La profezia della caduta del cielo […] è un tema ricorrente in diverse escatologie amerindie. In generale questi crolli, che possono essere associati a cosmografie stratificate, con differenti “cieli” e “terre” impilati l’uno sopra l’altro, sono fenomeni periodici, parte di grandi cicli di distruzione e di nuova creazione dell’umanità e del mondo. È comune che tali nuovi ordini stratigrafici siano attribuiti all’invecchiamento del cosmo e al peso crescente dei morti (sia il peso dei loro corpi dentro la terra, sia quello delle loro anime nello strato celeste).
Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine
E pensare che circola l’idea secondo la quale gli animali sono semplice archeologia: avendo prodotto per via di lunga evoluzione il loro fiore, l’uomo, essi dovrebbero, per logica, sparire.
Coccioli, Piccolo karma
[…] Tutti gli strati di vita e di morte che pervadono ogni luogo e ogni corridoio ecologico.
Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto
Le voci esteriori e i moti interiori degli animali non umani. Comment connaît-il par l’effort de son intelligence les branles internes et secrets des animaux?[1] Non con l’intelligenza, appunto, così come comunemente intesa. Pensare quindi con struggimento al sarvabhūtarutajñānam[2], la comprensione dei suoni emessi da tutti gli esseri: una facoltà straordinaria ritenuta attingibile mediante la pratica dello yoga, e intanto sbattere ripetutamente la testa contro i muri dell’antropocentrismo, dell’antropomorfismo, del punto di vista unico, dell’insormontabilità del linguaggio umano, ma senza mai smettere di confidare nella comunanza, nella comparabilità delle esperienze interspecifiche. Quindi sognare con la fabula di Haraway: collaborazioni e assemblaggi multispecie, simbionti animali, con-divenire, la futuribile pelle striata di donne-farfalle[3], e poi occuparsi di meticciamenti patetici e grotteschi, come quello di un Dennis Avner (noto col nome di Cat Man) qualunque dei nostri giorni. Farsi suggerire da Derrida[4] la possibilità di accedere a un pensiero chimerico e fantasioso, e spingersi a ibridare uomo e allodola nel canto. Per crescente insofferenza verso i finimenti, insistere sui verbi, celebrando l’interazione benevola dei corpi, umani e non umani (dissetare, vegliare, abbracciare, riparare, tenere a galla…) e l’ineffabile morire del più giovane (appoggiare la testa, ascoltare il battito del cuore, infilare un paio di scarpe…). Strizzare il sentimento per rimuoverne il sentimentale (cercare di mostrare lo scarto di lato dell’asino più che le ferite del rospo[5]). Dire della precarietà dell’io (l’io contestato all’animale non umano, l’io che si consegna del morente, l’io concluso del morto). Ascoltare la sovrapposizione delle voci vive e trapassate durante una sessione di tanatoestetica che riattualizza antiche forme di meditazione sull’impermanenza e la dissoluzione[6]. Sentire i morti parlare coi vivi e viceversa.
che dicessero di me:
è l’ibridato il meticciato
l’azzardo transpecifico
la bestia antropomorfa
il maschio umano oltrepassato
in femmina di tigre il ridondante
lo sciamano
il recordman fenomeno
da baraccone
il felino rabberciato l’Urone
sbalestrato un veterano
di mare e mascherate
un buffone
mi andava bene tutto
ridevo con canini affilati
—
l’idratante dalla formula segreta che spiana il corruccio alla signora S.
e a seguire la base coprente lilla
quando riascolteremo la lezione registrata
puoi giurarci che la voce morta della signora S.
finirà per sovrapporsi alle nostre voci vive:
smettetela di sussurrare per abitudine al rispetto
schiamazzate invece senza sentirvi in colpa perché ancora fate rumore
perfino io faccio rumore
anche se il mio è il rumore cavo della disaggregazione
e vi assicuro che non è bello da sentire
—
quando il gatto di Jacques Derrida fu sul punto di morire
guardò quell’uomo che gli era capitato in sorte
e percepì in lui un disagio ben diverso
da quello che fiutava se Jacques si ritrovava
nudo al suo cospetto
adesso sotto l’ondivago ciuffo bianco
Jacques non s’interrogava più
sulla natura dello sguardo del suo gatto
ma si spandeva forte in paura e disorientamento
era dolore nel dolore di un altro
che finalmente sentiva di non essere più l’Altro
Jacques Derrida, L’animal que donc je suis.
Sono così partita dalla fine, dalla mia ultima (la quarta) raccolta poetica.
Ho preso fiato, con Unità stratigrafiche. Mi pare che nel libro vi sia una volontà di apertura, una ricoeuriana tensione alla rifigurazione del mondo (mi riferisco in particolare alla parte sugli animali), un antinarcisistico distanziamento da sé. Tutta l’aria che mi serviva dopo aver scritto La disponibilità della nostra carne (la terza raccolta) ovvero dopo essermi rinchiusa nei recessi del dormitorio di Asclepio, a incubare sogni e attendere perdoni e guarigioni.
La volutamente brevissima nota con cui presentavo questo terzo lavoro faceva riferimento all’oscillazione tra l’apertura ad accogliere l’altro e l’abissale libertà di disporne, di rifiutarlo. I quaranta testi che compongono la raccolta (le quaranta settimane di una gestazione) sono quaranta microgenerazioni letterarie a impossibile riparazione della mancata generazione fisica. Sono preghiere, epitaffi, formule sacrificali, visioni cumane indotte dai vapori intossicanti della mia stessa biografia, la crudezza dell’evento ammantata di mito (soprattutto orientale), a mediare tra la necessità di dire (“è tempo di restituire loro la scoscesa verità della carne”) e la protezione, il pudore dovuti all’oggetto del dire (“La colpa, inestinguibile”).
Hanno fermato il telaio le mani
per aggrapparsi all’erica e alla roccia
per scendere l’impervio, nella notte.
Preme sul fianco il cesto
che svuoterai laggiù nel fondo.
L’alba sarà il bianco di una scialitica.
Ci assedieranno i fianchi prosciugati
mai orbitando al di sopra dello sterno.
Sbatteranno ancora e ancora contro il pube
api di pura volontà
ogni volta cercando, nel miele di un nuovo coito
la disponibilità della nostra carne.
Nelle acque di dentro vi immergo
nel tumulto dell’acqua corporea
nel guado che toglie il respiro
e lo ricongiunge al Respiro.
Nelle pozze del ventre vi annego
nel tremendo, nel nero dell’acqua.
A uno solo, in quest’acqua, il respiro.
Uno dopo l’altro, lei getta i figli nell’acqua.
Mahābhārata, I, 98, 13
Il disporre fisicamente dell’altro, lo scegliere per l’altro (vulnerabile, privo di voce o dalla voce inascoltata, silenziata) è palesemente il tema comune alle due raccolte, ma in Unità stratigrafiche si compie il passaggio da una mitologia personale, da un viaggio alchemico, privato, di trasmutazione del piombo esistenziale, all’assunzione di una multiprospettiva, non più centrata sul sé. Molto di questo lo devo anche (e oggi lo riconosco con chiarezza) alla presenza nella mia vita di un amico e intellettuale come Mario Galzigna, alle sfide da lui lanciatemi sul campo della molteplicità e del pensiero “critico, antagonista, libertario”[7], insieme, naturalmente, alla mia immersione negli Animal studies.
La continuità tra i due libri può essere letta anche nel riproporsi dell’“ossessione” verso il tema dello stato di esistenza intermedia (bardo) della tradizione buddhista, già cornice del mio primo romanzo, Tanatoparty.
Si confrontino i versi qui sopra riportati (“Ci assedieranno i fianchi prosciugati…”) con questo pezzo in prosa da Unità stratigrafiche:
Quando morì, tentò per nove volte di rientrare nel suo stesso corpo. La prima volta attraverso l’occhio destro, ma restò impaniato come un passero nella pupilla, in tutto quel dilatato nero. La seconda, provò con l’occhio sinistro, ma ciò che persisteva nella retina non era più qualcosa che potesse guidarlo dentro. Tentò allora di penetrare in un orecchio, poi nell’altro, ma in entrambi fu stordito da uno stridio acuto, come di lama su una mola, così pensò all’estate, alle cicale, a quel che si sfaceva sotto il sole, e pensando fu rigettato fuori. La quinta e la sesta, toccò alle due narici, e l’estate di nuovo esplose con le sue morie, in mille fiori di tiglio. Si affacciò così alla bocca e vide la nerezza incurvarsi per l’enormità di peso della lingua, ma non fu inghiottito. S’illuse, per un istante, di poter risalire il pene, come seme a ritroso o un salmone controcorrente. Poi, sulla soglia dell’ano, la nona volta, dopo gli otto passi precedenti, attinse finalmente la consapevolezza: riconobbe la sua natura di deiezione psichica e non si oppose più al morire.
Quanto all’incaricarsi di punti di vista “altri”, forse in Unità stratigrafiche il testo più riuscito (proprio perché fallimentare in partenza) è quello nato dall’idea di ricalcare la struttura del canto dell’allodola (così come rinvenuta in Rete dagli appunti di un compositore-ricercatore), con l’alternanza di elementi ripetuti e parti libere, nell’assemblaggio degli ultimi tweet scritti da persone morte di lì a poco (tweet raccolti dal sito The Tweet Hereafter).
cinguettii
mattino ventoso. mi sembra pericoloso allenarsi all’aperto
i morti vivono
i morti vivono
i torti stridono
con dei colori autentici
dei morti in attesa: vivono, vivono
ora di partenza prevista: sempre. mia mamma ed io. passato, adios, grazie, fine. liberare. non ho parole ultime
liberare il passato per riposare
liberare il passato per riposare
liberare il passato per riposare
liberare il passato per riposare
liberare il passato davvero, davvero. vivremo, vinceremo
dove il passato? appena finito. aspetta
dove il passato? appena finito. aspetta
dove il passato? appena finito. aspetta
dove sempre? spettacolo gradito. legno. sono andato
sono finito. della prima stesura: solo merda. aspetta
angelo o legna. riposare
angeli o legna. riposare
angeli o legna. riposare
angeli o legna. sono via ora. vinceremo, vinceremo
legna vinceremo
legna vinceremo
legna vinceremo
legna vinceremo
legna vinceremo
legna. sto aspettando di fare un angiogramma
in vita
una vita
una vita
una vita
una vita
una vita
vita vita vita. assaggiate finalmente le ostriche. finito
vita vita vita. più profondamente passato. un fanculo a tutti. passato
Con altri due passi a ritroso (Ballabile terreo, la seconda raccolta, e Sari. Poesie per la figlia, quella di esordio) ci troveremmo di fronte a una poesia dell’io dolente, del lutto familiare, nel primo caso, e a una poesia della meraviglia dell’io, dello stato di grazia toccato appena dalle ombre, nel secondo. In entrambi, potremmo semplicemente limitarci a dire di quella vecchia, comune, banalissima speranza, dura a morire, che il nostro piccolo mondo si riverberi, risuoni significativamente in quelli altrui.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi.
(Un grazie immenso a Gianluca D’Andrea per la pazienza, il pungolo e per avermi parlato di responsabilità).
*
Laura Liberale è scrittrice, indologa e tanatologa. Ha pubblicato i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero 2009), Madreferro (Perdisa Pop 2012), Planctus (Meridiano Zero 2014); le raccolte poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If 2009), Ballabile terreo (d’If 2011), La disponibilità della nostra carne (Oèdipus 2017), Unità stratigrafiche (Arcipelago itaca, 2020); i saggi indologici I mille nomi di Gaṅgā (Edizioni dell’Orso 2003), I Devīnāmastotra hindū – Gli inni purāṇici dei nomi della Dea (Edizioni dell’Orso 2007), I nomi di Śiva (Cleup 2018). È presente tra gli autori di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012).
[1] Montaigne, Essais, II, 12.
[2] Patañjali, Yogasūtra, III, 17.
[3] D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto.
[4] L’animal que donc je suis.
[5] Riferimento a Hugo, Le crapaud.
[6] Visuddhimagga, sezione sulla meditazione avente a oggetto lo “spiacevole”, ovvero i vari tipi di cadavere.
[7] Galzigna, Rivolte del pensiero. Dopo Foucault per riaprire il tempo.