Daniela Andreis , “La poesia ha la capacità di magarti”

rubrica (tre poeti, tre riflessioni, tre poesie)

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

La poesia ha molto a che fare con la botanica e con la prestidigitazione. Sono due mondi distanti, ma entrambi mi aiutano nel compito improbabile di fissare una definizione della poesia che, insieme all’amore inenarrabile, come dice Osip Mandel’stam, e alla grazia, quella somma di caratteristiche ed elementi e gesti e colori e suoni che danno ad una cosa o ad una persona un tratto unico, è infinitamente nominabile e quindi non lo è mai, nemmeno se dovessimo passarci la vita. Certo, ogni volta lo facciamo, cerchiamo di definire cosa sia. Quindi forse è una spora che attecchisce dopo aver trovato una terra solo sua, solo in quel punto, con quella temperatura, quel clima, quell’accoglienza che ci vuole per la parola ed anzi, farsi il terreno della parola. Lasciare al germoglio di diventare, di nascere per sua forza interna, rispettarne la fragilità e la misura. Ed è anche la parola che te la fa sotto il naso: essa ha più capacità di magarti di quanto tu possa mai opporti alla trasformazione che avviene perché la lasci avvenire. E ti toglie il respiro.

Qual è il ruolo della vita nella tua poesia?

La poesia, che è creazione, non esiste senza il luogo del creato, senza la vita nata. Quando scrivo, sento la vita, compresa la sua fine, più che in qualsiasi altra occasione, perché, come dicevo prima, so che sto posando le parole nella terra, sto coltivando qualcosa e non sempre verrà su bene, ma non fa niente, devo farlo, così potrò vedere la mia piccola vita e so anche che spessissimo ne sarò sorpresa, non sempre positivamente, ma occorre guardare la vita o attenderla o pregare che sia.

Qual è il momento in cui una poesia può dirsi compiuta?

Quando emette il suo ultimo suono. Se non suona tutta, non è compiuta, se non lascia vibrare una nota a lungo, come uno scampanio lontano, allora non è compiuta. Se non hai pianto tutto o detta tutta la gioia, la meraviglia, non è compiuta.

*

 

Tre poesie, da L’ottavo giorno della settimana (LietoColle)

*

La promessa dell’autunno
e questi fiori di menta, l’appunto,
mi appunto
la mela marcia, le mani svilite sul bancone,
gli occhiali da pulire
il quarto pianto, il quatto fiato
l’eccessivo sforzo dell’orologio
il legno che si deve tenere stretto
per scorticarlo
il sughero intagliato
la stupidità che mi viene a galla
il caro libro sulla piena, la pena
di smarrirti non appena.

*

Per tutta la notte
ho provato a dividere le mele:
ero svelta, ricordi?
Forse mi ha soprannominata
figlia del calibro;
ora ho perso l’abilità,
sii indulgente
ho antiche tenerezze
nuove debolezze
assaggio sempre il frutto
che non avrebbe mai profumato
sul nostro tavolo
e il tempo scaltro, lo sapevi,
ci caccia passo passo dal solco
dal sole puntato col compasso.

*

Forse non piangi più
e sei lontano come giove
dalla commossa erosione
che mi dava la tua voce;
quel silenzio lungo
che sentivi
ero io
che lasciavo il miraggio
accadere,
farmi un cadere
come clessidra
grano per grano
e poi girarla
e ancora rovesciarla;
tempo al tempo,
nessuno formava così bene
il mio deserto.

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