti. Penso che le uniche forme di oggettività si siano date, storicamente, negli elementi della cornice: istituzioni formali, riti e modi della condivisione estetica. In questo, ci troviamo ancora pienamente nella frattura della modernità: il che significa che un testo poetico crea innanzitutto la sua cornice, senza una pragmatica precostituita.
Misura (2018) provava a radicalizzare la dislocazione: camminare in un mondo-resto. Tra le diverse sfumature del titolo, c’era anche l’allusione alla forma utilizzata. Un distico libero che stesse nella contraddizione: da un lato, il tentativo di mimare, graficamente e per respiro sintattico, il camminare in questo mondo spettrale; dall’altro, il riferimento a una cornice di condivisione che portasse però in sé i segni dell’idiosincrasia.

Nel punto dove cambia la materia
dopo lenti movimenti come crosta.

Uscire fuori, percorrere le strade, stare
tra gli edifici nello spettro della città.

L’abitudine che nell’aspetto si disdice
La tua singolarità che spaventa i muri

emana ombre di diniego. Provi a contare
i luoghi, analizzi perché la trasformazione

ha tracce di passato. Siamo a un passo,
ti ripeti. Sei nel passo, constati.

La creazione del dispositivo allegorico visionario non voleva essere l’immagine realistica dell’apocalisse: anche questa può risultare nient’altro che una consolazione, il puro fruire di una sequenza visiva (non molto distante dall’industria dell’intrattenimento). Il primo e l’ultimo testo provavano a svelare il carattere stesso di artificio del mondo-resto costruito: la speranza era la possibilità, dissoltasi la cornice che inquadrava la dislocazione del lettore, che si aprissero modi diversi di percezione del mondo; modi che si sottraessero al ciclo di produzione e consumo.

La mattina appena sveglio pensi di vedere i mostri.
E allora misuri il tempo, l’evento che non vedi.

Quando poggi il piede a terra cominci a contare.
Dovresti sapere che in alcuni incalcolabili momenti

Puoi essere dento e fuori e i globi che ti circondano
la testa sono indistinguibili. Misura il tempo, l’evento

che non vedi. Ti rimane questo: tenere fissa la pupilla
sullo spazio inesistente, mettendoci i tuoi chili di corpo

passato senza badare alla cicatrice che ti marchia
la fronte e che parrebbe renderti misura del presente.

I segreti vanno detti a bassa voce, scandendo
bene la visione ed eseguendo la parola che s’attaglia

al cemento. L’hai visto infinite volte e non puoi che serbare
il resto: misura il tempo, l’evento che non vedi. Cammina.

Poco più di un anno dopo, la pandemia interveniva a mutare scenario: non cambiavano i modi della percezione, piuttosto si mostrava che l’attimo della catastrofe può essere conferma di uno stato di cose. Penso che vi siano modi alternativi d’esistenza; che al mutare della storia, cambino le forme del linguaggio, cioè le relazioni fra gli uomini. Alla poesia, chiedo di sondarne la possibilità: in un adesso del sinolo forma/vero che sia contraddittoriamente retroflesso e aperto.

Campo aperto (inedito)

Quanto di noi resta e si appresta
a un giorno pieno.
I dispositivi spenti illudono
ci sia un altro tempo nel tempo:
le bambine mettono fiori nelle pentole
gioco o rito che non va decifrato
che non celebra niente
che non significa niente
mentre ci arresta una paura di noi.

Puoi dirlo quel senso di avvicinamento
che ti spinge giorno dopo giorno?

Un campo aperto, privo di alberi,
un campo vuoto, lo sguardo.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

 

Nota biografica.
Bernardo De Luca (Napoli, 1986) ha pubblicato i libri di poesia Gli oggetti trapassati (d’if, 2014) e Misura (Lietocolle-Pordenonelegge, 2018). Insegna Letteratura italiana all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha curato l’edizione critica e commentata di Foglio di via di Franco Fortini (Quodlibet, 2018) e pubblicato saggi sulla letteratura moderna e contemporanea. È membro della giuria del Premio Internazionale Franco Fortini.

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