Luciano Neri, Il gioco a mancare

“Ci vogliono tanti luoghi dentro di sé per imparare a vivere” (Pontalis)

 

Fin dalle prime raccolte poetiche, ad oggi incompiute, ho atteso quell’urgenza di umanità per tornare a una luce. Quella luce che è del Mediterraneo, e che cerco, per schiuderla ad altre immagini e altre logiche. Non una luce simbolica, ma una luce reale, che non obbedisce a nessuna descrizione fino a che non la si vede. In quel periodo, che coincideva con le stesure di Lettere nomadi e Figure mancanti (usciti nel 2010 e nel 2104), partivo dalle mie mancanze come ricerca rivolta a quanto l’uomo fosse stato espropriato della sua esperienza e a come, questa espropriazione, se ne fosse impossessata e ora ne disponesse. L’incapacità di un’esperienza biografica significativa era in effetti quanto mi sentivo di aver ereditato dalle generazioni precedenti e ciò si trasferiva in una riflessione che non poteva che essere del negativo. Dunque assecondavo una forma frammento del testo nell’instabilità di una scrittura senza possibilità di unità, in quella non-fissazione che aveva annunciato lo smarrimento di un soggetto cresciuto negli anni’80, dopo i tentativi falliti di costruire una società migliore. Una società, quella italiana, che non aveva mai saputo ospitare il proprio “straniero” al fine di operare in opposizione ai valori identitari dominanti, alquanto poveri e scontati, dai quali mi ritenevo escluso e affrancato. Se tra la scrittura e il ruolo passivo di una generazione esisteva una relazione, essa già conteneva in sé il presupposto della cancellazione, l’estenuazione di un soggetto. Eppure, se di speranza si può ancora parlare, nel divenire storico “qualcosa che non si compie giunge tuttavia come se fosse sempre già sopraggiunto (…) – scrive Blanchot ne La scrittura del disastro. Se “i frammenti rappresentano separazioni incompiute (…), il loro essere incompleti, insufficienti (…), lasciano che si sparpaglino i segni con cui il pensiero raffigura degli insiemi furtivi che (…) dischiudono l’assenza d’insieme (…), non trovano ciò che li fa terminare, ma ciò che li prolunga , o che li fa entrare in attesa di ciò che li prolungherà, li ha già prolungati” – dice ancora Blanchot; che significa, nel mio caso, entrare in contatto con le promesse mancate, nella prossimità di uno spazio amicale.
Da qui il tema del viaggio, che garantiva alla scrittura quell’imprevisto avventuroso, attraverso il Mediterraneo, quale pretesto e testo, per accorgermi alla fine che di viaggio non si era trattato, ma piuttosto di una fuga, perché quella scrittura in viaggio continuava a cancellarsi scrivendosi, continuava a mancare. Appartenere al Mediterraneo significava appartenere al viaggio e quella appartenenza mi avrebbe dovuto condurre, così pensavo, a un’apertura che si chiama accoglienza. Era “il fuoco del viaggiatore ai tempi del grande freddo della solitudine, l’occhio di chi non teme di assistere alla tragedia, di esserne testimone, nella speranza di preservarne l’umano” (M. Bennis). Viaggiare dunque presupponeva il mio rifiuto nei confronti dei dispositivi di potere dominanti e della lotta sociale ormai al capolinea insieme ai suoi paradigmi, gli anni in cui ero nato e cresciuto, lasciando terreno alla dispersione e alla deriva di cui oggi scorgiamo gli effetti. Per qualcuno dei miei coetanei ha significato svuotare uno spazio dando vita a un conflitto estetico, per altri si è trattato come di un risveglio apparente. Per altri ancora dell’installazione di una scena tramite una lingua, in continuità con il passato. Per altri, ed io tra questi, di aprirsi alla contraddizione di forme di vita cristallizzate nel loro scorrere, e questo rappresenterebbe il dramma dell’uomo contemporaneo, non potendo conciliare, l’una con l’altra, una forma con una vita, in sintesi un’unità. Per qualcuno si è trattato di entrare con coraggio nella frattura di un’epoca al fine di guardare, come anti-dispersivo, il volto dell’oscurità. Ognuno dunque ha cercato il proprio modo di traslocare nelle forme che per natura si negano nella loro transitorietà. Per me è stato il viaggio il motivo dell’oggetto di “redenzione”, nello sforzo di recuperare quel relitto di figure nella storia blindato in ciascuno che tenta di sconfinare laddove non gli è concesso. Nel corpo, nella lingua e nel tempo. Ladro in tal senso, per costrizione e apnea. Così appare in Lettere nomadi, in un breve testo riscritto:

 

Qualche attrezzo
del fallimento all’angolo
c’è il rimorso legato
a un ponte a vista
sul passato
il disincanto nel coraggio
il vuoto bianco
di una pagina
più dell’altro la voce
a traccia del fallito
nella parte scomparsa
il meno illuminato

 

Ma dove non c’è più discorso esistono però delle immagini: afferrano nel suo fondo le vite come delle assenze, che possono tornare alla loro forma per quanto avrebbero voluto. Una delle poesie di Figure mancanti più riuscita tratta proprio di questo scambio con le assenze che, nei drammi individuali e collettivi del contemporaneo (la guerra di Jugoslavia), illuminano una materia nel fondo di una lingua ostacolata dalle macerie e dalle rovine come un possibile spazio di reciprocità. Una lingua che ha sentito il pudore di sconfinare e quasi di provare vergogna:

 

Addormentato sotto i fanali
di un furgone in sosta
nel sonno mi sono seduto
a braccia conserte
a spiare uno scomparso
nella garitta della portineria
nel vano dell’ascensore
l’intuito della memoria
nel sogno delle sue scale
e poi lo stesso volto
nell’insieme degli altri
aspettava nell’eremo
di un solo orario a scambiarsi
articoli poveri con la morte
(scarpe, orologi, specchi…).

 

E presupponeva, il viaggio, il rifiuto categorico di utilizzare il tempo lavorativo senza più un piacere inventivo, salvo la possibilità di una cronaca, non dico di un’espressione; e ogni partenza rappresentava una piccola dichiarazione di guerra alla sottomissione dell’esistere, una rivolta (impotente) contro i suoi dispositivi di controllo, di non-vita. Entrare nella “mente del viaggiatore” (E.J. Leed) significava ricusare il tempo sociale per sperimentare, linguisticamente, un tempo individuale di durate soggettive ignorando la misura del tempo ed esercitando un occhio testimoniale. Cercando di scoprire, in quell’esercizio, ciò di cui si è portatori. Ma non avrei trovato granché, se non una dimensione dispersa nell’erranza, come accennavo, un duplicato fittizio di ciò che nel radicamento non volevo essere. Non avrei trovato quelle forme, non ancora, ma solo altre mancanze, anch’esse omologate, come in quella terra da cui volevo fuggire.

 

Le distanze da superare sono brevi
come le stagioni nella folla
sepolta annunciante
quelle voci furtive
in un accordo di luce
se uomini uguali
si guardassero per un istante

 

Per questo, in un’esaltazione illusoria che presto lasciava spazio al vuoto, il ritorno coincideva con una rottura ogni volta più drammatica, scisso il soggetto tra la decisione di rimandare a un’altra fuga prossima per decidere di non restare e, al contempo, il conforto rispetto alla propria dimora (inabitabile). E rappresentava forse la paura di un ricongiungimento con se stessi, questo il senso del viaggio, ma non con le parti mancanti, che tali rimanevano, in quei confini lontani, mediterranei. L’evidenza della paura nelle pieghe del radicamento.

 

non ha nome
e dorme
chi lo ha perduto
(trovato) (morto)
al sicuro
in ogni madre
e in ogni uomo
il confine avanti
e indietro
nel bisbiglio si ferma
appartato
a un’immagine persa
in bagliori in istanti
pupille distratte
lontananze lo guardano
a trovarsi distanti
e lui non sa più se finisce
ad andare prosegue

 

Malgrado la struttura “narrativa” il soggetto aveva trovato altrove lo stesso mondo che aveva lasciato e la narrazione si ritrovava dispersa, fuori dalle mura della città, che proteggevano momentaneamente dentro un’oasi di sedentarietà, quando ci si sente a casa pur essendo altrove, al sicuro sebbene di fronte a uno scenario traumatizzato (la guerra, il dissenso politico, la lotta per la sopravvivenza, le rovine), con figure che testimoniavano per interposta persona nella loro reciprocità uno spazio di rivendicazione e di risentimento. Penso al viaggio nei Balcani, nel 2011, ai resti della guerra dopo qualche anno, ai quartieri ancora distrutti di Mostar e Sarajevo. La narrazione per frammenti da “personae” disseminate in una geografia di perdita, senza mappa alla mano, voleva disvelare l’irriducibilità di corpi alla ricerca di voci, dove il confine è l’ambiente (dei due libri) come un fuori pagina temporale e spaziale. In questi luoghi si trovava Saban, ad esempio, il custode di Murad reis, sull’isola di Rodi, che raccontava della fine di un’utopia, quella della fratellanza. Oppure la figura di Hasan/Ahmet nel suo doppio che personificava l’uno la fine dell’esperienza possibile e l’altro l’erranza alla ricerca del nuovo attraverso i territori della sua infanzia prima di approdare in un’altra terra (l’America) o in un’altra dimensione (la morte nel deserto).

 

le stesse parole
a separarle dagli italiani
da anni al vuoto
con i tedeschi
di amicizia

dell’abbandono
senza un approdo
quell’arco di tempo
ora riflesso dell’acqua
nei nodi
la sua memoria
navi sospinte
quasi fossero il vento
dell’armistizio
la sua voce nei porti
a oltranza nell’incanto
del perdono
insieme a quei soldati

 

Le lettere nomadi avevano la funzione di criptare i significati consueti, portando le voci da uno spazio all’altro e percepibili attraverso i loro dati sensibili solo a patto di riconoscerne la loro frammentarietà. Pezzetti sottratti al discorso senza possibilità di forma per via di una radice storica sottratta irrimediabilmente all’uomo e ora disabitata. Le personae non potevano più comunicare se non in forme residue, mentre all’orizzonte si intravedeva una guerra, nella lontananza dal contemporaneo, dove nessuna fuga, lì, sarebbe stata possibile se non per estraniarsi quale conforto, cui attribuivo un riparo e che invece rappresentava i margini dimenticati e irrecuperabili rispetto a un linguaggio della storia. Questo si frapponeva tra i corpi corrispondenti. Il frammento annunciava “ogni smarrimento, un’assenza di collocazione e di destinatario, quando il destinatario è il prossimo mai visto che tutela le soglie ultime della reciprocità umana” (Blanchot). Ritornando ci si riscopriva portatori delusi di lontananze cieche, di quei luoghi ignorati a cui nessuno normalmente pensa se non nell’ipocrisia del discorso.

Con Discorso a due, uscito per l’Arcolaio di Gianfranco Fabbri all’inizio di quest’anno, ho esperito più intensamente la parte mancante, a seguito di una vicenda amorosa. Ne è venuto fuori un testo, durante l’estate del 2017. Non avrei mai immaginato prima di scrivere su tematiche amorose e comandato, per giunta, dal solo gesto meccanico della scrittura. È stato quando la voce si è trovata di fronte all’accesso di chi parla e di chi ascolta, come se i due fossero di fronte al loro ultimo compito. Quando la voce accede a un tu che si dimentica di quel corpo che pure la genera. Quella voce che parla a capo di una breccia di immagini ancora strette al sentimento che finisce nel momento in cui si pensa non possa finire mai. Allora delle forme si possono compiere nell’incomunicabile dolore che ha la vastità di uno spazio ancora inesplorato all’interno, che raccoglie quelle parole che gli sono concesse e dove è possibile la materia di un altro soggetto nel suo dire. Si è all’estremità di ciò che pensiamo come vita, nella sua apertura massima, affinché un’altra vita appaia e continui ad apparire, così come è, nella verità nuda della perdita.

 

Nell’intimo regredire
all’innocenza dell’unione
in ogni frase
degli amanti
era la loro immagine
che corrispondeva.
Due cornici sovrapposte
e nel fondo vuote
e all’interno due riflessi
allontanati dai corpi
senza ricordo
né illusione,
soli di una nascita
e di una perdita

 

Nel legame amoroso si aspira alla forma del due che vuole diventare uno senza compromesso, malgrado il gioco sia pericoloso, perché apre a soglie inaspettate e incerte, costringe a una sorta di rottura di sé affinché l’altro possa essere accolto, alterando così le difese della nostra identità. Ma si tratta alla fine di un gioco necessario.

I due del racconto si scambiano le prospettive del sentire, del pathos. Ma l’io che si scambia con il tu non è più già lo stesso, è condotto dal desiderio a cercarsi più che a essere: è in tal senso che l’esperienza della nostra estrema esposizione di fronte all’altro (l’amore) ci apre irreversibilmente a un’identità differente. In tal senso si è permeabili a quella breccia di immagini e a nulla serve la protezione o la difesa, anzi, più la barriera si ispessisce e più è destinata a sbriciolarsi come un castello di sabbia. Perché al tu che riflette non si può sfuggire, né si può sfuggire al suo specchio. A meno che non si voglia vivere mancando a se stessi e all’altro. Per questo l’amore porta in sé la forza della rivoluzione, come esprimeva in una bellissima poesia un amico genovese.

 

Le ha chiesto di entrare
e lei è entrata
in punta di piedi
senza clamore
ne andava fiero
lui invece chiassoso
il cuore gli si
stringeva al cuore
della grande ombra
ogni giorno morente
il cuore e se stesso
ancora una volta
a un calore diffuso
di abbracci
si tenevano stretti
nemici

 

L’uno affamato della prima parte del libro, che ripercorre i momenti salienti della vicenda amorosa, rappresenta il respiro che si vuole nutrire quando si entra nella sfera intima dell’altro, la fame del respiro dell’altro, dove il rischio di perdere la propria integrità individuale è altissimo. Per sfera intima si intende lo spazio in cui l’individuo può esprimere se stesso per quello che è e come tale viene riconosciuto, fuori dai ruoli che è costretto ad assumere in una società che si organizza secondo forme rigide di controllo. Quello spazio in cui è possibile realizzare se stessi, arrivare al proprio sé profondo, dove si ricostruisce l’identità, cioè il proprio sentire profondo, quello che si è autenticamente nello scorrere vitale di ogni istante e che incontra la percezione di sé, oltre le sovrastrutture e gli inganni. Nell’espropriazione amorosa della soggettività si è trascinati oltre la propria identità, si tratta di un violazione reciproca per accedere a una comunicazione più vera, per autenticare il contatto con i propri limiti che sono prossimi all’esperienza della morte, quando l’io e il tu, all’apice dell’incontro, è come se si dissolvessero.

 

Era senza dimora fissa
quando le ha chiesto di entrare
curioso e insaziabile.
Prima le ha chiesto di esitare.
Perché l’incontro fosse vero
le ha chiesto delle prove.
Era passato un anno
da quella prima esitazione
e alla fine le prove erano
solo le prove da superare.
Chiedevano evidenza
a un fantasma – a più di uno –
il seno e le labbra erano
attraenti
e un attimo dopo invisibili

 

Dopo la fine di un incontro amoroso il soggetto coglie la possibilità di riscrivere lungo il solco della sua ferita, di esporsi nella sua franchezza quando non si ha più niente da perdere, non potendo che annidarsi intorno alla perdita. Nella sezione Chi parla si rappresenta l’esito della morte intesa come dolore e disperazione e l’abisso morale che si prova non potendo più servire all’altro. Il soggetto giace annichilito. L’inermità della malinconia è il contrario della vitalità sessuale del piacere. È qui che l’io subisce una estrema dislocazione di sé di fronte al possesso del corpo dell’altro che viene a mancare, conducendolo alla sua nullificazione, alla sua mortificazione. Qualcuno ha definito la malinconia come il trionfo dell’oggetto sul soggetto. Qui si riscontra il procedere dei maestri poeti trovadorici e stilnovisti di fronte all’oggetto che domina. È in questo corpo che, sottratto a se stesso, spossessato dalla parte mancante che lo riempiva, resta ancorato alle sue sole viscere: è qui che danzano, ora trionfanti e commosse, ora anche sadiche e masochistiche, le figure dell’addio e dell’abbandono. I resti del corpo inerme si avvicendano in un teatro interiore, il dramma si scrive nella violenta avversione del soggetto all’elaborazione del lutto amoroso, inscenando le vite delle maschere illusorie e le loro parole per interposta persona, quelle del morto, quello che resta dell’io. Riscoprendole si comprende la natura della propria anima di fronte allo specchio che le raffigura per come sono.

 

L’anima per un materialista
impenitente era una
delle tante forme
della materia anima
e adesso nient’altro
senza più la speranza
nemmeno il timore
e non c’erano colpe
che potessero tradire
senza capovolgere
lo specchio del bagno
con il volto nascosto
Narciso dormiva
sull’acqua del viso
metteva su il sipario
al suo riflesso
tramortito da un sogno

 

Lo spazio conoscitivo si realizza di fronte a quelle figure interiori nella sfera individuale degli affetti e in quella collettiva della convivenza, che smascheriamo a un certo punto, vedendole ora come possibilità amicale. Quelle figure cui i poeti cercavano di scorgere la forma genuina del mito da contrapporre alle falsificazioni da parte del linguaggio storico, barricato dietro alle proprie strutture di gestione del potere. Se l’immagine dell’altro che desideriamo non corrisponde ai nostri limiti, i demoni di cui parla Barthes nei suoi frammenti amorosi escono prepotenti e conflittuali per sovrapporsi a quelle immagini, per soffocarle, per alienarle e costringerle alle loro fattezze negative. Perché nella relazione amorosa c’è sempre tra i due un estraneo minaccioso, un confine paludoso e ambiguo. Solo tradendo il proprio confine si può accedere all’altro per incarnarne il desiderio, ma si è costretti a guardare prima in volto i nostri fantasmi per separarci da essi. La parete bianca delle immagini è coincisa, nel discorso a due, con lo spazio intimo e minimo del foglio.

 

Le braccia profonde
della solitudine
a non temere il peso
hanno imparato

Ma resta il corpo
che vede senza linee
su un telo bianco
il corpo cancellato

 

Sono i fantasmi secondo la tesi per cui la soggettività umana è tale solo in riferimento alla propria mancanza ad essere (Lacan). Gli stessi fantasmi che permettono ogni relazione con i diversi registri dell’esperienza, dal reale all’immaginario e dall’ allegorico al simbolico, al fine di entrare in quel teatro e ritrovare il volto dell’oggetto perduto che motiva la nostra spinta vitale. Entrando nella parte addolorata del suo teatro interiore di ombre, quello del fantasma, il soggetto si siede accanto al suo regista occulto, che circoscrive i confini del suo dramma e della sua possibile liberazione. È risalendo ad esso che prendiamo coscienza del nostro dialogo con le luci e le ombre della natura e della storia.
Persona tra le altre, il soggetto viene preso in uno spazio bianco, viene convocato da ciò che ancora ha da esperire, questa volta come gratitudine all’interno di una rete di perdite, che a tal fine possono diventare solidali. La gratitudine che lascia a ogni traccia di ciò che manca di ritrovare la propria dimora nelle figure dimenticate di sé, indicando una direzione di senso per cui “ogni forma è un volto che ci guarda” (S. Daney).

Almeno di tutto questo frammentario è rimasta fede. E ora non rimane che ri-scriverne.

 

nota bio-bibliografica

Luciano Neri (1970) vive a Genova. Ha pubblicato Dal cuore di Daguerre (Firenze, 2001), con prefazione di Mariella Bettarini. Suoi testi sono apparsi in questi anni sulle principali riviste italiane di poesia, in cartaceo e online (“L’Ulisse”, “Nuovi argomenti”, “Nazione indiana”, “Atelier”, “Formavera”, “l’EstroVerso”, “LPLC”, “La Balena Bianca”). Su antologia e volume collettaneo, invece, sono apparse due sillogi: nel Nono quaderno italiano di poesia contemporanea Mym a cura di Franco Buffoni e Fabio Pusterla e in La poesia Ligure e lombarda del XXI secolo (Trivio, 1), a cura di Marco Berisso e Antonio Loreto. Di recente ha ripreso a lavorare a due progetti poetici incompiuti, Lettere nomadi e Figure mancanti, apparsi in volume in forma parziale nel 2010 e nel 2014. Di quest’anno è il suo ultimo libro di poesia Discorso a due (L’arcolaio, collana Phi). È tra i redattori di “Nuova Ciminiera”.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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