L’auto-commento è genere proclive all’inciampo, spesso imbarazzante, per la sua natura egotistica, a volte indisponente. Uno scrittore, inoltre, rimane tale anche nella glossa alla propria creazione – e anche di quella dovrà rispondere in futuro, esteticamente, politicamente, umanamente. Cui bono? Verrebbe da chiedersi… Eppure, c’è qualcosa che d’istinto reputiamo utile nel parlare dei nostri testi, qualcosa più simile a un viatico che a un’analisi, più racconto che spiegazione, più indizio che giudizio. Mi limiterò qui a introdurre alcune poesie tratte da L’invasione dei granchi giganti, un libro scritto tra il 2004 e il 2009, pubblicato presso Marietti nel 2010, abbastanza datato, dunque, perché ne possa parlare con un certo distacco – ma ancora sufficientemente prossimo da nutrire nei suoi confronti un senso quasi fisico di responsabilità.
—–Tempo fa, un poeta mi chiese se i granchi de L’invasione dei granchi giganti appartenessero a una specie particolare, oppure discendessero da un’idea di granchio, dalla figura archetipica di un decapode. A prescindere ora dalle pericolose illusioni della referenzialità, un granchio preciso l’avevo sì in mente: il Paralithodes camtschaticus (TILESIUS 1815), ossia il Granchio gigante, detto anche il Re Granchio della Kamčatka. Era il 2005. Me ne stavo comodo e già sonnacchioso sul divano di casa, a Monaco di Baviera, quando dallo scatolone nero della tivù emerse il carapace arancio-porpora di un granchio immenso. Una voce lenta, delicatamente rauca, involontaria macchina del sonno, raccontava di giganteschi granchi rossi, provenienti dallo stretto di Bering, che stavano mettendo seriamente a repentaglio la pesca al largo delle coste nordorientali della Norvegia. Spiegava che erano i pronipoti di granchi che i sovietici avevano trapiantato nella Baia di Murmansk anni addietro, per sfruttare al meglio il commercio della loro “carne acidula”. Tra plumbee inquadrature su mari gelidi e lunghi primi piani sui volti induriti dal sale di pescatori norvegesi, mi addormentai nel giro di pochi minuti, ma il giorno seguente avevo già metà della poesia in testa prima di colazione.

L’invasione dei granchi giganti

                                                         Bugøynes, Norvegia, Circolo Polare Artico.

Giunsero da Vladivostok negli anni Trenta
con un convoglio sprofondarono
nella Baia di Murmansk,
granchi del Pacifico, robuste
concrezioni del sale, corazze
purpuree. I russi non ne diedero notizia,
non calcolarono la rapidità
procreativa della loro carne acidula.

Avanzarono nel Novecento profondo in formazione,
divorando miglia d’alghe, le chele tenaci
sull’instabile pack li condussero
in acque norvegesi.
I coloni d’Oriente aumentano
di giorno in giorno, succhiando dal sale
il nostro ossigeno, confiscando
i secolari tributi del mare.

E non ci sono più pesci, nemmeno per le esche.
Non hanno concorrenti,
se non le verdi reti dell’uomo.
Si spingeranno verso Sud, defloreranno i fiordi
occidentali e scenderanno verso Sylt,
Helgoland, verso le coste delle filiali d’Europa, Amburgo,
Anversa, Bilbao, si batteranno coi loro simili
dei mari più caldi, per poi entrare nel Lago Promesso.

Prendo le misure degl’invasori, incrociando in Excel
tutti i mari del globo e il più cangiante
latinum dei crostacei, redigo
le mappe della vita in eccesso,
sono il notaio del Mar di Barents, il contabile
inviato da Oslo. Tutto pesa nei miei taccuini,
ma nulla quanto l’addizione
– struttura della speranza e principio della resistenza.

Popolo che muovi sotto le acque, prelibata
carne della distruzione, migrazione
disgiuntiva della ricchezza,
bilancia del consorzio umano, inconsapevole
armata della storia,
                               moltìplicati,
perché la piaga sia piena e la punizione completa.

 

       Scrissi questa poesia circa due anni dopo l’uscita della mia raccolta d’esordio, Nella costanza (2003). Avvertii subito, componendola, che qualcosa nel mio tono stava cambiando, iscurendosi, e intorno a quel testo si andarono assiepando poesie intrise d’umori apocalittici, contraddistinte da inflessioni distopiche, alcune prepotentemente liriche, altre narrative, come il poemetto I Mirmidoni. I tableaux monacensi del primo libro – popolati da emigrati, migranti, apolidi, tagliatori di siepi, custodi di musei e signori del “frattempo”, organizzati da null’altro se non dal principio della meraviglia e tenuti insieme da un filo sottile d’erotismo, più onirico che sensuale, quasi nello stile della Neue Sachlichkeit – fecero largo a una sorta di libro-arca, pieno di bestie e fantasmi, di ossessioni tassonomiche e cartografie impossibili, un libro dilatato nello spazio e nel tempo:

Integrato in corazza di silicio

Integrato in corazza di silicio,
          nel quarzo, vorrei essere,
un tenace profeta del neolitico,
          testicolo del tempo,

          vorrei che mi scoprissero
          in una fossa laterale,
in un cunicolo non deflorato
da speleologi domenicali,

          vorrei essere rinvenuto,
          il rinvenuto feto,
          come i miei famigliari
avrebbero preferito lasciarmi

adagiato, con le braccia incrociate,
i palmi chiusi a scodella su spalle
bianche, verso il costato le ginocchia,
           l’ascia deposta al fianco,

la mia punta infrangibile di selce
– che già i padri sapevano foggiare,
           con calcoli di fiume
           e gomito di quercia –

           e a oriente del mio cranio,
           inciso dalla lotta
nel folto, il pugnale e le frecce,
sentinelle del mio nuovo soggiorno,

migrata la mia famiglia verso altre
           grotte e donne ulteriori
           per il mio primogenito
           ansioso di comando.

       Non è difficile scorgere Seamus Heaney – il poeta che, dopo Paul Celan, ho studiato e amato di più – dietro queste quartine sepolcrali; non è difficile, credo, ricomporre i tasselli di un verosimile dialogo tra me e il poeta di North, incentrato sul rapporto tra archeologia e senso della morte, un dialogo che per sua natura, scavando nel passato, raccogliendo resti, archiviando lasciti, reliquie, spoglie, diviene conversazione funebre, elaborazione del lutto, convegno di spettri.
     Non così chiara mi risulta, invece, quantomeno ora, a distanza di tanti anni, l’origine dell’altra poesia “neolitica”, archeologica, intitolata “Discorso di un giovane alla sua prescelta”:

Discorso di un giovane alla sua prescelta

                                                                               In una tenda a oriente del Volga
                                                                                                         3500 A.C. circa

    Tosati e franti i monti degli eserciti meridionali
muoiono anche gli asini ora
e non c’è segno d’acqua che auguri fiducia.
Il consiglio dei vecchi ha rotto
gli indugi ieri sera: partiremo
verso la schiena del tramonto
verso le dimore degli uomini-ambra
che hanno pelli dense e occhi simili ai nostri,
cammineremo lontani dal mare di mezzo
e faremmo tappa presso le tende degli ambasciatori,
risalendo il terzo fiume occidentale
entreremo nel regno delle foreste ampie-foglie:
nel cuore del verde
col fuoco apriremo il nostro spazio
bruciando anche la quercia
e fonderemo.
   Quindici uomini del villaggio partiranno,
con sette donne e due vergini
tu sarai la terza – ho pregato il dems-poti
per averti, gli regalerò la mia giovinezza,
questa notte – così è detto.
Oltre la schiena del tramonto
sono pochi gli uomini,
non devi temere.
Coltiveremo la terra estirpata al bosco,
il fuoco la renderà albume,
e tu ingrasserai come conviene,
avremo tempo per le arnie
e per la contemplazione dei temporali. Non temere.

       Per la precisione, la cornice temporale di questa finzione lirica è l’eneolitico, detto anche età del rame (il periodo di transizione tra il neolitico e l’età del bronzo), e l’idea originale radica in una solida, per quanto controversa, teoria scientifica, l’ipotesi kurganica, formulata negli anni 50’ del secolo scorso da Marija Gimbutas – una spiegazione linguistico-archeologica di come la cultura indoeuropea si sia espansa, migrando dalla sua Urheimat “russa”, tra il fiume Dnepr e il Volga. È evidente che stessi leggendo la Gimbutas allora, ma non saprei più ricostruire l’origine emotiva del testo, ciò che mi spinse a immaginarmi un giovane indoeuropeo che offre la sua verginità al capo-villaggio (“dems-poti”) per ottenere il permesso di lasciare la propria tribù e migrare verso Ovest in compagnia della giovane amata. D’altra parte, più regredisce nell’oblio ciò che mi fece scrivere questa poesia, più volentieri la rileggo, come davvero provenisse dal passato, dettata da un’altra voce, come fosse una dichiarazione d’amore in codice, di cui ho perso la chiave semantica. In ogni caso, anche questa poesia è una variazione sul tema cruciale della raccolta, l’invasione – ovvero migrazione, spostamento, incursione, appropriazione, anche linguistica, come nella poesia che segue.

La nuova lingua

                                             a Karin Birmele

Un nuovo vocabolario, una lingua di melanzane
e carote volevi, senza kappe né dieresi,
accentuata, soprattutto grave,
dove l’essere accelera
verso Oriente sulla terza persona
(a volte un esso, lo so, non scherzare,
il neutro è cosa seria
anche se ectoplasma nei miei polmoni).

Vennero il prossimo e l’imperfetto, ma non m’accorsi
del tuo salto grammatico, non diedi spiegazioni
al futuro e in legioni si pararono
i diari, le tue repliche al passato, confusioni
tra continui e derive del perfetto.
Nemmeno del pronome mi ricordo,
eppure d’un tratto c’erano tutti
i dativi a me piace
il pompelmo, gli accusativi, vèstiti,
i dominativi ne voglio ancora.

Ricordo l’evoluzione semantica, il duello
idiomatico, sull’in bocca al lupo,
la resistenza metaforica al dato,
la risposta all’ottativo
(sì, quasi come le crêpes in Bretagna),
la prima condivisione dell’ira
e la pace filologica:
pensare nella lingua e non per la lingua.

Relazione lessicale, la nostra, mio melograno,
mio pòlipo, culinaria, hai sempre amato
una certa alchimia da fornello.
Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente
ternaria, indoeuropea.
                                   Quando poi
entrai nella tua lingua, fu più dolce
ancora il fraintendere.
Mi sottomisi ad un verbo ippico, guerriero
che poteva dividersi, slogarsi
nella frase principe, comprendere il tutto
in un abbraccio di radice
e prefisso, subordinando
gli altari del soggetto ed i pascoli del complemento.

Con te presi a fumare, con te, nuova e medesima lingua,
le ho fumate tutte, fino al bruciore
notturno sotto la laringe, fino
al raschio verticale.
                                Le ho aspirate
per sbloccare la vita del batterio fonetico
agitare il rājā, rex, rīx dei miei avi,
l’arciere sàrmata e l’auriga vedico
che ancora errano tra le catacombe dei mie polmoni.

       “Pensare nella lingua e non per la lingua”. L’imperativo è stare nella lingua, operare dal suo interno, anche a costo di fraintendimenti, incomprensioni, slittamenti del senso, oscurità. Per questo, anche se da diciotto anni non vivo più in Italia, non potrei scrivere poesia se non in italiano – perché è l’unica lingua in cui posso sbagliare davvero, in cui anche l’avverbio più banale ha una storia di ferite e ricongiungimenti, perché in questa lingua mi ci posso perdere, senza preavviso e senza ragione, inabissandomi, affogando, per poi riemergere, aggrappandomi a un’ecolalia, a un suono dell’infanzia, a un balbettio. La lingua madre appartiene a ciò che è scontato e imprescindibile come uno sbadiglio; a volte pare condividere la stessa natura del piacere sessuale; più spesso, duole e sfugge come un’emicrania: sai perfettamente, istintivamente dove picchia e pulsa, ma non la afferri del tutto. D’altra parte, come ho scritto altrove, “la poesia è un’arte che impone spostamenti, traslochi, traduzioni, dislocazioni […] una forma di esilio, da cui ci giungono notizie di un mondo sconosciuto eppure stranamente consueto; è un’interlocutrice familiare e, allo stesso tempo, inquietante (unheimlich), scritta in una lingua che crediamo ci appartenga, ma che giunge a noi trasfigurata dalla lontananza, estraniata”.
       Tra le invasioni di questo libro ci sono anche le minime intrusioni del quotidiano, come la morte, nella poesia Il Dolmetscher dei congiunti, “[…] che ti coglie / dove non dovresti essere, / oltre le meridiane del quotidiano, incuneandosi / nei corpi come il muso // d’un doganiere ubriaco / nel finestrino dell’auto, blaterando / dissociate formule del cordoglio”. Come la malattia di una madre, in Diagonale del sacro, che cambia ordine e struttura a una vita intera, presentandosi con la luce bianca di un’ambulanza, che occupa lo spazio del cortile – il luogo fino a quel momento adibito a ricreazione, il sacro quadrilatero dello svago, del gioco e delle pallonate contro il cancello.

[…] Domenica, mattina presto, mamma
non ci aveva svegliato ed il cardiologo
s’era già impossessato della camera

un’ambulanza s’era spalancata
in cortile, imbiancando le inferriate.
Vidi un braccio penzolante, sbucato

dalle lenzuola e la sua bocca storta,
il giovane cardiologo chinato
e biondo, come il cristo della stanza […]

       Anche il nuovo è una forma d’invasione, quando destituisce il vecchio, occupandone gli spazi, estromettendolo. Invadere è impossessarsi di un luogo già occupato, in mano ad altri, amministrato o usufruito da altri; è un’operazione supremamente territoriale, in cui, tutto d’un tratto o per gradi, regole e gerarchie sono sconvolte, sostituite o capovolte. In questo senso, la novità prodotta dal nascere – da ciò che emerge, che spunta – è un’invasione topograficamente rilevabile, che rende obsoleta ogni mappa preesistente. Ogni nascita è una rivoluzione topologica, che stravolge geometrie, connessioni, limiti, un’incursione che trasmuta, trasfigura e rinnova. L’ultima poesia del libro, dedicata a mia figlia, si apre con le parole che Matelda rivolge a Dante, Virgilio e Stazio appena giunti nel paradiso terrestre: “Voi siete nuovi”.

Il Nuovo Mondo

                                   A Mathilda

Voi siete nuovi – in quest’isola d’incanti
fonetici, voi siete nuovi, al pari
del sentiero verso l’alta cucina,
chiaro, per boschi di betulle e ombrelli.

Nuovi, come le spiagge cui soltanto
puoi approdare – bianchi sofà-letto
e scogli satellitari, di poco
al largo, su cui giocare e dormire.

Nuove pure le torri e numerose
– quelle che s’ergono e manine sfaldano
e quelle resistenti, le slanciate
sedie della contrattazione-pasti.

Nuove le mani che prendono, tengono
e sempre pulite alzano, dispensano.
Siete nuovi, non vedete? I bocconi
umidi ai piedi dei libri-falesia,

il soggiorno sgombrato dell’instabile,
l’effervescenza al fondo delle cose
e le macchie-carota – l’eversivo
arancio dove il bianco non sopporta

 

 

nota bio-bibliografica:

Nato a Galliate (Novara) nel 1976, Federico Italiano vive a Vienna, dove lavora come ricercatore presso l’Accademia Austriaca delle Scienze. Poeta, saggista e traduttore, Italiano insegna Letterature Comparate presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. Le sue poesie, incluse in varie antologie in Italia e all’estero, sono state tradotte in tedesco, spagnolo, inglese, francese, ungherese, ebraico, albanese e rumeno. Dopo l’esordio con la raccolta di poesie Nella costanza (Atelier 2003), Italiano ha pubblicato L’invasione dei granchi giganti (Marietti 2010), L’impronta (Aragno 2014) e un’auto-antologia della sua produzione poetica, Un esilio perfetto. Poesie scelte 2000–2015 (Feltrinelli 2015). Come traduttore, si è occupato prevalentemente di poesia tedesca, inglese, spagnola e francese. Di prossima uscita per Einaudi è la sua traduzione della raccolta Regentonnenvariationen del poeta tedesco Jan Wagner (Variazioni sul barile dell’acqua piovana, Einaudi 2019). Autore di saggi sulla poesia, sulla traduzione e sulla teoria della letteratura, come Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan (Mimesis 2009) e Translation and Geography (Routledge 2016), Italiano ha curato vari volumi collettanei e antologie, tra cui un’antologia della poesia italiana contemporanea (con Michael Krüger, Hanser 2013) e un’antologia della giovane poesia europea, Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas (con Jan Wagner, Hanser 2019).

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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