ph Vito Panico

Il battito d’ali del disastro

Anni fa c’era un’immagine che non voleva saperne di uscirmi dalla testa, un fotogramma da road movie in cui una donna parte per un viaggio insieme ad alcuni amici. La donna vuole trovare una ma’ara, in siciliano una maga, una di quelle figure della Sicilia arcaica che compivano azioni magiche tipo far innamorare un uomo o proteggere persone e bambini dagli spiriti o dalle fatture in cui la vittima dell’incantesimo è come “legata” da un intervento esterno e non riesce più ad agire liberamente.
La donna del mio fotogramma ha intenzione di chiedere alla ma’ara di aiutarla ad avere un bambino, e gli amici sono lì per sostenerla. Tuttavia, ognuno di loro nasconde un difetto originario; il luogo da cui provengono è stato colpito molti anni prima da un evento traumatico di cui, come in un libro di Krasznahorkai, non sappiamo nulla: un evento che ha fatto sì che questi amici si trasformassero, ognuno in modo diverso, in creature incapaci di trovare una direzione.
Nel 2007 ho scritto un libro che rievocava il trauma della mia famiglia, ovvero il terremoto del Belìce del 1968; da allora sono passati diversi anni, ma la metafora della terra che si spacca e inghiotte le vite degli esseri umani – in generale, direi, la metafora del disastro (da qualche parte sento sempre la voce di Blanchot che sussurra: Il disastro si prende cura di tutto) – è ancora quella che mi contiene in modo più completo, nonostante la baraccopoli non esista più e il terreno sia apparentemente solido sotto i miei piedi.
Nel frattempo, la nostalgia non ha fatto che espandersi invece che ridursi; con gli anni ho capito che l’isola è una madre con cui ho un conto in sospeso, e per pagare questo conto ho fatto il giusto spazio per infilarci sia la nostalgia per un luogo dell’immaginazione che quella per una madre abbracciata troppo poco. L’isola è al tempo stesso una cattiva madre che ti nutre poco e male, lasciandoti insoddisfatta a elemosinare nutrimento per il mondo, e un miraggio dalla forma e dai contorni incerti, un miraggio che immagini debba essere bellissimo, una volta raggiunto, e non dubiti che prima o poi lo raggiungerai. In alcuni romanzi di scrittori siciliani (Bonaviri, a cui è dedicato il testo che segue, Consolo, Vittorini) è ben presente il topos dell’attraversamento del paesaggio; i personaggi viaggiano per arrivare da qualche parte, come i pastori di Vittorini, o per portare a termine un compito metafisico (i viandanti di Bonaviri, per esempio, che attraversano le campagne attorno a Mineo per innestare il corpo di un neonato in un albero, sperando così di ridare vita al corpo morto del padre del protagonista). Il paesaggio siciliano, nella realtà, è composito, antropizzato sulle coste, quasi deserto al suo interno. È una madre dal passato mitico che è stata molto maltrattata nei secoli; aveva molti doni da offrire, e adesso i suoi figli lamentano una povertà che possono addebitare solo a se stessi. In un codice del 1390 circa è raffigurata una pianta di mandragora dalla forma di bambino. È un homunculus, radice dalla forma vagamente umana che nel Medioevo si credeva avesse dei poteri magici e potesse, tra le altre cose, sconfiggere il malocchio e la sterilità. Questo bambino-pianta, potente e notturno, possiede un doppio segno, potendo essere utilizzato sia per la magia bianca che per quella nera, ma rappresenta ogni madre e ogni bambino, perché madre e bambino desiderano sia la simbiosi che la separazione.
Quando iniziai a pensare a un libro di viaggio in Sicilia, il bambino-pianta rappresentava l’ambivalenza della terra in cui può germinare ogni sorta di creatura: è il dominio dell’indifferenziato, in cui può nascere letteralmente tutto, per questo il personaggio di Notti sull’altura di Bonaviri si illude che la forza che l’ha generato possa rinascere ancora:

Raccontami di nuovo la storia del bambino
che al tramonto strapparono alla madre
per innestare il suo corpo nel carrubo,
perché dalla circolazione di linfe e succhi
gli uomini ricavassero nuovo nutrimento.
È il padre che deve cibarsi dei frutti di questa pianta,
mangiare carne giovane mescolata a foglie,
in modo da tornare dalla morte al figlio che lo cerca.
Raccontami ancora come il figlio si illuse
di riportare il padre sulla terra e ribaltare le leggi di natura,
di come la madre si trovò perduta, in mezzo alla terra,
perduta, e poi che trovò il figlio-pianta sul punto della morte,
lo abbracciò dimenticandosi tutta l’altra vita.

In Sicilia, l’archetipo della figlia è naturalmente Persefone, la fanciulla rapita per diventare moglie di Ade e poi riportata sulla terra per passare sei mesi all’anno con la madre Cerere. Come scrive Louise Glück nel suo bellissimo Averno, nessuno si disturbò a chiedere a Persefone cosa volesse veramente. Lo scenario del suo rapimento è il lago di Pergusa, oggi quasi completamente nascosto per far spazio a un autodromo. Sulle rive del lago di Pergusa l’aria sembra immobile, quasi sospesa; è questa la casa di Persefone?, ma soprattutto, “la terra è “casa” per Persefone? / È a casa, plausibilmente, nel letto del dio? / È a casa da nessuna parte?”.
Quando ho visitato il lago di Pergusa ero inconsapevolmente a caccia di tracce divine; arrivata allo zenit del sole in una luminosa giornata di dicembre non potevo fare a meno di chiedermi: Persefone è ancora qui? Da qualche parte nel paesaggio è possibile intravedere la presenza divina? Tra le canne del lago si intravedeva un pollo sultano, animale mitologico dalle penne blu rappresentato nei mosaici di Piazza Armerina, dato per estinto e misteriosamente riapparso intorno agli anni ‘70. I segni ci sono, basta saperli vedere. Il verde meraviglioso della campagna intorno a Enna e Aidone è un segreto tenuto fin troppo bene, dev’esserci per forza lo zampino degli dèi.

Per iniziare a scrivere il suo poema,
Eliot aveva deciso di aspettare la primavera,
o almeno una stagione di quiete,
qualcosa che assomigliasse a una tregua.
Non sapeva che avrebbe avuto bisogno
di una guerra, o almeno di una siccità,
una condizione che dall’esterno avremmo potuto
associare a una moglie pazza, ma mai, mai
a un impiegato della Lloyds Bank.
Avrebbe avuto bisogno di tempo, anche,
e del dottor Vittoz che, premendogli
la mano sulla fronte, gli indicava dove
distogliere gli occhi, la calma che serve
quando niente è da perdere ormai.
Fuori dalla finestra, sul lago Lemano,
insisteva il battito d’ali del disastro.

Nel 1992 il regista americano Bob Wilson portò nella mia città, la Gibellina nuova ricostruita dopo il terremoto, un adattamento de La Terra desolata di Eliot, uno spettacolo sulla genesi del poema, scritto perlopiù nel sanatorio svizzero di Losanna in cui Eliot fu ricoverato nel ’21. Il manifesto dello spettacolo era una rielaborazione del Cretto di Alberto Burri, l’enorme opera di Land Art che copre le rovine della città vecchia, e due versi del poema accompagnavano l’immagine: “C’è solo ombra sotto questa roccia rossa / (Venite all’ombra di questa roccia rossa)”. Ho portato con me questi versi come un mantra per anni; li porto con me come un bagaglio di necessità leggero, ed è con leggerezza e con un’inspiegabile consolazione nella desolazione che li ripeto ancora, specialmente nei giorni in cui non trovo acqua o ombra: Vieni all’ombra di questa roccia rossa.
Nelle settimane in cui Eliot fu ricoverato nella clinica del dottor Vittoz scrisse buona parte del testo che poi, revisionato da Pound, sarebbe diventato La Terra desolata, ma soprattutto si riprese, grazie al trattamento del medico svizzero a base di massaggi alla testa e ordini a cui obbedire, dal crollo nervoso che l’aveva costretto al riposo forzato. “Nevrastenia” è la diagnosi di Vittoz, con sintomi che vanno dall’abulia all’insonnia alla sensazione di non controllare più la propria mente. Il sovraccarico emotivo di cui Eliot soffre contribuisce all’identificazione con Tiresia, il veggente che porta su di sé tutti i mali del mondo, colui che ha “presofferto tutto” e, come lui, porta su di sé i segni di una crisi che, come dimostra la sua biografia, è anche personale.
La terra desolata è, per me, il racconto del Novecento, e la metafora della terra racchiude tutti i disastri di cui il Novecento è stato capace. Molti sono stati naturali, come il terremoto che ha distrutto la mia città, ma la maggior parte non lo sono affatto, come il disastro nucleare di Chernobyl. Avevo dieci anni, e lo ricordo perché per settimane non mangiammo verdure né insalate, ma avevamo paura di consumare anche altri alimenti. A distanza di trent’anni la zona di alienazione è diventata un vero laboratorio postumano che mostra cosa potrebbe diventare il nostro pianeta se l’uomo si estinguesse: la Foresta Rossa adesso è una sorta di riserva naturale dove gli animali selvatici vivono liberamente e proliferano senza la pressione dello sfruttamento umano:

A Chernobyl, dopo l’evacuazione, i veicoli sono rimasti sulla strada.
La ruggine non aveva fretta, i bambini crescevano come capitava,
nessuno poteva pretendere attenzione. In pochi giorni
tutto è stato liquidato, una rincorsa a fuggire la nube.
A che serve coltivare le arti del passato, i gesti classici,
quando la terra muore? Non c’era accordo, invece,
su cosa fare delle rovine, nessuno ha pensato a liberare
le vecchie case dai mobili, dai materassi, le bottiglie.
Il cinghiale e la lince corrono molti rischi, ma possono sempre
tornare dalla preda, la foresta fa un silenzio che dice la verità,
gli animali ricordano l’uomo, ma in modo confuso
nella zona di alienazione le categorie si sono mescolate,
ben presto, le foglie hanno cambiato forma e colore.
Il mondo sta aspettando di diventare un altro mondo.

Come immaginare il disastro?, mi sono sempre chiesta. Il disastro è stato fotografato, ad esempio, da Robert Polidori nelle sue foto di Chernobyl, con gli oggetti quotidiani abbandonati lì dopo l’esplosione, ma è presente in innumerevoli altri luoghi: paesi abbandonati, città distrutte da eventi naturali. Il disastro è la verità dei luoghi, o almeno così sembra, ma la terra possiede una storia più complessa e misteriosa, fatta di ritorni e sopravvivenze, di cicli che finiscono e ricominciano, “di vecchie pietre che non si possono decifrare” (sempre Eliot), perché sono, da sempre, serenamente indifferenti.

 

nota bio-bibliografica
Marilena Renda è nata a Erice nel 1976 e ha vissuto a Palermo, Roma e Milano. Ha tradotto diversi libri dall’inglese e dal francese e conseguito un dottorato in Italianistica su ebraismo e letteratura nel ‘900. Vive a Bologna, dove insegna inglese. I suoi libri sono: Bassani, Giorgio. Un ebreo italiano (Gaffi 2010), Ruggine (dot.com press 2012), Arrenditi Dorothy (L’orma 2015), La sottrazione (Transeuropa 2015), Regali ai fantasmi (Mesogea 2017). Con il poema Ruggine è stata finalista al premio Delfini 2009 e al premio Carducci 2013.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

Potrebbero interessarti